Sand Creek: la città del massacro porta il nome di chi lo fece


24 Jul 2024 - Il Fatto Quotidiano
Carlo Grande - 2.continua
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CHIVINGTON - SAND CREEK - La banalità del male, passeggiando tra il vento, l’erba secca e i silenzi che avvolgono il luogo del massacro di Sand Creek, è il nome di un paesetto poco distante: si chiama Chivington, come il codardo colonnello (tale lo definì la stessa commissione d’inchiesta del Congresso) che con 700 ubriachi suoi pari fece brutalizzare, scalpare e mutilare circa 150 bambini, donne e anziani Cheyenne e Arapaho, il 29 novembre 1864. Molti Nativi erano corsi sotto la bandiera degli Stati Uniti, che il capo Pentola Nera aveva innalzato davanti al tepee; gliel’avevano data quando firmò il trattato di Fort Wise, e sperava che quell’accordo valesse qualcosa. L’eccezionalità del bene, invece, sta nel nome dei graduati che rifiutarono di sparare: sono il capitano Silas Soule e i tenenti Joseph Cramere e James Connor. Li obbligarono a partecipare, con la minaccia della corte marziale. Ma ai loro uomini i tre diedero l’ordine di sparare solo per difendersi. Lo scrive Dee Brown in Seppellite il mio cuore a Wounded Knee. Soule, Cramer e Connor ci ripetono che guerre e ammazzamenti non sono inevitabili, si può sempre dire di no. Nessuno dei colpevoli venne punito, naturalmente, tanto meno Chivington. In compenso il capitano Soule, tra i primi a denunciare la strage, fu assassinato l’anno dopo, in pieno giorno, in una strada di Denver. Aveva testimoniato da poche settimane.


OGNI ANNO i Nativi rendono omaggio a lui e a Cramer, nel Riverside Cemetery di Denver. Parla anche di loro, questo arido avvallamento a ferro di cavallo dov’era l’accampamento, scavato dal “Sandy”, il sabbioso torrente nell’infinito e aspro ondeggiare della prateria. È asciutto, come allora. Una macchia d’alberi, su un’altura, offre ombra, panchine, un orizzonte sconfinato e un cippo su cui riflettere. In questo luogo, diventato memoriale solo nel 2007, aleggiano anche gli “obiettori”. Si immaginano il torrente e le tende capovolte, i cani e il fumo, le vite – come recita la canzone di Faber e Bubola – prese all’alba, sotto una coperta scura. Vicino al fiume-fantasma un’altra area sacra, proibita al pubblico: dove seppellirono i corpi.

A Wounded Knee, qualche decennio dopo, andò allo stesso modo, quasi 300 indiani, la maggior parte donne e bambini, falciati dalle mitragliatrici degli squadroni di cavalleria del Settimo Reggimento, quello di Custer.

“Non fu una battaglia, è stato un massacro” mi dice un’anziana Lakota che offre vecchie foto, cartine, acchiappa-sogni e sacchetti di erbe sacre e salvia selvatica da bruciare come incenso nei rituali. Segna col dito i territori rubati ai Lakota, andavano fino allo Yellowstone, paradiso terrestre ancora oggi nonostante l’affollamento di auto e turisti. Tutto smisurato anche lì, pascoli, prati e torrenti. Magnificenza e vastità inimmaginabili: l’orizzonte, le foreste scure e le mandrie di bisonti, i branchi di lupi grigi, la stazza degli orsi e dei grizzly, la fama di Yoghi e Bubu.

Erano dei Nativi anche le Black Hills, prima che scoprissero l’oro. Valli e montagne da cartolina, oggi meta di un turismo un po’ pacchiano, specialmente sul monte Rushmore, con i presidenti scolpiti nella roccia cui fa da controcanto l’incompiuta sagoma di Cavallo Pazzo, Crazy Horse. Luoghi dello spirito conquistati al turismo, alle “attività produttive”, allo “sviluppo”, travolti dal torrente della storia, uno scandalo che dura da diecimila anni, scrive la Morante. “Non fu una battaglia, è stato un massacro” ripete l’anziana Lakota a Wounded Knee, solo nel 2002 decisero di non definirla “battaglia” bensì “massacro”. Come a Venaus (con le debite proporzioni) in Valle di Susa, la notte del 7 dicembre 2005. Nessun morto, chiaro, “solo” la brutalità del potere. Molti media parlarono di “scontri”, scrissi, da testimone, che i manifestanti “correvano, inseguiti dai manganelli”.

