FREE FARMER DARKO
DANIELE VECCHI
La giornata tipo - 7 SETTEMBRE 2017
I party dei giocatori si fanno all’All-Star Game. Regola non scritta.
Nella città che a febbraio ospita le superstar Nba, il venerdì, il sabato e la domenica dopo la partita tutti i giocatori dell’All-Star Game prenotano un locale, uno spazio, uno yacht, una discoteca, dove portano tutta la loro crew con tutti gli annessi e connessi.
Persino Darius Miles nel 2001 ha avuto il suo party a Washington, dopo essere stato selezionato per il rookie challenge. Quindi il party, in questi eventi è una cosa accettata, sdoganata e incentivata, così i giocatori un po’ fanno un break, pronti per rituffarsi nella seconda parte della regular season.
Ma cosa succede invece, agli occhi dei tifosi, di un coaching staff, di un club, degli executives che hanno speso soldi e energie per crescere e migliorare un prospetto, quando questo prospetto si dimostra capriccioso, deconcentrato, con poca/zero voglia di lavorare e di migliorare, e soprattutto organizza un party nel suo yacht LA SERA PRIMA DI GARA 5 DELLE FINALI NBA IN CUI E’ IMPEGNATO?
Non un party sobrio, tipo un party con due amici e due chiacchiere sulla partita fondamentale del giorno dopo, un party con TUTTI i crismi del wild party sul lago Michigan, su uno yacht di un ragazzo straniero arricchito e terminato alle sei di mattina, con buona pace di chi poche ore dopo doveva e poteva laurearsi campione Nba in uno dei più grandi upset della storia della lega.
Il party fu organizzato da Darko Milicic, sul suo yacht.
Milicic fu seconda scelta assoluta all’Nba Draft del 2003, dietro LeBron James, e davanti a Carmelo Anthony, Chris Bosh, e Dwyane Wade, in un Draft in realtà non così entusiasmante, se si escludono James, Anthony, Bosh e Wade.
Photo by Jesse D. Garrabrant/NBAE via Getty Images
Si parla infatti di Chris Kaman, David West, T.J. Ford, Kirk Hinrich, Josh Howard, Leandro Barbosa, Kyle Korver, tutti ottimi giocatori, qualcuno anche campione Nba e All-Star, ma niente di paragonabile ai quattro futuri Hall-of-Famer, e non paragonabili, dall’altra parte, a Darko Milicic.
In molti sostengono che Milicic sia stato il più grande "pacco" mai arrivato alla Lottery.
Non c’è Kwame Brown che tenga, lui ora è nei Big 3 quindi è mediaticamente riabilitato, mentre Darko ormai fa il contadino in Serbia, senza nessun prime time da riempire e senza nessun reporter inviato nella sua fattoria a contare quante mele abbia raccolto nella ultima stagione.
Il fallimento di Milicic nella Nba è stato un insieme di molteplici cause.
Forse la più rilevante è stata la superficialità di valutazione da parte degli scout dei Pistons, assieme ovviamente all’allora GM Joe Dumars.
Poche fonti, frammentarie, approssimative, generali, come analizza lo stesso Dumars dopo dieci anni da quella scelta: “è stato un errore, certo, sceglierlo con la Numero 2, le fonti che avevamo erano poche, ci siamo fidati. Da quel momento, abbiamo imparato la lezione, le informazioni e lo scouting sul giocatore che scegliamo sono numerosissime. Quando abbiamo scelto Darko, lo abbiamo fatto con il 20% delle informazioni rispetto ai giocatori che scegliamo adesso (2012, ndr). Ad esempio, Andre Drummond è stato scelto con grande cura”.
Ma non fu un errore solamente di Dumars e dei Pistons. A quel tempo, the real sensation era quella di cercare in Europa un nuovo Dirk Nowitzki in fasce, da crescere, da costruire e da rendere un vero giocatore Nba.
E chi meglio di un grezzo ma talentuoso diciassettenne di 2 metri e 15 centimetri con la classica cattiveria agonistica degli slavi, poteva rendere nel ruolo di quello stereotipo?
Dumars non era il solo a pensarla così, molti altri GM di quel tempo avevano sulla propria agenda il nome di Darko, la ricerca del talento in Europa era, nei primi anni 2000, una febbre, che in alcuni casi valicava anche i confini del buon senso e della reale obiettività degli scout.
