Marco Galdi - Giovane leone per destino


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books ©


Quando si dice il destino. 
Non saprei come altrimenti spiegare e spiegarmi – se non con una buona dose di c...ostruttivismo (vibertiano) – la (fortunata) coincidenza che mi ha permesso di intercettare Marco Galdi a Bruxelles. 
Una vita da corrispondente dell’ANSA, prima sportivo poi politico, e da poco trasferitosi a Malta dopo nove anni nella capitale belga a seguire, soprattutto, la questione europea. 
Questioni personali invece i motivi del suo frequente neo-pendolarismo. 
La ragione per cui lo inseguivo da quasi un anno e mezzo è che era lui, dei (presunti) Quattro dell’Ave Maria, l’unico che ancora non avevo incontrato. Avrei poi scoperto intervistandolo che neanche ne faceva parte, e che casomai andava annoverato tra i suiveur loro successori, i cosiddetti – e autoproclamatisi – “Giovani leoni”. 
Impressionante il suo CV. 
Per ventitré anni inviato per lo sport: tre Olimpiadi, mondiali di calcio, basket, nuoto, scherma, 19 Giri d’Italia, tre Tour de France, un paio di centinaia di partite di calcio tra serie A e coppe, dieci campionati mondiali di Formula 1. 
Dal 2007 responsabile del servizio sportivo Multimedia dell’ANSA, Galdi è l’incarnazione stessa «del giornalismo sportivo, inteso come palestra di giornalismo a tutto tondo», per citare la sua auto-presentazione al laboratorio di giornalismo sportivo da lui curato nell’anno accademico 2007/2008 alla Facoltà di Scienze Politiche di Roma Tre. 
Sfatto e soddisfatto dal doppio colpo di giornata – Patrick Valcke la mattina al velodromo indoor di Roubaix, Eddy Schepers il pomeriggio a casa sua a Hoeleden (Kortenaken) –, scopro sui social il sabato sera, da uno sperduto B&B in mezzo alle Fiandre, che Marco si trova a Bruxelles. 
Un’opportunità imperdibile, e infatti gli scrivo subito. Mi risponde di chiamarlo l’indomani.
A Bruxelles arrivo in tarda mattinata, e il suo cellulare è sempre staccato. 
Lo aspetto in centro per lunghe ore, ma niente. Finalmente, mi scrive ma a causa d’impegni non potrà raggiungermi che a metà pomeriggio e fermarsi non più di un paio d’ore. Perfetto lo stesso, e pazienza se per farmi i mille km in auto del rientro in Italia non partirò prima delle 18.30. 
L’appuntamento è davanti al Parvis de Saint-Gilles, uno dei simboli di Bruxelles. Chiacchieriamo ascoltandoci a fatica in un centralissimo caffè, affollato e chiassoso come può esserlo una così gelida, ventosa e - a quella latitudine - sorprendentemente soleggiata domenica autunnale. 
Per lui è l’occasione di rispolverare ricordi lontani ma, appena grattata via la patina sedimentata in trent’anni d’oblio, ancora vivi e lucidi. 
Con Roberto Visentini non c’era empatia, si avverte quasi subito. 
Dei fatti di Sappada però è uno dei pochi, fra gli oltre centoventi testimoni del tempo da me incontrati per questo libro, a poter dire: io l’avevo detto, e pure scritto. 
Italianissimo, poi, il fatto che in ancor meno, all’epoca, l’abbiano anche solo preso sul serio, e figuriamoci creduto. Vuoi perché matricola lui, vuoi perché invidiosi del suo inglese (e della sua professionalità) loro, ma è così che andò. 
Trenta e passa anni dopo, da scafatissimo inviato dell’ANSA ci racconta – nella sua intatta, cosmopolita e verace romanità – come e perché. 
Quando si dice un Giornalista, e per sempre Giovane leone. Non per caso, ma per destino.


Café “Maison du Peuple” 
Saint-Gilles, Bruxelles (Belgio), sabato 27 ottobre 2018 


- Allora, Marco Galdi: tu eri o no uno dei Quattro dell’Ave Maria? E soprattutto, chi e che cos’erano i Quattro dell’Ave Maria? Stando a Paolo Viberti, allora a Tuttosport, eravate tu dell’ANSA, Maurizio Evangelista del CorSport, Gianfranco Josti del CorSera e Paolo Ziliani de Il Giorno al quale subentrò Maurizio Crosetti, all’epoca a Tuttosport e in seguito a la Repubblica. Secondo lo stesso Josti invece erano: lui, Beppe Conti di Tuttosport, Evangelista e Ziliani, al quale subentrò Cristiano Gatti de Il Giorno. Chi ha ragione? 

«Allora, i veri Quattro dell’Ave Maria erano quelli che ha detto Josti». 

- E cioè Conti, Evangelista, Josti e Ziliani. Tu quindi non ne facevi parte. E poi al posto di Ziliani entrò Gatti? 

«E poi entrò Gatti al posto di Ziliani». 

- E quindi la versione di Viberti la mandiamo a quel paese? 

«No, perché anche Viberti ha ragione. In realtà, a fronte di questo gruppo che c’era quando siamo arrivati noi, cioè Pier Bergonzi [La Gazzetta dello Sport, nda], Viberti, io e, dopo un po’, Pietro Cabras [CorSport], credo quando uscì Maurizio Evangelista, ma comunque dopo, molto dopo, negli anni Novanta...». 

- …dopo che Evangelista lasciò il CorSport per aprire Vitesse, la sua agenzia di comunicazione e organizzazione di eventi (tra cui, più avanti, l’attuale Tour of the Alps, l’ex Giro del Trentino)? 

«Sì. Il ciclismo [al Corriere dello Sport] passò prima per Marco Evangelisti [da marzo 1989 a oggi, nda] e poi per Pietro [Cabras]. Però in realtà, quando arrivammo noi tre – abbiamo tutti più o meno la stessa età [Viberti è classe ’56, Galdi ’57, Bergonzi ’63, nda] –, devi immaginare che c’erano delle dinamiche. Ma questo, per capirci tra di noi, loro se aiutavano tra de loro e noi ci aiutavano un po’ così… Poi, ’sta formazione… In realtà, alla fine uscivamo sempre tutti quanti insieme lo stesso». 

