COGITO ERGO SHEED






«Se fossi un general manager sarebbe la mia prima scelta».
Faccio mie le parole dettate nel 2000 a Sports Illustrated da Vlade Divac, all’epoca centro dei più esaltanti Sacramento Kings che si siano mai visti. Le faccio mie per dire che Rasheed Wallace è stato sì un fenomeno mediatico in scarpe di gomma, una testa matta e geniale, ma prima di tutto un giocatore di basket formidabile, e resta oggi un uomo magnifico.




Nella sessantennale storia della National Basket Association sono stati diversi i fuoriclasse che hanno segnato la loro epoca, quelli per i quali si è speso l’aggettivo “irripetibile”, salvo poi mettersi subito alla ricerca dell’erede. Un controsenso per certi versi, ma non quelli solcati dal product placement.


In fondo, e nemmeno tanto, la Nba è un prodotto da vendere, quindi ha bisogno dei suoi testimonial, che devono essere fortissimi e unici, appunto. Ma anche intercambiabili, altrimenti il nuovo prodotto chi lo compra? Nonostante tutto però il basket, lo sport, noi tutti esseri umani, abbiamo bisogno anche di chi ci dica che si può fare in un modo diverso: si può essere unici perché scomodi, bellissimi e arrabbiati.

Per questo è legittimo dare il cuore a Rasheed Abdul Wallace (come il califfo che Sherazade intrattiene nelle Mille e una notte) nato a Philadelphia il 17 settembre 1974, terzo figlio della signora Jackie. Probabilmente l’unica forma di autorità incarnata capace di tenere a bada quest’uomo, dalle sembianze «di un principe africano» (Federico Buffa dixit) con un pennacchio biondo in testa, che dentro è un vulcano privo di fasi di riposo. Rasheed è quel tipo di persona per cui perdere la testa e farsi il fegato grosso, quella con la quale litigare ogni giorno che tocca vivere, ma per il semplice fatto che non puoi fare a meno di sentire che c’è. È un grumo di rabbia senza fine che trova il suo corrispettivo soltanto nel talento e nella sapienza su un rettangolo di legno.

DUE O TRE COSE CHE SO DI LUI

Quando mamma Jackie lo porta da coach Bill Ellerbee ha già capito da tempo che questo figlio piacerà a molta poca gente. Quello che non sa è che per questa parte di mondo sarà un idolo, una fonte di ispirazione, il primo amore. Mama J sa anche, e lo dice immediatamente al prof di matematica e allenatore di basket della locale Simon Gratz High School, che farsi ascoltare da Rasheed è quasi impossibile, così il consiglio è chiaro e forte: «Lo prenda a schiaffi».



Ellerbee lo farà, ma non soltanto sul coppino come invece suggerito dalla signora Wallace, bensì mettendo sotto quel lungagnone dalla lingua affilata. Lo fa esordire appena quattordicenne nel quintetto-base e ce lo tiene per quattro anni.

Con Rasheed domina il campionato statale, ed è due volte miglior high school d’America, ma non ci mette un secondo a farlo stare mezza partita in panchina perché il coach non transige sul look afro dei suoi capelli.

Al terzo anno Wallace fa di media 17,5 punti e 17,7 rimbalzi, non accetta che la squadra sia costruita attorno a lui, ma è fatale che i compagni ne seguano il gioco.

Perché lui già conosce il Gioco, lo conosce istintivamente, e saranno diversi gli allenatori, dopo Ellerbee, che diranno: è lui che allena noi e non il contrario. Molti più di quelli con i quali andrà d’accordo.

Nell’anno da senior Rasheed Wallace viene nominato miglior giocatore d’America da Usa Today, entra nel primo quintetto All-America, ma lo fa con un piccolo particolare: gioca in media 19 minuti a gara (per quella questione dei capelli), mettendo a referto 16 punti, 15 rimbalzi e 7 stoppate. Ancora nessuno lo chiama così, ma questo è Sheed.


Uno sì, in realtà: Tennis Young, cioè l’allenatore del playground, quello che forse l’ha meglio capito e che ha inciso fortemente nella visione del gioco di Rasheed. Young gli consiglia di lasciar stare il post basso, di uscire dall’area e tirare-tirare-tirare, quando e come preferisce. Già, perché il ragazzo tira con la destra o con la sinistra indifferentemente. Young insegna a Sheed anche a tirare fuori i sentimenti, ed è forse a lui che dobbiamo tutto l’amore che il nostro cuore sa generare.