A quel tempo Milicic era paragonato a Kevin Garnett, come potenziale, addirittura Chad Ford di Espn riportò questa dichiarazione anonima fatta da un dirigente Nba di quel tempo:
“Più di Dirk Nowitzki, Vlade Divac e Pau Gasol, Darko Milicic è un giocatore che può fare la differenza in post basso. Il suo allenatore all’Hemofarm gli sta insegnando a giocare in area, e ora come ora (prima del Draft, ndr), già ha delle movenze che mi ricordano Hakeem Olajuwon”.
Chad Ford, uno dei giornalisti più esperti e taglienti degli States, fu tra i primi a vedere Darko, in una innevata trasferta jugoslava durante il campionato, nel gennaio 2003.
Già non si erano spenti gli echi della delusione di Kwame Brown, che abituato a dominare tra i ragazzini della high school, si trovava in grande difficoltà contro i giocatori Nba, mentre si paventava lo stesso pericolo per LeBron James, abituato a maramaldeggiare alla St. Vincent/St.Mary.
“Io non gioco contro i ragazzini, gioco contro uomini” disse Darko, quando Chad Ford gli parlò di LeBron James che stava spopolando a St. Vincent/St. Mary, e che probabilmente sarebbe stata la scelta Numero Uno del prossimo Draft.
A Darko piaceva molto Kevin Garnett (“gioca con il cuore, come noi serbi” dichiarò), e la sua mentalità in campo sembrava essere proprio quella.
Nella partita di campionato jugoslavo a cui Ford assistette, a Vrsac, Darko segnò 14 punti, catturò 10 rimbalzi, stampò 5 stoppate e dispensò 3 assist, in soli 15 minuti. Un piccolo capolavoro, pensò Ford, che a quella partita aveva notato scout di Pistons, Bucks e Sonics in tribuna stampa.
Molteplici cause, dicevamo. Un’altra di queste, del tutto non trascurabile, furono la pigrizia e la immaturità del giocatore, che a distanza di anni ha ammesso di non essersi impegnato al massimo nei suoi primi anni a Detroit, ha ammesso di essere frustrato dall’immenso tempo trascorso in panchina, relegato sul legno da coach Larry Brown. Cosa presa da Milicic come un affronto, e che non lo ha spronato a migliorarsi e a lavorare più duramente per trovare il suo spazio, ma lo ha “seduto” e ingrugnito, lo ha gettato in una sorta di immaturo sconforto, dal quale probabilmente non è mai più uscito.
Infatti, pur essendo arrivato a Detroit e nella Nba sostanzialmente dal nulla, senza aver mai fatto nulla di importante sull’hardwood se non un paio di buone prestazioni nella Hemofarm e in nazionale cadetti (10,8 punti e otto rimbalzi di media con la Jugoslavia campione d’Europa Under 16 nel 2001, in una squadra con Vladimir Micov, Kosta Perovic, Milovan Rakovic e Luka Bogdanovic), Darko non è mai riuscito a trovare la umiltà e la maturità per mettersi in gioco e guardare avanti, senza sedersi sugli allori della Second Pick in the 2003 Lottery e della esposizione mediatica mondiale a cui fu sottoposto, con tutti gli annessi e connessi, leggi soldi, fama, donne e magari qualcos’altro.
Milicic aveva tutto da dimostrare, una spaventosa pressione sulle spalle, e nemmeno se ne rese conto.
Probabilmente, pensava che ormai la strada fosse tutta in discesa, ma come disse la professoressa di danza di “Saranno Famosi”, telefilm in voga negli anni 80, Lydia Grant, interpretata da Debbie Allen (nonché da 33 anni moglie dell’ex playmaker dei Los Angeles Lakers Norm Nixon): “è proprio qui che si comincia a pagare… con il sudore”.
E "qui" Darko probabilmente non ha cominciato a sudare abbastanza, non è riuscito a dare veramente tutto in allenamento, e un coach esigente e maniacale come Larry Brown, se ne accorge, e ti punisce, nella peggior maniera che può fare, per un coach nei confronti di un rookie, ovvero disinteressandosene totalmente, fregandosene dell’eventuale sviluppo del giocatore.
Proprio l’ex playmaker da Long Island è considerato da molti di essere il “colpevole” del non-sviluppo a livello Nba di Darko Milicic.
Per Brown, Darko semplicemente non esisteva: 159 minuti in 34 partite, 48 punti totali nella intera stagione 2003-2004. Solo il più bieco e inutile garbage time, per lui.
Bene o male fu lo stesso nella stagione 2004-2005: 254 minuti in 37 partite, 67 punti totali. Di certo non il modo migliore per fare crescere un giocatore.
“My job is to coach a team” ha sempre detto l’ex coach dei Sixers, lavandosene le mani di coloro che rimangono indietro e che non sono funzionali ai propri scopi. E dal suo punto di vista, non gli si può dare torto.