- Bergonzi era al suo primo Giro, vero? 

«Mi sembra di sì. Pure io, al primo Giro. E mi sembra che Viberti ne avesse fatti forse uno o due [in realtà per Paolo Viberti, gemello del Giorgio inviato de La Stampa, quello del 1987 era già il sesto, il primo nel 1982, nda]. Di noi, era lui quello un po’ più esperto, però eravamo in pratica i giovani leoni. Noi eravamo i Giovani leoni. Adesso che mi viene in mente, sai perché Viberti mi ha messo in quel gruppo?». 

- Perché? 

«Perché io all’inizio effettivamente facevo parte di quel gruppo. All’inizio-inizio. Poi mi trovai più in simpatia con i più giovani e quindi stavo un po’ con loro e un po’ con gli altri. Perché io ero l’unico che non aveva mai [colleghi]… Io ero l’unico sempre da solo, come testata, no? Tutti gli altri erano almeno in due. Corriere della Sera, erano in due; Corriere dello Sport, erano in due; Gazzetta in… ducento! Tuttosport, erano in due. Tutti erano in due. Allora erano sempre il doppio, il triplo e a me toccava sempre……». 

- Al tuo primo Giro il battesimo del fuoco. Debutti con l’affaire-Sappada. Che cosa ricordi? 

«Il mio primo Giro, e partì da Sanremo. Era abbastanza evidente che sarebbe stato un affare della Carrera». 

- Prima ancora di partire c’era già la questione dei due galli nel pollaio? 

«C’era, sì. Tanto è vero che, in Carrera, l’idea era che in quel Giro era Visentini il capitano e che però Visentini avrebbe restituito il favore [a Roche] al Tour. Questo in teoria, ma come probabilmente sai quello è stato il primo grande giro dominato dall’EPO. Io non ne sapevo niente, si sarebbe scoperto dopo. E ricordo, una sera, uno sfogo di un corridore, che era incazzato come una iena e si lamentava [forse con un suo direttore sportivo]. All’epoca i rapporti erano molto così, molto… E dentro l’albergo le cose venivano fori. Anche perché c’era un rapporto di maggior fiducia, no? Era incazzato perché “quelli” – quelli di un’altra squadra – avevano trovato “una nuova merda”. Parole sue, testuali. “Quelli, cazzo, non sei capace, perché quelli hanno trovato una nuova merda!”. Era incazzato come una biscia. Io stavo là: ah, vabbè… E poi, Sappada. Sappada: la cosa curiosa – di quello che mi ricordo – è che io, rispetto ai colleghi, in quella circostanza, era che io parlassi inglese». 

- Eri uno dei pochi, insieme con Angelo Zomegnan della Gazzetta

«Ero praticamente l’unico». 

- Con Zomegnan. 

«Sì, però Zomegnan ormai era già un “grande” all’epoca, [in Gazzetta] era il numero due, però era già…». 

- Roche lo considerava una specie di confidente, quasi il suo "portavoce" italiano. 

«Diciamo che c’aveva buoni rapporti, confidenza. Il fatto che io parlassi inglese mi permise di entrare in sintonia con Roche, perché in pratica ero l’unico dei giornalisti col quale scambiava, prima della partenza, due parole in inglese. E quella mattina di Sappada, vabbè, la situazione era abbastanza… Non mi ricordo più l’andamento del Giro, però era abbastanza chiaro che nella squadra non ci fosse armonia. Era chiaro. C’erano state delle avvisaglie, mi pare, sul Terminillo…». 

- Sesta tappa, la Terni-Terminillo Campoforogna. Sul Terminillo vinse Jean-Claude Bagot, francese della Fagor, in fuga con Eddy Schepers, che non dico gli abbia lasciato vincere la tappa ma certo non gli ha fatto lo guerra… 

«Già se capiva che non doveva essere…». 

- Chi c’era in fuga a Sappada? Bagot. E l’anno dopo chi lo raggiungerà in Fagor? Roche e Schepers. 

«Ma la cosa curiosa è che quella mattina, se non sbaglio, si partiva dalle parti della costa… Dalle parti di Jesolo?». 

- Sì, la 15ª tappa era la Lido di Jesolo-Sappada. 

«Lido di Jesolo, sì. E a Lido di Jesolo, la cosa buffa è che, quella mattina, io vado lì e tutti avevano fatto [a Roche la domanda]: Ah, allora che fai, aiuti, non aiuti? Perché con Visentini era da giorni che questa cosa andava avanti: Eh, tu fai la tua corsa? Fai la corsa per lui, lui la fa per te? Insomma tutta questa situazione, tipica da ciclismo, no? Sennonché tutta questa cosa, in italiano, con l’italiano molto approssimativo di Roche, che rispondeva con frasi più o meno fatte... E a me però a un certo punto viene di fargli una domanda in inglese, lui mi guarda negli occhi e in inglese mi dice: “No, ma oggi io penso a fa’ la mia corsa”». 

- E quindi tu, nel gruppetto dei giornalisti presenti, eri il meno sorpreso, dopo? 

«Dopo, a me l’ha dichiarato. Dopo, quando ho visto e sentito che andava, non ero sorpreso. Anche perché, oltretutto - a proposito, a volte, delle dinamiche dei colleghi - io l’ho detto subito: Oh, guardate che lui ha detto una cosa, in inglese, completamente diversa da quella che ha detto in italiano, eh…». 

- E non ti hanno preso sul serio? Non ti hanno creduto? 

