La favola di Fausto Bertoglio



di 
Marco Tonelli

Cinque anni a sopportare di vedere uno straniero vincere la “sua” corsa, gli ultimi tre passati a consegnare la maglia rosa nelle mani del solito Eddy Merckx. Vincenzo Torriani, patron storico del Giro d’Italia, stanco di questo, pensò per quel 1975 di creare un giro che mettesse finalmente in difficoltà il Cannibale belga. 

Lo pensò su misura per un giovane italiano, Gianbattista Baronchelli, da Pomenengo, che l’anno precedente, il suo primo tra i professionisti, lo aveva fatto tremare di emozione, allorché si era fermato a dodici secondi dal campione belga, sfiorando la vittoria finale. Per lui s’immaginò un tracciato da sogno, fatto di arrivi in quota, sprint mozzafiato e cronoscalate atte ad esaltarne le doti. 

Quello che il buon Vincenzo non poteva prevedere allora era che quell’anno Eddy Merckx non si sarebbe presentato al via della corsa rosa, e che il “suo” Baronchelli si sarebbe invece specializzato nel tradire i pronostici che lo riguardavano, al punto da venire definito dal compianto Bruno Raschi «uno che mangiava i soldi in tasca agli scommettitori».

Così quel 29 maggio 1975, quando, appena superato il giro di boa del Giro d’Italia, dopo la tappa Chianciano-Forte dei Marmi, conclusasi con la vittoria di Patrick Sercu, Torriani dovette consegnare per l’ennesima volta la maglia rosa a un corridore straniero, lo spagnolo Francisco Galdos, dalla quarta tappa leader della corsa, in cuor suo e in quello dei tifosi italiani mal si celava una certa delusione.

Il giorno dopo, però, sul litorale versiliese era in programma la cronometro individuale e non si poteva certo dire che quella fosse terra adatta alle doti dello spagnolo: chissà, forse si poteva ancora sperare. Il tifo di tutti gli appassionati si riversò allora su Giovanni Battaglin da Marostica, ombroso capitano della Jolljceramica, maglia rosa detronizzata da Galdos, uno che, dopo il forfait di Moser e le abulie di Baronchelli, molti indicavano come l’ultimo difensore del pedale nazionale.

Battaglin, in vena di rivincite, non tradì le attese e quel giorno fu strepitoso: forse fu la rabbia o forse il tifo a spingerlo, fatto sta che il ragazzo si rese artefice di un capolavoro che gli consentì in un sol colpo di aggiudicarsi vittoria di tappa e maglia rosa. Per le strade era delirio, forse si era finalmente trovato l’erede di Felice Gimondi, ultimo italiano a vincere la corsa nel 1969.

La sera in albergo i visi erano distesi, Battaglin era stanco ma fiero, forse già pensava alla cronoscalata del giorno dopo e a come fare per contenere l’attacco scontato del rancoroso Galdos, ma la squadra aveva voglia di un po’ d’allegria e allora eccola stringersi attorno a quel ragazzo dallo sguardo gentile e cordiale, che strimpella per diletto la chitarra, quel Fausto Bertoglio che pedalerebbe anche bene, ma che per contratto fa il gregario del capitano.


Il campione che non ti aspetti

Fausto è un bresciano gentile di San Vigilio di Concesio, è diventato ciclista quasi per caso, alle spalle non ha grandi successi, ma è tra i professionisti da un paio d’anni e dopo aver fatto gavetta dietro De Vlaeminck alla Brooklyn è stato ingaggiato dalla squadra diretta da Marino Fontana.

È un tipo di non molte parole, nessuna mai fuori posto, sorride e vive della sua riservatezza. È il 30 maggio 1975: nei piani-anti Merckx di Torriani c’era un’altra prova individuale contro il tempo, la cronoscalata Piano di Coreglia - Il Ciocco, sulle Alpi Apuane, ma adesso, il gran nocchiero del Giro, forse ne farebbe volentieri a meno, perché Battaglin è stanco e lui lo sa, e lo sforzo del giorno prima potrebbe essere pagato a caro prezzo oggi.

E sembra di rivederlo il Giovanni quel pomeriggio sulle strade della Garfagnana, ingobbito sullo scomodo sellino, dinoccolato sui pedali, soffrire quelle strade aggrappato al manubrio di una bicicletta che si faceva più pesante a ogni chilometro che passava: si consumò così il suo personale e lento calvario, mentre contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, ad ereditarne la maglia rosa non fu il felino Galdos ma un altro impronosticato protagonista. 

A sorpresa, infatti, dal cilindro dell’impossibile sbuca fuori l’uomo che non ti aspetti, un omino dal nome grande, Fausto, come il suo cuore, capace di correre nella leggenda per una volta nella vita e scrivere così la pagina più importante della sua carriera ciclistica. Bertoglio vince la cronoscalata e si porta in testa alla classifica generale, a dispetto di tutti, di quel Galdos che adesso gli è dietro e mastica amaro e di chi non lo riteneva all’altezza di imprese simili. 

«Da dove salta fuori questo qui?» sembra domandarsi l’iberico mentre abbassa gli occhi dopo l’arrivo. Ma ci sono ancora otto tappe alla conclusione del Giro e c’è davvero qualcuno disposto a scommettere una lira sul ragazzo bresciano?

