Eddy Merckx fa 80
A cena? Col nuovo Papa. Mai con Trump»
PANTANI - Avrei voluto conoscerlo meglio: l’avevo chiamato per fargli coraggio
POGACAR nuovo Merckx? Per come vince sì, ma non ha i rivali che avevo io
Suoi 5 Giri e 5 Tour
Tre volte iridato
Ha 525 vittorie totali
Pier Bergonzi
17 Jun 2025 - La Gazzetta dello Sport
MEISE - Ci sono campioni che definiscono i contorni di una stagione, altri che segnano un’epoca e poi ci sono i più grandi di sempre: giganti che hanno regalato al mondo emozioni senza tempo. Ecco, Eddy Merckx è uno di questi! Oggi supera il giro di boa degli 80 anni, traguardo pieno, e se si guarda alle spalle vede una storia straordinaria, che va dal chilometro zero del Dopoguerra (Eddy è nato il 17 giugno del 1945) fino ai giorni che stiamo vivendo. I suoi numeri sono pazzeschi: 525 vittorie, tra le quali 5 Giri d’Italia, 5 Tour de France, 3 Mondiali, 19 Classiche Monumento e il record dell’ora di Messico ‘72. Ma come dice lui «sono soltanto numeri…». Incontrarlo nella sua piccola reggia di Meise, a Nord di Bruxelles, è un’esperienza liturgica, anche se il mito ha una faccia buona e una cordialità che conquista. Gli piace parlare di ciclismo, del suo, nostro ciclismo. il tifo».
▶Come era Eddy bambino?
«Un terremoto di energia. Ero sempre in giro a giocare a pallone o pedalare con la prima bici che trovavo».
▶La sua prima bici da corsa?
«Una G.O.B. bianca che ho comprato in un negozio di Etterbeek, dove andavo a scuola. Costava 2 o 3 mila franchi belgi, non ricordo esattamente, e la pagai con le mance delle consegne. Aiutavo i miei genitori, che avevano un negozio di alimentari. Un piccolo negozio con una cucina e una stanza dove dormivamo in cinque: mamma, papà e noi tre fratelli. Per le consegne non mi pagavano, ma potevo tenere le mance…».
▶Da ragazzino ha provato molti altri sport: tennis, basket, calcio e persino la boxe…
«C’è una mia foto con i guantoni, ma era semplicemente un travestimento per una festa di paese. Il tennis lo giocavo a scuola. Basket con la squadra di Chant d’Oiseux, un quartiere di Bruxelles e soprattutto calcio, prima come attaccante e poi mediano con l’Anderlecht, che è da sempre la mia squadra. Quella per la quale faccio
▶Perché ha scelto il ciclismo?
«Avevo sempre sognato di correre in bicicletta. Quando mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande io rispondevo “il ciclista”. Obiettavano che non era un mestiere… Beh, alla fine per me lo è stato. Sono diventato corridore professionista e la mia professione credo di averla fatta bene».
▶ Eppure qualcuno metteva in dubbio che fosse fisicamente predisposto per correre in bici.
«Il mio storico massaggiatore Guillame Michiels mi diceva che avevo il fondoschiena, anzi diceva proprio il culo, troppo grosso per il ciclismo.
A casa del Cannibale che oggi compie 80 anni e ci racconta la sua vita: dal primo successo all’ultima uscita in bici: «Ma mai con l’elettrica...»
Poi si è ricreduto… E ancora adesso, dopo quasi 70 anni, ci scherziamo su».
▶Un ricordo del debutto in bici?
«Ho dovuto aspettare i 16 anni. Il 16 luglio del 1961, finalmente la prima gara a Laeken, dietro a Palazzo Reale. I miei genitori erano in vacanza con i mie fratelli e allora sono andato alla partenza in taxi. Arrivai sesto. A ottobre il primo successo a Petit Enghien, ma vinsi per un colpo di fortuna, perché quello che era in fuga aveva forato…».