«Non m’hanno creduto. Nooo. Forse pensavano che avessi capito male io. Ma insomma l’inglese l’ho sempre parlato. E non avevo dubbi. Tant’è vero che poi – dovrei controllarlo ma mi sembra di sì – ci feci addirittura una notizia. Mi sembra. Francamente adesso non mi ricordo, trent’anni dopo… Forse no, perché all’epoca non davamo le notizie così. Però sicuramente è una cosa che ho poi messo in evidenza nei pezzi, dopo. A me ha detto: io mi faccio la mia corsa. E “mi faccio la mia corsa” significa che [l’altro] non lo aspetti. Significa che scegli tu che cosa fare. Non sto dicendo “lavoro per lui” o “non lavoro per lui”. Io mi faccio la mia. Eh! Anche perché, adesso che mi stai facendo ricordare, c’era già stato Visentini che a Roche doveva aver fatto qualcosa, pochi giorni prima, tipo che non l’aveva aspettato. Non mi ricordo ma qualcosa già c’era stato». 

- Forse ti riferisci alla cronometro di San Marino, perché c’è un duplice retroscena. Nella maxi-caduta di Termoli, 10ª tappa, Roche aveva picchiato un ginocchio. La mattina della crono Roche fa la ricognizione in bici. Roberto invece lo affianca in ammiraglia, non so dirti se perché pioveva o non avesse voglia di farla in bici. Una volta rientrati, a Roche non smette di chiedere dettagli sui rapporti da usare e l’altro alla fine sbotta: Oh, io l’ho fatta in bici, potevi farla anche tu… 

«Sì, bravo! Bravo! Era questo». 

- Roche quindi il dente avvelenato lo aveva già. 

«Io mi ricordavo che già c’era stato qualcosa, a San Marino. Adesso non riuscivo a ricordare che scazzo ci potesse esser stato in una cronometro… Allora, adesso che me l’hai ricordato, sì, questo era. Infatti, avevamo fatto la ricognizione: ecco, adesso mi son ricordato. Valcke, infatti, mi disse che a Roche erano girate le palle: ma scusa, che me tratti da gregario, a me? A Roche il fatto che quello gli avesse chiesto dei rapporti, cioè… Lo sai, nel ciclismo, i rapporti: sono tutto. Tu m’insegni che la scelta dei rapporti è tutto, nel ciclismo. E tu che sei il capitano glielo vai a chiedere a lui? Proprio a lui?! È ovvio che stai cercando di mettergli la zampa sulla spalla, no? Cioè: capisci che a uno che è un altro maschio-alfa, se tu gli vuoi mettere la zampa sulla spalla, e quello te… Ah sì? Come minimo, e ringrazia Dio che non te racconta ’na serie de fregnacce. Che te manda solo a 'fanculo. Perché, se era più perfido, [i rapporti] te li faceva mettere sbagliati; ché la realtà è questa. E Roche, infatti, disse: ma lui si è arrabbiato, e n’era peggio se glieli dicevo sbagliati? E comunque, appunto, Roche disse: Come lui ha corso per sé, anch’io correrò per me. Io farò come lui. Correrò come lui». 

- Più chiaro di così… 

«Che te deve di’, quello? Infatti, quello che non era chiaro, perlomeno a me – che poi ero al [mio] primo Giro, figurati –, era che lui poi in realtà si fosse preso, avesse conquistato, mezza squadra. Ma è sbagliato quello che secondo me pensavano invece della squadra, cioè che ci fosse appunto una serie di soldi, cioè che li avesse comprati… Non lo so, io ho l’impressione che, se anche li ha comprati, fu molto Visentini a facilitarlo, perché in realtà era andato in antipatia… Ghirotto non lo poteva più vedere, e lo considerava un piangina. Questo sta sempre a piange, ce n’ha sempre una… È sempre depresso, non se fa mai ’na risata. Chiappucci, non ne parliamo. Chiappucci manco dipinto lo poteva vede’…». 

- Bontempi invece non poteva vedere Chiappucci. 

«Bontempi però in quella tappa non contava proprio, quindi… E anche Boifava: forse il problema principale fu Boifava, che poi alla fine non riuscì davvero…». 

- Un tuo inciso da veterano del mestiere: sin qui Boifava è stato l’unico, con il dottor Grazzi, a rifiutarsi di incontrarmi. Tu magari l’hai conosciuto bene: pensi abbia qualcosa da nascondere? 

«Da nascondere… Guarda, io credo che lui sappia… Lui è sempre stato uno che ha sempre avuto grandi difficoltà a…». 

- Mi dicono che negli anni sia molto cambiato. 

«Quello non lo so». 

- Tu però l’hai conosciuto in tempi non sospetti… 

«All’epoca lui era sempre un po’ orso, anche nel parlare. Anche perché non riusciva a calibrare mai neppure il tono, no? O diceva troppo o diceva troppo poco». 

- Già il fatto che, la sera di Sappada, avesse detto a tutta la squadra, meccanici compresi, di non parlare con la stampa… 

«Ti ripeto: in quella circostanza, in quelle in settimane, a me era evidente che mancava… Il vero problema era che non c’era qualcuno che dicesse: No, sentite, ragazzi, mo’ ve mettete qui, il Giro lo dobbiamo vincere, non dobbiamo avere… Che è esattamente quello che fecero, tardi, la sera di Sappada. Con i Tacchella che arrivano in elicottero. Perché a un certo punto dicono: Scusate, ma non potevamo metterci d’accordo prima?!». 

- Ti chiedo un dettaglio da cronista ANSA. In Italia era in corso il G7 e a Venezia c’era Ronald Reagan. Per motivi di sicurezza non fecero atterrare a Sappada l’elicottero dei Tacchella. 

«No, no: l’hanno fatto atterrare». 

- Sì, ma lontano da Sappada. E quindi i Tacchella han dovuto prendere una macchina e sono arrivati a Sappada verso le nove di sera [e secondo alcuni addirittura alle undici]… 

«Eh, stavamo a notte. Mi ricordo quest’attesa infinita, in quest’albergo [il Corona Ferrea, nda], giù per questa stradiola. Perché nessuno andava via. “Stanno arrivando, stanno arrivando…”. E abbiamo bivaccato là». 

- E ti risulta di una riunione fatta a Verona, uno o due giorni prima di Sappada, fra il diesse Boifava, il team manager Belleri e i patron Tacchella? 