Ai piedi delle Black Hills un altro simbolo, Sundance, il paesello del Kid, il ragazzo diventato feroce bandito come il ciclista nella canzone di De Gregori, figlio di antica miseria e di un torto: gli fregarono il cavallo, ne rubò un altro per andare nel Montana e la storia partì al galoppo, con il socio Butch Cassidy, che già intravidi a Trelew, nella Patagonia argentina. A Cody c’è la loro baracca, Paul Newman e Robert Redford li celebrarono con un film memorabile, a Redford ha ispirato il nome del famosissimo Festival di Park City, “senza dar nulla in cambio” dicono qui, esibendo magliette ironiche: “Sundance, dove non c’è il Festival”. Nessuna ironia sul campo di battaglia di Little Bighorn, nel Montana, ancora un’altura “iconica”, si dice oggi, i cippi nell’erba dove caddero militari e Nativi. Due memoriali, quello indiano dice, tra l’altro: “Abbiamo ucciso gente che era venuta per ucciderci”.

“Noi siamo gli eredi della gente massacrata a Wounded Knee e a Sand Creek – ripetono nelle riserve – siamo gli eredi di chi ha combattuto a Little Bighorn. Noi siamo qui da sempre e per sempre ci resteremo”. L’attualità più drammatica anche nella Wind River Reservation, resa celebre da un film recente, I segreti di Wind River, splendido episodio della tetralogia che Taylor Sheridan (quello della serie Yellowstone), ha dedicato alla frontiera. Parla di donne Shoshone che scompaiono nella noncuranza collettiva, di neve e ghiaccio negli inverni del Wyoming. Eppure offre speranza, e riscatto. Come il bisonte bianco nato nelle settimane scorse a Yellowstone, in molti ne hanno parlato. Un buon presagio, nella mitologia indiana, specie in tempi difficili e brutali.
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1. - L’ultima battaglia silenziosa per l’“eroe” negato Peltier


Carlo Grande
Scrittore e giornalista

Sono nato a Torino, mi hanno sempre interessato cultura, natura e creatività: per molti anni ho lavorato come professionista a La Stampa (redazione culturale) e collaborato con varie testate, D La Repubblica delle donne, Diario, L’Indice, Il Foglio
Sono stato direttore di Italia Nostra, tra le prime associazioni ambientaliste in Italia, ho scritto reportage da molti continenti, perché mi piace viaggiare, e romanzi che hanno vinto premi letterari e sono piaciuti parecchio al pubblico, ad esempio La via dei lupi (Tea, 2006, 2019) che ha vinto il Premio Grinzane Civiltà della Montagna e il Premio San Vidal a Venezia, La cavalcata selvaggia (Ponte alle Grazie, 2004; Tea, 2009), Padri. Storie di maschi perplessi (Ponte alle Grazie, 2006) e Terre alte. Il libro della montagna (Ponte alle Grazie, 2008, 2016). 
Nel lockdown ho scritto Il giardino incantato (ETS, 2021), viaggio-reportage sulle terre alte del Nord-Ovest italiano.

Ho partecipato al Festival della Mente di Sarzana, collaboro con Torino Spiritua­lità e nel 2020 ho contribuito, con Giuseppe Lupo, Laura Pariani, Raffaele Nigro, Dona­tella Di Pietrantonio e altri, all’antologia di racconti Le vie dell’acqua (Donzelli).

Sulla Stampa ho tenuto fino a pochi mesi fa, per 13 anni, una rubrica dedicata agli animali. Insomma, non mi sono fatto mancare nulla: per Giorgio Conte e Fredo Valla ho scritto il testo della canzone "Geò" e nel 2018 ho realizzato a Los Angeles il docfilm Last Angeles. One City, One Dream, distribuito in Italia, USA e Inghilterra su Amazon Prime Video. 
Ah, last but not least: ho giocato a calcio nell’Osvaldo Soriano Footbal Club, la Nazionale di Calcio degli scrittori italiani.

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