Si diceva che avesse poca personalità, poca cattiveria per fare il capitano, il corridore di classifica, ma adesso la Jolljceramica non ha alternative, perché con Battaglin scoppiato e ormai fuori-gioco, non può far altro che credere nel gregario inaspettatamente salito alla ribalta e aiutarlo in tutte le maniere.

Inizia così la favola di Fausto Bertoglio, il suo conto alla rovescia verso il paradiso, che passa attraverso i traguardi di Arenzano, Orta San Giulio, Pontoglio, Monte Maddalena, Baselga di Pinè, Pordenone e Alleghe, spinto da tutto un Paese che sulle strade gli si stringe attorno e ne adotta il pazzo sogno fino a farlo proprio. 

È il 7 giugno il giorno della verità: ora non serve più pensare, servono solo coraggio e gamba, serve la capacità di soffrire e di recuperare e Fausto sa che quello scampolo di secondi da amministrare, quarantuno per l’esattezza, sono una dote troppo effimera per metterlo al riparo dagli attacchi di quel Francisco Galdos che sembra sempre di più un gatto intento a giocare col topo.


La scalata verso il Paradiso

Lo Stelvio è il palcoscenico scelto per la conclusione di quest’ultima tappa, il Giro d’Italia 1975 coronerà quassù, a 2757 metri sul livello del mare, il suo vincitore, e su queste strade non si può mentire, o sei qualcuno o non sei nessuno, e la tensione cresce fino alle stelle.

Si scalano prima il Pordoi, la Marmolada, la Malga Ciapela, giusto per arrivare al gancio ai piedi dell’ultima salita e poi via sui ripidissimi tornanti dello Stelvio affrontato dal suo versante più impegnativo, quello che passa da Trafoi. La corsa è una lenta decimazione di resistenze e ambizioni, via via che si avanza il gruppo di testa si affievolisce e adesso sull’ultima asperità là davanti sono rimasti in quattro.

Con Bertoglio e Galdos ci sono Giuseppe Perletto e Wladimiro Panizza, ma a tre chilometri dal traguardo anche gli ultimi due perdono contatto, come se la vita, da grande e occulto regista, avesse scelto in precedenza il soggetto della sua ultima recita e gli attori protagonisti. Il cielo si spalanca sulle teste di migliaia di tifosi accorsi per l’occasione, due ali di folla accompagnano i contendenti dentro due muri di neve che ne contengono l’eccitazione e ne immortalano la fatica, ad ogni pedalata è un respiro di dolore, un alternarsi di paure ed emozioni diverse.

Galdos sa che se vuole vincere deve provarci adesso e allora eccolo scattare una, due, tre volte, alzarsi sui pedali, con quel modo di fare tanto caro ai grimpeur pirenaici, e via, ma il ragazzo italiano di rosa vestito risponde colpo su colpo, pedalata su pedalata, e quando l’iberico si volta a misurarne il distacco, lo trova sempre lì, a danzare sulla sua bicicletta ad un passo da lui.

Non è più il tempo dell’uomo solo al comando, Bertoglio non è e non sarà mai un altro Coppi, ma oggi lungo la strada che ha creato la leggenda del Campionissimo, qualcuno ha appeso striscioni con su scritto "FAUSTO, come Coppi" e tutto questo diventa un’altra storia da raccontare, una delle più belle e pulite che il ciclismo di casa nostra possa vantare.

Taglia il traguardo da gran signore, Bertoglio, lasciando al rivale la soddisfazione fatua della vittoria di tappa, e Galdos l’accetta, consapevole che più di quello oggi non avrebbe potuto ottenere. La grandezza del ciclismo è anche questo, il mistero della fatica, che spesso dopo tante ore in sella ad una bicicletta finisce con l’unire anche due avversari stremati e fa trovare loro lampi di rispetto e solidarietà dopo tanta battaglia.

Vincenzo Torriani è felice come un bambino, consegna a Bertoglio la maglia rosa di vincitore del 58° Giro d’Italia, e avrà il piacere di premiarlo ancora come terzo classificato l’anno successivo, per poi lentamente perderne le tracce, come del resto accadrà anche al popolo che segue il ciclismo, fino quasi a dimenticarlo.

Quell’anno il Giro d’Italia non prevedeva la diretta televisiva della RAI, ma veniva trasmessa una differita verso sera: quell’ultima tappa fu seguita da oltre sette milioni di persone, ancora oggi un record.

Bertoglio vanterà ancora una vittoria al Giro della Catalunya di quello stesso anno, un nono posto al Tour de France e una Coppa Placci nel 1976 e poi un lento declino fino al ritiro avvenuto nel 1980.

Oggi, se passate per San Vigilio di Concesio in provincia di Brescia potete trovare la bicicletta che usò in quell’estate del 1975 e la sua maglia rosa di lana originale, esposte all’interno di un negozio per ciclisti: lì un signore di 65 anni vi accoglierà con gentilezza e competenza, senza eccessi né supponenza, e voi a vederlo non direste mai che possa aver vinto un Giro d’Italia, scalato da re i 2757 metri del passo dello Stelvio e lasciato a oltre 6 minuti gente del calibro di Felice Gimondi. È Fausto Bertoglio, un campione anche a riflettori spenti.

Marco Tonelli

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