Rimane il fatto che nelle stagioni di Darko ai Pistons, si è creata questa situazione, il coach si disinteressava totalmente di lui, mentre Milicic faceva di tutto per NON crescere, in una specie di assurda ripicca nei confronti di Brown, senza rendersi conto che la ripicca danneggiava solo se stesso.
Per il coach questa cosa non fu particolarmente dolorosa e impegnativa, mentre per Darko fu veramente frustrante, frustrazione mascherata da mancanza di impegno, festini e disinteresse quasi totale per le sorti della squadra, che comunque andava a gonfie vele.
“Nonostante” Milicic infatti, i Detroit Pistons nella stagione 2003-2004 si laurearono campioni Nba, umiliando i Los Angeles Lakers dei quattro Hall-of-Famer Kobe Bryant, Shaquille O’Neal, Gary Payton e Karl Malone, scioltisi come neve al sole sotto i colpi degli anomali e aggressivi Pistons di coach Brown. Mentre nella stagione successiva raggiunsero la Finale, perdendo in sette tiratissime partite dai San Antonio Spurs, sempre senza che Milicic incidesse minimamente sulla stagione dei Pistons.
Okay, terza stagione ai Pistons, ormai Milicic è diventato una specie di amuleto (nonostante l’arrivo di Flip Saunders sulla panchina di Motown), ogni volta che si alzava dalla panchina per entrare sul +25 a 1'13" dalla fine della partita, il Palace of Auburn Hills esplodeva in una ovazione, “Free Darko” era il motto, e Milicic di certo non era per nulla contento.
Poco prima dell’All-Star Break del 2006, Milicic venne ceduto, agli Orlando Magic, dove trovò spazio e minuti con coach Brian Hill. Il suo impiego cresce da 5,6 a 20,9 minuti a partita, la media-punti da 1,5 a 7,6, un buon impatto da centro per i Magic, con una ottima propensione per le stoppate (2,1 per gara) e con grossi problemi di falli, cosa che lo accompagnerà per il resto della carriera.
Otto punti e 5,5 rimbalzi a partita nella stagione successiva, ancora ad Orlando, onde passare ai Memphis Grizzlies, 6,4 punti e 5,3 rimbalzi di media in due stagioni nella città di Elvis, per poi vivere le sue stagioni migliori ai Minnesota Timberwolves, 7,7 punti, 4,8 rimbalzi e 1.8 stoppate a sera in tre stagioni a Minneapolis, dopo una breve permanenza ai New York Knicks e prima della sua ultima destinazione, i Boston Celtics, con i quali ha giocato solo cinque minuti in una gara, prima di ritirarsi nel 2013, a 28 anni, quando poteva avere ancora almeno altre sei-sette stagioni buone da giocare.
L’impressione è che in quelle prime due annate ai Pistons, qualcosa si sia irrimediabilmente rotto in Milicic, come scrisse Kelly Dwyer nella sua rubrica Ball Don’t Lie: “Larry Brown ha distrutto la fiducia in se stesso di Darko Milicic nella sua stagione da rookie”.
Cosa sicuramente vera, ma altrettanto vero è il fatto che Darko alla fine non è mai riuscito ad avere la forza e la umiltà di andare oltre la opinione di Brown. Avrebbe dovuto scendere in campo nel garbage time come se la sua vita dipendesse da quei due minuti di partita, cosa che comunque non si discosta molto dalla realtà.
Darko invece scendeva in campo svogliato e polemico, con un linguaggio del corpo imbarazzante, lanciando messaggi prossemici del tipo: “ma cosa ci faccio qui? Io?! La seconda scelta al Draft?! Trattata così?!”.
La fragilità mentale di Darko pare abbastanza chiara, il ritiro così precoce parla altrettanto chiaramente di un suo disamore per il basket, misto all'impossibilità, o alla mancanza di forza di volontà, di migliorare il proprio rendimento nella Nba.
In una recente intervista al sito serbo www.b92.net, Darko Milicic ha espresso alcuni concetti interessanti, dichiarazioni schiette, oneste e tutto sommato da persona matura, su come si sentisse Darko in quegli anni:
“Sono arrivato nella Nba con la scelta numero due, credevo di essere stato mandato nella Nba da Dio, arrivavo dall’Europa, pensavo di essere uno che poteva competere con Duncan o Gasol, quando non ero minimamente pronto per affrontarli. Rapidamente cominciai ad avere problemi con tutti, litigavo con tutti, mi ubriacavo prima degli allenamenti, e non capivo che ero io il peggior nemico di me stesso. Ovviamente adesso molte delle cose che ho fatto non le rifarei. Soprattutto all’inizio stavo male, avevo perso la gioia di giocare, odiavo giocare! Spesso dopo la partita andavo a casa e pensavo di mollare tutto e di tornare in Europa.