«Non me la ricordo. Sarei più dell’idea… Anche perché eravamo passati dalle parti loro. Sì, perché quando siamo passati dalle… Eravamo passati vicino alla loro sede e siamo andati lì e loro hanno avuto questa riunione. Di cui però, appunto, da quel che mi risulta, Boifava disse che comunque era tutto tranquillo. Cioè secondo loro, e la cosa mi risultò strana, è che uno dice: scusa, Roche lo dice a me che fa la sua corsa e non a quelli con cui magna-beve-e-dorme e tutti i giorni… Non hanno avuto neanche un sentore che questo se sta stretto e s’è stufato?! Pe’ sta' appresso a uno che va la metà de lui?! Dopodiché, se lui andasse il doppio, per altri motivi, è un altro discorso. Ma all’epoca… Non lo sapevamo, nessuno. Eh. Il primo che lo sospettò fu Argentin. Era [stato] Argentin». 

- …che ce l’aveva tanto con Visentini, con cui proprio non si pigliava già da quand’erano in squadra insieme alla Sammontana. 

«Ah, quello… Sì, non mi ricordo. Io ancora non facevo il ciclismo. Sì, ma so che loro si stavano cordialmente sul cazzo». 

- Anche adesso. Il 28 aprile 2018 a Sappada ero stato invitato alla presentazione della tappa del Giro. Tra gli ospiti c'era anche Argentin. A un certo punto, sull’aneddoto di Visentini che alla vigilia di quel Giro disse che per misurare il ritardo di Argentin ci sarebbe voluta la sveglia, quando Moreno ha sentito quella parola, “sveglia”, è schizzato sulla sedia come sulla sella a Colorado Springs ’86… 

«Moreno era uno… È sempre stato umorale, molto fumantino. Ma poi in realtà, diciamo la verità: Visentini tendenzialmente era uno antipatico pure a se stesso…». 

- Guarda che con me è stato di una gentilezza… 

«Lo so, ma quando era atleta aveva l’atteggiamento… Ghirotto, lo sai, non è che fosse nato particolarmente ricco. Ogni mattone che ha messo dentro casa, se l’è pedalato. Hai presente, con quelle orecchie a sventola… Quanti milioni di chilometri s’è fatto avanti e indietro a porta’ borracce, Ghirotto?! Eh? E tu je vai a fa’ la parte del fighetto, perché tu sei fighetto e tu no?! Tu c’hai le orecchie a sventola… Ghirotto, a quel punto, te fa così… Ma a quel punto forse non ti vuole proprio… Dentro di sé non pensa che sei una bella persona… Ma no, eh! Visentini ha mancato, almeno per come l’ho visto io, è uno che ha sempre mancato di rispetto verso gli altri. Si sentiva un po’ investito… Perché so’ bello, perché so’ bravo, perché so' forte…». 

- E pure ricco… 

«E certo. Bello, forte e che poi fosse pure ricco…». 

- E tutte quelle balle che non facesse vita da atleta, le associ a tutto questo? 

«Non lo so. Di sicuro era uno che non riusciva a trasmettere niente. Ripeto: rispetto a un altro dal carattere del cazzo come Argentin, che però, nel momento in cui... era uno vero, vivo. Certe volte, okay, Bugno. Ma lo stesso Chiappucci. Chioccioli… Indurain. Ma tutti in qualche modo riuscivano a trovare il momento in cui comunque si usciva dai ruoli e… Marco [Pantani] e Moreno [Argentin], il sorriso che "ci siamo capiti"… Ecco, con lui non… Vabbè, perché?! Adesso, se la metti così, sembro io che mi metto su un piano così, no? Però, per farti capire… Già lui… Roberto Visentini mi ha sempre dato l’impressione di essere uno che mai s’è posto il dubbio: ma questi che ho davanti, che fanno i giornalisti, che cazzo saranno, no? Cioè, secondo me non è che s’è posto il dubbio, non è che… Quello è Beppe Conti, lo conosco, fa così e così eccetera eccetera. Perché era molto estroverso, Beppe… Poi gli altri magari sempre meno, no? Ma te… Ti se mai posto il dubbio: chi cazzo sono io e se, tutto sommato, io dentro di me non penso: guarda che so’ io che te sto a fa un favore a parla’ co’ te, eh… Lui non si è mai reso conto che il ruolo del campione deve sempre avere un pizzico di umiltà. Cioè se non capisci che tu sei campione perché vinci eccetera eccetera, ma anche perché c’è chi te fa i titoli… E quelli non sono oggettini, sono persone, e non puoi sapere che testa hanno…. Lì c’era gente, in quei Giri, tieni presente che c’era gente come Mario Fossati, e all’epoca era Fossati che faceva il “secondo” a Repubblica». 

- Faceva il colore, lui… 

«Esatto. Il Corriere [della Sera] aveva sempre uno scrittore. Ma cazzo, ma questa gente, ma ti rendi conto che è tutta gente che il più cretino aveva se non una laurea o due o comunque trent’anni di scuola di vita che so’ stati in tutto il mondo. C’è chi ha fatto guerre, chi ha fatto politica, chi ha fatto… Chi ha conosciuto i grandi del mondo… E sta a perde' tempo co’ te? Guarda che sei tu che devi esse’ grato che quello sta a perde’ tempo co’ te. Non il contrario. Perché poi, d’accordo, a me, me tocca perché me pagano. E io sto qui a ’spetta’ te. Ma dentro de me... Tant’è vero che, infatti, i grandi campioni nella vita, tutti i grandi campioni, hanno sempre avuto un atteggiamento diverso. È che erano consapevoli… Pantani era uno che… E Moser? E Saronni? Saronni e Moser: a qualsiasi ora del giorno tu li chiamavi, “prontooo?”…». 

- Questo l’ho constatato anch’io… 

«Cioè: se non sei consapevole che tu…». 

- Era anche un’altra generazione, però… 

«Certo. È ovvio». 

- Nascere Visentini non è come nascere Moser o Saronni, sei d’accordo? 