Per capire Rasheed Wallace è fondamentale tener presente da dove viene e cioè Philadelphia. Okay, ma non basta. È figlio della Philly dei Black Muslims e sente fortemente, visceralmente, la propria appartenenza. Per questo motivo gli uomini importanti della sua vita saranno solo neri e le donne importanti solo due: la mamma e la moglie Fatima, l’altra che, a suon di coppini, sa tenerlo a bada. Per questo, al momento della scelta del college, nell’estate 1992, lui vorrebbe andare a Georgetown, coach e clima a lui congeniali, grande tradizione nel forgiare i lunghi (Mutombo, Ewing, Mourning). Ma la mamma preferisce North Carolina e Rasheed va a Chapel Hill.

A dire il vero Georgetown, dimostrando scarsa lungimiranza, gli preferisce Othella Harrington. Per carità, Othella farà la sua discreta carriera in Nba con 11 stagioni tra Houston, New York, Vancouver e Charlotte (se sei grosso e nero, un contratto lo strappi sempre) a 7,5 punti di media. Ma dall’altra parte c’è un All-America e Dean Smith, mitologico coach di North Carolina, quello che ha letto Michael Jordan come fosse il giornale del mattino, lo capisce al primo allenamento. Dean Smith è totalmente rapito da Rasheed Wallace, non corrisposto, perché per innamorarsi basta un’ora ed è giusto così.

A North Carolina resta due anni, impara parecchio dagli insegnamenti di Smith e gioca bene, sfiora anche il titolo Ncaa, perso nel 1994 contro Arkansas, ma non vi lascia il cuore, figuriamoci. E fa quello che nessuno aveva fatto mai: abbandona la canotta celeste per fare il salto tra i professionisti.

Ed è là che ci siamo incontrati.

HELLO, IT’S ME

All’epoca, è l’estate del 1995, io ho una decina d’anni e l’Nba significa Ugo Francica Nava su Telemontecarlo e American Superbasket ogni mese in edicola, non posso dimenticare nemmeno il Televideo, dal quale leggere le statistiche delle varie conference e i risultati del giorno prima. Sembra una vita fa e lo è. L’Italia non pare molto interessata a quella meraviglia che già è il campionato americano, forse perché lo comunicazioni transoceaniche sono ancora costose o forse perché neanche da noi la pallacanestro è proprio da buttare.


Arriva il 28 giugno, i Rockets sono i freschi bicampioni avendo battuto in una serie breve eppure drammatica gli Orlando Magic che mi erano molto simpatici. Erano colorati e avevano Hardaway, Shaq magro e Nick, ribattezzato proprio in quell’estate dispari “The Brick”, Anderson.

Il ricordo dei quattro liberi consecutivi sbagliati dalla guardia di Orlando sono quello più vivido che ho di tanti anni passati a guardare partite. I Magic stanno mettendosi in cascina la prima vittoria casalinga nelle Finals e la sua mano si fa di pietra. E parliamo di uno che viaggiava al 70% dalla linea della carità. Anderson sparisce e con lui i suoi compagni: Orlando perde 120-118 gara-1, e poi le successive tre. Quella notte ho capito che lo sport non è solo allenamento e atletismo, tattica e tecnica, c’è quella parte di umano che è ovvia, ma che troppo spesso si dimentica, soprattutto ad alti livelli.

Sono molto dispiaciuto per quello che ho visto, ne parlo con tutti, o meglio ne parlo a tutti, visto che i miei amici dell’epoca non sono molto interessati all’argomento, figurarsi i miei genitori che non guardavano nemmeno il calcio, neppure la nazionale ai mondiali. Allora come oggi non era facile avermi attorno. Ma sono anche felice perché il mio idolo di allora si chiama Robert Horry e gioca a Houston, è alto e grosso ma tira da fuori. "Big Shot" Rob, l’ala grande dei sogni per chi come me è sempre stato costretto a giocare sotto canestro per la stazza, ma non ne ha mai avuto l’attitudine.