Fu quando ero a New York, dove continuavo a fare cose stupide, che mi dissero che volevano mandarmi a Minnesota. Io non volevo andare a Minnesota, e nemmeno rimanere nella Nba. Ero ancora giovane, volevo tornare in Europa, potevo ancora fare cose importanti qua.
Incontrai il GM dei Timberwolves, David Khan, e gli dissi: ‘Per l’amor di Dio, non prendetemi. Non voglio giocare mai più nella Nba, rovinerò la vostra squadra, spaccherò il vostro spogliatoio, sarò deleterio per voi. Quando una cosa non funziona non funziona’. Lui mi rispose di provare due settimane, e che se non funzionava, allora me ne potevo andare. Alla fine ebbe ragione lui, il primo anno andò molto bene”.
Parlando di questo argomento, non dobbiamo neanche però dimenticare che David Khan, il gm di Minnesota che aveva convinto Darko a rimanere con i T'Wolves, concedendogli peraltro un signor contratto (risolto con una "amnistia"), fu la persona che non scelse Stephen Curry, DeMar DeRozan, Brandon Jennings, Jrue Holiday, Jeff Teague al Draft 2009, per andare invece, con la numero sei, su Jonny Flynn, da anni un ex giocatore che nella Nba ci giocò poi solo due anni, con alterne fortune e senza mai incidere. David Khan quindi di errori ne ha fatti, probabilmente incluso quello di firmare Darko per 20 milioni di dollari, e infatti a Minneapolis non lo ricordano con molto affetto.
Dopo il ritiro dal basket, Milicic scelse la dura strada della kickboxe, disputando un solo incontro nel 2014, venendo sconfitto a Novi Sad dal connazionale Radovan Radojcin, KO tecnico alla seconda ripresa, per una ferita alla gamba sinistra di Darko, quindi una sconfitta sfortunata, alla quale però non fece seguito nessun altro incontro.
Ripensando alla sua carriera cestistica, una cosa però si può dire. Non esattamente come quando Maradona disse di se stesso “che giocatore che vi siete persi, se non avessi avuto la cocaina, avreste visto un grande campione”, ma lo stesso principio si può adattare a Milicic.
Se Darko avesse avuto la giusta mentalità negli anni ai Pistons, se avesse vissuto la sua eterna panchina come uno stimolo a migliorare e a lavorare ancora più duro, se avesse avuto più fiducia in se stesso e se al contempo fosse stato più seguito e spronato da Larry Brown o dal suo staff, probabilmente non sarebbe mai stato un All-Star né, tantomeno, un Hall-of-Famer, ma avrebbe potuto avere una buona, se non ottima, carriera Nba.
Darko oggi fa il contadino, sereno ed entusiasta, fiero e orgoglioso di quel che ha e di ciò che produce. Sessanta ettari di terreno in Serbia, dove coltiva mele, ha in programma di coltivare ciliegie e ha una riserva di pesca personale con dentro 10.000 pesci, per pescare e per rilassarsi, vivendo nel suo mondo, lontano anni-luce dalla way of life americana.
“Giocare nella Nba è un sogno per tantissimi giocatori, ed è giusto battersi fino alla fine per raggiungere questo sogno. Ma se non ti senti a tuo agio nell’ambiente dove stai vivendo, stai male, vivi male la tua situazione, sia come giocatore sia come persona. Lo stile di vita americano non fa per me. Io sono un social guy, mi piace stare in giro la sera, parlare con la gente. Non c’è nulla di tutto questo negli Stati Uniti, vai al lavoro, poi a casa. Ci si vede all’allenamento, ci si vede sull’aereo, ci si vede sul bus, ci si vede in palestra, e basta, finito. Questa è la tua vita, partita dopo partita, hotel dopo hotel.
Da quando ho smesso di giocare ho preso 50 chili, ora sono sui 160. Lavoro nella mia fattoria e nella mia terra, guardo come procedono i lavori, è questa la cosa che mi rende veramente felice. Sono ancora inesperto in questo campo, quindi mi faccio consigliare, frequento congressi e seminari. Preferisco starmene qua in mezzo alla natura piuttosto che costruire case o grattacieli, è questa per me la cosa più positiva, produco cibo, e il cibo è comunque la cosa più importante che ci sia”.
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