«Visentini era figlio di quel mondo. Non lo so, a me, francamente... Io, tra i due, lo confesso, fui contento che avesse vinto Roche…». 

- E quindi da che parte stai neanche te lo chiedo. Mi hai già risposto… 

«Io fui contento perché pensai che se lo meritava». 

- Ma fu tradimento, secondo te? 

«Secondo me, no. Perché, ripeto, per quanto ne so io, io infatti non feci mai il pezzo, o forse l’ho fatto... Ma attenzione: sarà stato pure tradimento però qualcuno che sapeva che Roche… Qualcuno che sapeva che Roche non ci stava - e non c’è mai stato - dentro quel patto, eh, c’era. Ora, siccome non posso pensare che fossi [io] l’unico, eh… Poi, ah, tra l’altro, Boifava lo sapeva. Io son sicuro che Boifava lo sapeva. Anche perché ne parlammo». 

- Patrick Valcke, il meccanico tuttofare di Roche, mi ha detto che tradimento fu far tirare la Carrera e non l’attacco di Roche. Ma l’attacco era preparato? Lo stesso Valcke dice di no. Secondo te era preparato o è nato in corsa? 

«È vero. Io l’ho visto. Perché tra l’altro era il mio primo Giro. Ed io l’ho fatto…». 

- Ecco, come l’hai seguito quel Giro? 

«In macchina. Con l’autista. Avevo l’autista, dal quarto-quinto Giro in poi me li sono guidati da solo, per un fatto mio di rapporto con le macchine e con la guida». 

- Pensavo di rapporti con l’autista di turno. 

 «No, io perché sono uno che ha sempre guidato molto eccetera. Guido veloce…». 

- Di carattere sei uno che vuol stare da solo? 

«Dal punto di vista del lavoro sono sempre stato uno che più…». 

- ...sta da solo e meglio è? 

«No, non necessariamente. Ho avuto anche dei… Però, appunto, quello della guida è il fatto che io sto in ansia quando guidano gli altri, quindi… A un certo punto, ho preso le misure e ho preferito fare da solo. A quel punto invece, con l’autista, sapevo che era un appassionato quindi anche lui voleva vedere. Quando sentii "è partita la fuga", lo vedemmo, ci fermammo per vederli. E vedemmo che…». 

- Giù dalla Forcella di Monte Rest? 

«Era un punto in piano. Comunque sia, poco dopo che era partita. Perché c’è stato, appunto, un altro che era partito [probabilmente Ennio Salvador, nda] e loro gli andarono dietro… Poi però a un certo punto si trovano davanti e i Carrera... E il bello è che siccome, mi ricordo, c’era Chiappucci, c’era Ghirotto, c’era Roche. E [in ammiraglia] c’era forse Valcke. Quattro mi pare che fossero. C’era anche un quinto nella fuga con Roche? Comunque mi ricordo questa scena: ci fermiamo in un punto per vederli passare, e pareva la Cento km a squadre». 

- E i cambi funzionavano pure... 

«No-no. Ma… tutti e quattro i Carrera giù, la Cento km a squadre. Bum. Con Ghiro che… Ghiro tirava… Ah forse Leali c’era, non mi ricordo. Ma quelli che mi ricordo io, che ho visto, io stavo lì, mi ricordo proprio il “fotogramma”: ci sono Ghirotto, Roche, Chiappucci e mi sembra un altro davanti gli altri che stavano lì, a dargli appresso. Sembrava una Cento km a squadre, sai, quello sotto, giù con le mani basse, perché era pianura, no? Bum-bum-bum. Ghirotto, bum-bum-bum. Sarà andato con l’"11", non lo so con che [rapporto] andava... E andavamo come treni. A quel punto lì - e lì appunto non si capiva, in effetti - è l’altro grande errore di Boifava: in quella situazione, anche se ti metti... Fu Visentini a chiedere, a quel punto, che [la Carrera] tirasse. E lì Boifava doveva di’ no». 

- Il primo errore fu non decidere, il secondo fu quello che mi stai dicendo? 

«No, il primo è di non aver… Che ci fosse tensione, già da quando eravamo al sud, lo sapevano anche i sassi. Che la squadra fosse, che le cose tra questi due fossero attaccate con lo sputo, pure questo era evidente». 

- E l’altro errore? 

«E l’altro errore, lì, a un certo punto... Okay, hai mezza squadra davanti e tu hai il tuo presunto capitano che sta dietro; figlio mio, come tutti i generali, arrivano i momenti in cui bisogna fare delle scelte dolorose. E tu la scelta dolorosa, oltretutto secondo me più giusta, sarebbe stata quella di dire: bene, a questo punto tu stai fermo e resti lì come “riserva”. Se vinci il Giro sarà se loro non ce la fanno a vincerlo. Ma tu adesso stai fermo e non ammazzo il resto della squadra per questo. Anche perché... Cioè: far tirare la Carrera e che quindi tira tutto il resto del gruppo, far tirare la Carrera per riprendere la Carrera, francamente, nun se po’ guarda’…». 

- Aveva anche paura di rendersi ridicolo. In carovana ridevano tutti: direttori sportivi, corridori di altre squadre… Boifava pare abbia anche sborsato per farsi aiutare, e lo stesso Cribiori mi ha ammesso che una mano coi suoi dell'Atala gliel'ha data… 