Insomma quel 28 giugno faccio la conoscenza del giocatore che mi farà dimenticare il primo amore. Rasheed Wallace viene scelto col numero 4 dai Washington Bullets, prima di Garnett e dietro a quello che tutti aspettano come il nuovo fenomeno: Joe Smith. Lo stanno aspettando ancora oggi. Davanti a lui pure Antonio McDyess, uno che sarà davvero un fenomeno a Denver prima di sbriciolarsi il ginocchio due volte e finire a fare il cambio di Sheed.


Ecco, proprio nella stagione in cui Horry si confermerà per l’ultima volta Big Shot, vestito di bianco e nero texano, infilando una serie di triple da fantascienza nelle gara-5 delle Finals contro i Pistons. San Antonio vince il suo secondo titolo, Horry si infila il settimo anello della sua carriera (più di chiunque altro non abbia giocato a Boston nei ’60, ma il mio cuore batte ancora per Sheed, che quella sera sbaglia completamente un raddoppio e lascia l’amante tradito libero di segnare.


I Bullets in cui arriva Sheed sono un meraviglioso e terrificante circo Barnum. Washington è una città violentissima (tanto che lo stupido nome Wizards verrà scelto due anni dopo per indorare la pillola, forse), così che non gli manchi Philly. Ci sono poi due talenti enormi e inespressi, il che non fa mai male, e che giocano nei suoi ruoli: Chris Webber e Juwan Howard, la gru George Muresan, il re del tiro da tre Tim Legler e i fratelli Price pettinati come i Kennedy. Una squadra che soltanto sfiora i play-off, ma che in compenso esplode in un anno, disseminando parti di sé in tutta la lega.

Rasheed è chiuso da Webber e Howard e così accetta lo scambio con Rod Strickland che lo porta a Portland. Anche lì trova un bell’ambientino: quella squadra nel 2000 prenderà il nomignolo di Jail Blazers. Sheed ci si trova bene e vi resta otto anni.

A Portland trova un roster molto più competitivo rispetto a quello di Washington. Wallace diventa subito il terzo marcatore della squadra, e dopo un periodo di esitazione gli viene dato il ruolo di ala grande titolare.

Nella stagione 1996-97, per la prima volta in carriera, gioca i play-off, ma i Blazers vengono eliminati al primo turno dai Los Angeles Lakers. L’anno dopo, con il nuovo coach Mike Dunleavy, il suo peso all’interno della squadra cresce ancora, dato che il suo minutaggio sale da 30 a 37 minuti a partita. Dietro Isaiah Rider e Arvydas Sabonis è ancora il terzo marcatore di squadra. Nei playoff arriva però un’altra eliminazione al primo turno, per mano sempre dei Lakers.


Nella stagione corta 1998-99 i Blazers diventano una delle potenze della Western Conference: nei play-off eliminano prima i Phoenix Suns e poi gli Utah Jazz; devono però arrendersi in finale di conference contro i San Antonio Spurs.

Per Wallace quei play-off sono la consacrazione al livello di stella, dato che su un palcoscenico importante duella alla pari con gente come Karl Malone e Tim Duncan. Si trova nella situazione ideale, una squadra forte e senza prime donne.

L’anno dopo, con le aggiunte di Steve Smith e l’esperienza di Scottie Pippen, i Blazers riprovano l’assalto alla finale NBA. In stagione regolare Wallace è il primo marcatore di squadra con 16,4 punti a partita. Nei playoff i Blazers eliminano prima i Minnesota Timberwolves, poi gli Utah Jazz, ma sono sconfitti nella finale di conference dai Los Angeles Lakers, al termine di sette partite molto combattute.

I Blazers di quegli anni solo poesia pulp

L’ennesima sconfitta coi gialloviola rovina l’amalgama di Portland: finiscono i tempi delle vittorie e cominciano quelli delle scelleratezze. Arrivano Dale Davis e Shawn Kemp. Nonostante l’ottima regular season da 50 vittorie, arriva l’ennesimo stop nei playoff contro Los Angeles. Rasheed comincia a essere fuori controllo: durante quella serie lancia un asciugamano in faccia a Sabonis e il centro lituano decide di andarsene, e Sheed si fa arrestare insieme con Damon Stoudamire e Qyntel Woods per possesso di marijuana.


