L'IMPERATORE DI HERENTALS
di SIMONE BASSO
Non ci piacciono i coccodrilli, anzi preferiamo quelli scritti quando lo sportivo, l'artista, il personaggio, è ancora vivo e vegeto, ma stavolta facciamo un'eccezione.
Per andare oltre i luoghi comuni letti.
Van Looy è stato Rik II, poiché successore dinastico di Van Steenbergen.
Lo aiutò a vincere il secondo titolo mondiale (in attesa del terzo): si era a Copenhagen nel 1956, dopo 7 ore di pioggia.
Se Van Steen era la classe purissima, il corridore più vincente nella storia del ciclismo professionistico (lui, non Eddy Merckx...), bagnata pure in dosi abbondanti di alcool, Van Looy fu il furore (agonistico) e la prepotenza (la testa).
Rik da Herentals diventa l'Imperatore piano piano, salendo i gradini del plotone uno alla volta.
È la figura di raccordo principale tra Fausto Coppi, col quale corre nel 1954 da vassallo e da cui impara l'arte (del professionismo), e Eddy Merckx.
Sarà lo sceriffo del gruppo, lui il poliziotto cattivo, Jacques Anquetil quello buono (sigh), per un decennio.
E vincerà tutto il possibile, in un ciclismo piratesco (e pilatesco) oggi improponibile (per fortuna...).
Avversario generazionale, nelle classiche, il grande Emile Daems, che finirà la carriera - a causa di una caduta gravissima - molto presto.
Gian Paolo Ormezzano scrisse che tra Van Looy e Coppi (poi Merckx) c'è una montagna - da scalare (e soggiogare) - di differenza.
Quella vittoria al Tour o al Giro, che manca, lo fa catalogare nel wikipedismo (una malattia...) al pari di un velocista, quando Van Looy, anche e soprattutto nelle corse a tappe, era un pokerista, feroce, coraggioso: nel 1960 vinse anche la Classifica Scalatori al Giro d'Italia...
Van Looy è uno di quelli che, nel dopo-Fausto, plasma il ciclismo moderno.
Il treno della Faema, le guardie rosse, che lo scortano e stroncano la concorrenza.
La volata di potenza, col 13 dietro, su quei catenacci, è il suo marchio di fabbrica.
Rik, con Jan Janssen, fu uno dei pochi veri oppositori al Merckxismo: a fine carriera, tra uno sgarbo e l'altro, ne scontò l'ascesa.
Su quel ciclismo fiammingo, andrebbero scritti tomi di aneddoti.
Basterebbero gli sguardi, di Merckx, Van Looy e Van Steenbergen, alla tivù belga, una sera di fine anni '70, quando i tre si riunirono per raccontarsi. Robe fortissime, di una cattiveria agonistica (gangsterismo su bici...), che nel 2024 sarebbero irricevibili.
Al di là del palmarès mostruoso, ci tocca leggere sempre della scemenza sulle Monumento che vinse (fu il primo a fare la cinquina): ribadiamo che nemmeno lui, ai tempi, sapeva che la Ronde contasse più della Parigi-Bruxelles o della Freccia Vallone.
Scegliamo invece - in mezzo alla caterva di successi - la vittoria più bella, la più significativa. La Parigi-Roubaix 1965. Si diceva fosse in declino, si accasò da Van Steenbergen (ebbene sì) alla Solo-Superia. Andò via in contropiede, dal gruppettino di dieci sopravvissuti, a meno di 10 chilometri dal traguardo. Entrò da solo, commosso, al Velodromo.
Quell'anno, in quella squadra, sarebbe arrivata una matricola (promettentissima) di nome Eddy Merckx.
Il cerchio si chiudeva.
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