«Lo so benissimo. Ma che ovviamente gli hanno detto: sì sì. E [poi] chiaramente han detto: oh, fa’ finta, eh, fa’ du’ minuti e poi… Eh, ma che sei matto, eh?! Nel momento in cui fai… È per questo che ha fatto... L’errore grave è stato quello. Nel momento in cui capisci, okay, m’è sfuggito di mano, secondo me l’unico modo per riprenderla era: bene, se ne assuma le conseguenze. Cioè: se tu sei un generale, hai un ufficiale che ha deciso di andare contro, se ne assuma la conseguenze. Se riesce a vincere il Giro, tanto verrà meglio pure a me; se lui non [lo vincerà]... verrà a merito a me lo stesso perché ha vinto quell’altro. Ma lì lui non c’ha capito un cazzo! È questa, secondo me, la verità. Perché quel giorno - e quella sera - lui era in difficoltà. E quando lui stava lì sulle scale e lo avevamo intercettato… Cercava di non rispondere alle domande. Ma perché hai fatto lavorare la squadra? Se tu stai fermo, saranno gli altri a doversi preoccupare di quanto stanno perdendo da Roche. Ma se tu fai vedere che il tuo problema è di perderlo per Visentini, eh... Guarda che Roche lavora per te, eh?! E tu non puoi fare scelte… Questa è la cosa che… Io poi dissi a Boifava, dopo: scusami, Davide, capisco che io sono al mio primo Giro, capisco che ci sono altre dinamiche però, visto da fuori, è incomprensibile che a te dovesse dispiacere se lo vinceva uno o l’altro. A te potrebbe andar bene pure se lo vincesse Ghiro. Cioè, non è possibile… Lasciamo perdere tutto, se poi ci sono degli altri accordi per cui tu preferisci che vinca uno piuttosto che l’altro, la colpa è sempre la tua. Cioè: tu non li devi fa’ quegli accordi…». 

- Brescianità o non brescianità… 

«Appunto! Appunto. Ed è esattamente su quello… Non voglio neanche… Se me lo dici, ti attacco anche di più. Perché allora non solo sei stupido, ma sei pure anche un po’ corrotto, anche un po’ - francamente - comunque un po’ disonesto. Anche perché, nei confronti di Roche, ma quello che è, ’na merda? Ma scusa, lui non lavorava con te? Quello non ha firmato un contratto per te, non sta lavorando per te? Non sta vincendo per te? Non te sta portando i soldi a te?!». 

- E non eri tu che volevi ridurgli l’ingaggio, perché veniva da un anno che, con quel ginocchio, non correva mai e i compagni lo chiamavano “il fantasma”? 

«Ripeto: siccome poi, alla fine, sembrava che tutto questo psicodramma fosse appunto uno psicodramma tra un… Il confronto tra un campioncino "psicolabile"…». 

- Forse anche un po’ viziatello? 

«Sì, viziatello… "Psicolabile", cioè, non solido. E uno che c’ha le palle di rischiare e di giocarsela, aho’, ma vaffanculo! Ma tu che preferisci? Chi cazzo è meglio, eddaje, su... Tu che preferisci? Stare con quella signorina che piange: oddio, me so’ sbucciato il ginocchio... O con quello, chi cazzo era che se fece, te ricordi quello che a una tappa se fece 140 km con la spalla rotta pur di arrivare? Era un passistone, uno con la nazionale e comunque sia cadde, si ruppe… [il riferimento è a Giancarlo Perini al Tour '95, coinvolto nella caduta in cui morì Fabio Casartelli, nda] ». 

- Il Tour '87 l’hai fatto? 

«No, perché l’ANSA non seguiva...». 

- E Villach ’87, il mondiale? 

«Sì, Villach sì. Il mondiale era scritto che lo vincesse. Io l’avevo messo tra i grandi favoriti…». 

- Anche se c’era il suo compagno Sean Kelly? 

«Secondo me sì, perché, a sensazioni, quel mondiale era complesso, non facile, contava molto… E soprattutto a me quello che aveva colpito, al Giro, era la forza d’animo de questo. Quello che, al di là dei può e non può eccetera, era uno che non aveva paura di prendere... da solo, uno, due, tre: no. E al Tour, tra l’altro, a parte Sappada, dove comunque sia, in fin dei conti, secondo me Roche è stato… Questa puoi scriverla: Roche ha vinto quel Giro grazie a Boifava; che, secondo me, se non faceva inseguire… No, perché gli altri a un certo punto se sarebbero guardati in faccia e avrebbero detto: aho’, e che glielo lasciamo vince’? E si sarebbero organizzati, avrebbero ripreso…». 

- Robert Millar (per tre anni suo compagno alla Peugeot) correva per Roche anche se era nella Panasonic capitanata da Erik Breukink… 

«Sì, ma non poteva essere tutti contenti che lo vincesse Roche. Cioè, non credo alla vulgata: ah, vabbè, ma a quel punto, se non fossimo stati noi a inseguire avrebbero… Faje prende' dieci minuti, ma che, te dispiace?! È la squadra tua… È questo l’assurdo, di quel ragionamento, che a me non ha mai convinto. Scusa, ma… embè? Anche se prende dieci minuti, e allora? Tanto meglio per te, no? Ah no, perché è il patto. No, allora, scusa: Roche però lo tieni a fare un’altra cosa, non è il patto… Patto de che? Era figlio di una dinamica del ciclismo, di una logica del ciclismo, che - francamente - era fuori tempo. Questo a me colpì, come primo Giro d’Italia. Giovane, avevo trent’anni, ma insomma giovane giornalista, osservatore, conoscitore. Ma dov’è la logica di questa…? È una logica... E infatti mi ricordo che facemmo… Sembra una seduta psicanalitica… Me stai tirando fuori... Facemmo delle grandi discussioni - anche proprio con Josti - sul fatto che loro vedevano il ciclismo - i tradimenti e le cose e i patti… - in un modo che, secondo me, era fuori [del tempo]…». 

- ...e anche molto "all'italiana"… 

«Esatto. Era una cosa molto “italiana” che, francamente, io non capivo. Perché… Aho’, lo sport è… A parte il fatto che pure con [Mario] Fossati c’era stata tutta una cena... Scusa, ma pure Coppi e Bartali so’ stati nella stessa squadra, e che non chiamavi "il grande tradimento"? Eh, quello va più forte, aho! A bello! E se tu ce n’hai, ce n’hai… Se non ce n’hai non ce n’hai, ’n’ c’hai ’n’ cazzo! Visentini non ce n’aveva. Punto. La verità è quella». 