Soprattutto, inizia a distruggere i record di falli tecnici. Ha sempre avuto un rapporto conflittuale con gli arbitri, che definisce felloni e in generale disprezza, perché li vede come corpi estranei al gioco e che però da esso vogliono trarre visibilità.

Si scontra con tutte le casacche grigie, ma soprattutto con quelli bassi e bianchi (e bianchi e bassi lo sono quasi tutti). Il punto più basso lo tocca una sera del 2003 contro i Grizzlies, Wallace ha messo a referto 38 punti (lui è «shotter») quando Tim Donaghy gli fischia un tecnico dall’altra parte del campo rispetto a dove si trova Sheed. Nel tunnel che porta agli spogliatoi il giocatore grosso minaccia il piccolo arbitro e si becca sette gare di squalifica. Un record senza che in campo ci sia stata condotta violenta.

A metà 2004 Rasheed viene fatto fuori nell’opera di repulisti che Portland sta portando avanti per togliersi di dosso il nomignolo e gli occhi degli alti papaveri della lega. Gioca UNA partita con Atlanta, dove ne mette 20 per la statistica, e poi approda alla corte di coach Larry Brown a Detroit. Lui è il tassello che manca ai Pistons, è l’idolo di Chaucey Billups e ne diventa grande amico e Brown lo adora.

Detroit è quello che Portland, per un pelo, non è riuscita ad essere: un meccanismo perfetto dove tutti giocano per un’unica causa: il titolo. E l’anello arriva, meraviglioso e giusto, come un giorno di sole a dicembre. Rasheed diventa campione e lo fa contro i Lakers, che lo quando era in Oregon lo avevano sempre sconfitto. Inoltre, batte in un colpo quattro figurine: Kobe, Shaq, Malone e Payton. Deve essere stata una notte stupenda per lui. Si fa allargare l’anello per infilarselo al dito medio: genio.

L’anno dopo c’è la Revenge di "Big Shot" Rob, e poi seguono tre finali di conference perse consecutivamente contro Miami, Cleveland e Boston.

Nel luglio 2009 si accasa proprio in Massachusetts e fa in tempo a perdere di nuovo un anello, ancora contro i Lakers. Decide di smettere subito dopo quell’ennesima disfatta, i biancoverdi sembrano disperati ma poi firmano Shaquille O’Neal, sai com’è.

Sheed campa di rendita per due anni e poi torna a giocare a New York, perché gli va e perché è amico di coach Mike Woodson. Resta giusto il tempo di ruggire il suo più famoso «Ball don’t lie» in faccia al povero Luis Scola e farsi idolatrare dal Madison Square Garden, dove la gente ormai ha messo una pietra sopra ai sogni di gloria, ma sa ancora riconoscere il genio.

Già, il genio. Quello su cui, come disse Victor Hugo, «non si cavilla». Aggiungendo che «il Genio è un blocco, bisogna accettarlo per intero o respingerlo come tale. Il Genio non ha difetti, i suoi difetti sono semplicemente il rovescio delle sue qualità».

Ce lo ha ricordato un uomo che di basket ne ha visto tanto, e cioè Flavio Tranquillo, che quel tipo di Genio è Rasheed Wallace. Fenomeno quando voleva lui, incapace di creare un rapporto di connessione umana con molti compagni, moltissimi allenatori e avversari, tutti gli arbitri.

Uno che ha criticato a viso scoperto la Nba, dicendo che non è giusto che essa si serva di ragazzi giovani e inesperti per portare avanti il proprio carrozzone. E pazienza se poi la maggior parte finisce tranciata. Ha passeggiato svogliato in un All-Star Game (anno 2008) perché richiamato a forza quando era pronto per un weekend con la sua signora.


Lui faceva 8/10 da tre in riscaldamento con la sinistra, lui a 36 anni stava per scippare l’anello al Buddha col gessato Phil Jackson, facendogli vedere per 36 minuti di che colore sono gli inferi. Lui, Rasheed detiene il record assoluto di falli tecnici fischiati contro e per tre anni in fila è stato primo in questa speciale classifica, uscendone bianco come un giglio.

Lui è Sheed, ti fa tutto questo e poi si prende anche i complimenti, ma ciò che gli interessa è: «CTC, cut the check».

(disegno di copertina a cura di http://fanciullodelghetto.blogspot.it/)

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