- Visentini però nella crono di San Marino aveva dato quasi tre minuti a Roche ed era maglia rosa, è quello che ancora oggi fa discutere. Non s’era mai visto attaccare la maglia rosa da parte di un compagno per di più in modo così smaccato, o no? 

«Ma ho capito, ma certo. Ma se tu non capisci che tu hai messo… Tu non puoi non sapere che hai messo in una squadra due campioni. Poi se ne hai messi due, non puoi chiedere a solo uno…». 

- ...di non esserlo. Su questo ti seguo… 

«Cioè: era questa dinamica che era sbagliata in principio. Ed era quella nella quale si restava dentro, e sempre Boifava che… Più uno gli diceva: guarda, in ogni caso, allora, okay, benissimo, mettiamo, facciamo finta che tu hai ragione, che è quello che ha tradito il patto... Bene: se è quello che ha tradito il patto, lo lasci lì a cuocere nel suo brodo…». 

- Poi c’è anche la questione delle (presunte) dichiarazioni di Visentini. A Giorgio Martino della RAI - ammesso sia vero - disse: io a luglio me ne sto con le balle a mollo… 

«Ti ripeto: mi era evidente questo aspetto, questa differenza…». 

- Ma gli altri questa differenza non la coglievano? 

«Ma no, perché credo ci fosse più un fatto di rapporti. Ha vinto la vecchia guardia. Certe dinamiche, e questo e quello... Roche era un altro tipo di persona: intanto, un irlandese; e lo so, fai il giornalista sportivo, non è necessario che tu abbia una… Però io, una cultura politica, se sai che significa "irlandesi"… L’irlandese è l’unico popolo europeo che c’ha una guerra aperta da settecento anni…». 

- Qualcosa vorrà pur dire… 

«…forse, effettivamente, la tradizionale, la leggendaria “capa tosta” degli irlandesi ha un motivo d’esistere. Cioè: se se la tramandano, devi esse’ così, no? E immaginare che un irlandese possa accettare l’idea di darsi per battuto…». 

- Piuttosto ci lascia le penne, come avrebbe poi dimostrato al Tour lo stesso Roche, a La Plagne… 

«Ma quello, col cazzo! È impossibile. È lì che, ripeto, in un certo senso ho finito per fare un atto d’accusa per Boifava; che è quello che io pensavo... "Aiutato" da Visentini, che è quello che è, viziato e tutto eccetera, però, alla fine, ma perché quello… "Perché non deve tradire...”. Ma cosa hai fatto tu per non farti tradire? Che cosa cazzo hai fatto tu per conquistarti Roche? A Robbe’, ma tu, a Visenti’, in quale mistero… Tu che cosa pensavi, che lui ti dovesse essere fedele perché aveva lo stesso datore di lavoro? Be’, caro mio, questo, nello sport, non deve valere, caro! È sbagliato pensarlo, nello sport. Ma come fai a mandare a casa uno che, in fin dei conti, non ha fatto altro che fare il suo mestiere?». 

- Un po' mi hai già risposto e non ti chiedo un confronto tra quel ciclismo, e il modo di raccontarlo, e quello di oggi, perché non lo segui più per lavoro, ma vorrei mi parlassi di com’è cambiato proprio il mestiere? E infine ti chiedo perché hai sentito l’esigenza di cambiare. 

«In realtà c’entra molto Pantani, e il dramma di Pantani. C’entra molto perché, a parte il fatto che io avevo un buon rapporto con Marco... Non che andassimo a cena insieme…». 

- Diciamo che a pelle… 

«…ci piacevamo. Tanto per dirti, io, il Giro del ’98: era partita, per puro caso, questa strana abitudine per cui andavamo alle partenze tutti quanti e lui faceva gruppetto e poi restavamo in genere lui, io, [Angelo] Costa, che con lui era molto amico. Loro sì addirittura si vedevano, anche perché abitavano vicino. Però si restava, si stava lì, ma più che altro... Ovviamente non per l’intervista ma proprio a chiacchierare, fino all’ultimo, perché lui in realtà si scaricava, continuava a dire due cazzate, ma così, perché lui era molto attento nelle cose, no? Parlava…». 

- …e con te si lasciava un po’ andare? 

«Tanto sapeva che non c’era problema… E a me, di tutta la storia di Pantani, ha colpito molto…». 

- Lì hai capito che non faceva più per te? 

«Semplicemente l’evoluzione del giornalismo sportivo…». 

- O l’involuzione… 

«Sì. L’omologazione del giornalismo sportivo. E la trasformazione del giornalismo sportivo in un giornalismo “scritto”. In un surrogato – scadente – della televisione. Cioè: il giornalismo sportivo ha smesso di essere quello che è di natura, cioè opinione. Il giornalismo sportivo, da che esiste la televisione, la parte cronaca è inevitabilmente…». 

- I giornali ancora non l’hanno capita ’sta cosa. E non ti parlo neanche del web, neanche ci arrivo… 

«Lo so bene. Io sono figlio di giornalisti sportivi. Però, secondo me, il giornalismo sportivo è interpretazione del fatto sportivo, che ha il vantaggio, nel momento in cui esistono le dirette - da sessant’anni, per la verità – di essere l’unico evento reale che si vede in televisione. Tutto il resto è spettacolo. L’unica cosa che vedi reale è lo sport. E visto che tutti lo vedono, tu - al massimo - devi interpretare, ricostruire, raccontare, rileggere, vedere. Poi alla fine se tutto invece è mettere il registratore sotto il naso di uno e buttare dentro qualsiasi cosa dica, senza… Hai la stessa cosa, penso al giornalismo politico, eh. Se a suo tempo Berlusconi diceva una cosa, secondo me, col mestiere che ho fatto, era normale dire: sì, lei ha detto oggi questo ma ieri ha detto quest’altro. E questo, secondo me, è giornalismo; ma, evidentemente, sono l’unico. Sono uno rimasto di un’altra epoca». 

- Trenta e passa anni dopo, che cosa ti piacerebbe trovare in questo libro? Cosa ti piacerebbe veder confutato di tutta una serie di balle, di luoghi comuni… 

«Di che cosa, di quel fatto [di Sappada]?». 

- Sì, e di quel ciclismo… 

«Di quel ciclismo quel che immediatamente ho trovato stantio, figurati quanto a maggior ragione sono convinto adesso di essere stato a suo tempo dalla parte della ragione, è appunto il fatto che non si fosse capìto che in realtà, se tradimento c’è stato, è stato Visentini!». 

- Perché se ne parla ancora? Perché è stato così epocale? O siamo noi che siamo fissati coi complotti, perché siamo italiani? Perché all’estero non è così, per loro è stata una business choice… 

«Questo non sono io che... Ti ripeto: già all’epoca io ero… Perché [ne] avevo capito la logica». 

- Questo perché lavoravi in un’agenzia di stampa? Perché non so se in un quotidiano o in tv ti avrebbero fatto esprimere così: alla fine vieni anche tu un po’ assorbito dal "sistema"… 

«No, lì il fatto dell’agenzia non c’entra nulla. Comunque, nel caso specifico, a me sin da subito sembrava che il tradimento ci fosse al contrario. Okay, anche ammesso e non concesso che quello non abbia rispettato i patti, e dico ammesso e non concesso perché io proprio la certezza che poi tutta 'sta chiarezza ce fosse… Viste le reticenze verbali ed espressive di Boifava, visto il carattere di Visentini, viste le dinamiche, non sarei proprio tanto sicuro che fosse proprio così…». 

- Valcke mi ha detto che la gerarchia c’era però… Però è saltata nel momento stesso in cui Visentini dice (sempre se davvero l'ha detto): io a luglio me ne sto a mollo… Quindi la gerarchia c’era, ma solo sulla carta. O no? 

«Io sono uno di quelli che pensano che nella vita c’è una parte proponente, un momento di proposizione progettuale, e poi c’è una parte esecutiva. Non è che poi fate: okay, abbiamo detto che io sono il capo e quindi…». 

- Si può ripetere un episodio del genere? O i tempi sono troppo diversi? 

«Credo che adesso per diversi motivi – a) la comunicazione, ricordiamoci che all’epoca non c’erano i cellulari, questo è un aspetto fondamentale; non c’era nessuno appresso a quei quattro, quindi, sai… Non lo so, non [ne] sono del tutto sicuro: è ripetibile? No, non credo. Perché oggi è più normale avere una mentalità in cui non dai per scontato che ci sia il reato di lesa maestà. Al reato di lesa maestà non ce crede più nessuno. E loro ti dicono reato di lesa maestà quando era già sparito dal resto del mondo». 

- Per chiudere: non eri tra i Quattro dell’Ave Maria, ma eri uno dei Giovani leoni. Invece oggi ci sarebbero dei “Giovani leoni” o, anche qui, è tutto troppo diverso? Non c’è più quell’atmosfera lì? Irripetibile anche quella, come Sappada ’87? 

«Ma, sai, all’epoca, in quel momento lì, forse… T’ho detto: diversi vedevano la cosa più per la chiave del tradimento perché [ne] capivano la logica…». 

- Io parlavo però di voi giornalisti della carovana… 

«Sì, infatti, appunto, i vecchi all’epoca: divisione di opinione. Secondo me fu appunto una scelta. Quelli che scelsero di parlare di tradimento, avevano una visione un po’ ristretta, molto provinciale, dei rapporti. Secondo me». 

- Mi hai detto perché hai lasciato lo sport, non mi hai detto se ti manca. 

«No». 

- Per niente? 

«Il giornalismo sportivo? Per niente». 

- Perché? Là, con Pantani, si è spento qualcosa, in o per te? 

«No. Ho capito che l’idea di sport professionistico che avevo io non era quella che si sarebbe dovuta avere. Perché… Sarebbe dovuta essere, quantomeno, quella di un level playing field, quando invece il calcio ha mosso tutte le sue pedine per “ammazzare” l’unico uomo che al calcio poteva togliere attenzione». 

- Lasciamo perdere? 

«Siccome li conosco tutti i nomi di questa storia…. Tutti. Per nome, cognome, indirizzo, codice fiscale, incassi, guadagni: tutto. Chi ha fatto quella puttanata. Tutti». 

- Solo che tutto ciò non è dimostrabile. 

«Legalmente è indimostrabile. Come la storia di Armstrong: che Armstrong prendesse de tutto lo sapevo dal primo Tour [che ha vinto]. E stupisce che non lo sapessero gli altri, perché lo sapevamo tutti». 

- In tutto ciò che mi hai raccontato c’è un aspetto che non mi torna. Non dico certo che prima del boom dell'EPO si andasse a pane acqua, però erano doping ben diversi, o no? 

«Eeeehhh! Diversi. È quella la differenza fondamentale, ne abbiamo parlato all’inizio». 

- E quindi non li mettiamo sullo stesso piano? 

«È una domanda che mi stai facendo trent’anni dopo. Cioè: metti nella giusta prospettiva quello che ti ho detto prima. Quegli anni era normale che un corridore chiedesse, di fronte a un giornalista, che nuova merda quell’altro avesse trovato. E quindi il rapporto con il boost, chiamiamolo con un termine moderno, era molto diverso». 

- Visentini, uno sempre molto schietto, nel bene e nel male, ancora oggi a chi gli chiede ma perché correvi solo in Italia e al Tour non andavi, risponde che di là il livello si alzava talmente che avevi bisogno di dottori “bravi”… E lui stesso candidamente ammette: tu dammi quello che mi serve, la responsabilità è mia, sennò andavo a fare l’impiegato… 

«All’epoca era così. [Quel corridore] in mia presenza: “Ma quello ha trovato una merda nuova, ed io no…”. Quello era incazzato perché… È chiaro che era un altro tipo di dinamica, no? Era  quando – sei anni dopo –in Norvegia arriva il nuovo cliente e noi tre Giovani leoni gli diciamo: “Guarda che ’sta storia dell’EPO prima o poi ve scoppia in mano…”». 

Detto, e “fatti”. Se non tutti, quasi.
Christian Giordano

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