▶Poi però vince a ripetizione e nel 1964 diventa campione del mondo dei dilettanti a Sallanches.
«Ero uno dei capitani di una squadra fortissima con Willy Planckaert e Walter Godefroot. Il commissario tecnico era Lucien Acou, papà di Claudine, che ho sposato nel 1967 ed è sempre mia moglie».
▶Professionista con la Solo di Rik Van Looy.
«Sì, ma non siamo mai andati d’accordo. Lui aveva il suo clan. Non mi voleva alle sue gare e le uniche volte che eravamo insieme mi prendeva in giro».
Eddy Merckx è nato il 17 giugno 1945 a MeenselKiezegem (Bel). È il ciclista più vincente (525 trionfi) della storia. Oltre a 5 Giri d’Italia, vanta 5 Tour de France (1969, 1970, 1971, 1972, 1974), 1 Vuelta (1973), 3 Mondiali (1967, 1971, 1974), 7 Sanremo (1966, 1967, 1969, 1971, 1972, 1975, 1976), 2 Fiandre (1969, 1975), 3 Roubaix (1968, 1970, 1973), 5 Liegi (1969, 1971, 1972, 1973, 1975), 3 Freccia Vallone (1967, 1970, 1972), 2 Lombardia (1971, 1972), 1 Parigi-Bruxelles (1973). Nel 1972 a Città del Messico realizza il record dell’ora con 49,432 km, 779 metri in più del danese Ritter (1968).
▶Nel 1966 passa alla Peugeot e vince subito la Milano-Sanremo, a 20 anni.
«Avevo finito il servizio militare da un mese. Quella doveva essere la mia prima vera stagione. E in quella Sanremo ho capito che potevo vivere di ciclismo. L’anno dopo ho rivinto la Sanremo battendo Motta e poi al Giro ho conquistato la tappa del Blockhaus e i giornali italiani hanno scritto che un velocista belga aveva vinto a sorpresa… Per tutti ero un velocista, un corridore da kermesse secondo la tradizione dei fiamminghi».
▶E invece conquista la maglia rosa nel 1968 e avrebbe vinto anche nel 1969 se non fosse stato fermato per il famoso doping di Savona.
«Una grande ingiustizia! Io non avevo fatto niente. Quel giorno ho pensato che avrei dovuto smettere. Mi dicevo: “Se il ciclismo è questo meglio che vada a lavorare”. La Faemino ha voluto rifare il controllo antidoping privato e sono risultato negativo».
▶Rudi Altig, compagno di squadra di Gimondi nella Salvarani, le aveva offerto soldi per perdere il Giro, quanti?
«Non ho voluto nemmeno saperlo per non avere mal di testa. Un Giro non si vende. Mai».
▶Ma dentro di lei pensa davvero che Gimondi abbia avuto a che fare con la sua squalifica?
«Felice? Non lo so… La sua squadra sicuramente».
▶Crede in Dio? Dove l’ha incontrato?
«Sì, sì sono molto credente. Quanto all’incontro è venuto lui a prendermi un paio di volte per i capelli. Sulla pista di Blois, nel 1969, ad esempio. Stavo volando a oltre 60 chilometri orari sulla ruota della moto guidata da Fernand Wambst. Alla moto derny davanti a noi, all’improvviso si è rotto un perno del pedale, la moto si è impennata e noi gli siamo finiti contro. Il mio pilota è morto sul colpo e io ne sono uscito per miracolo e non sono mai più stato lo stesso. Ero finito in coma per trauma cranico, ma Dio ha pensato che non fosse ancora la mia ora. C’è un Merckx prima e dopo quell’incidente».
▶Beh, ha comunque rivinto tutto e di più…
«Sì, ma ho dovuto fare più fatica e in salita non sono mai più andato forte come al Giro del ‘68 o al Tour del ‘69. La tappa delle Tre Cime di Lavaredo che mi ha aiutato a vincere il Giro d’Italia 1968 è il punto più alto della mia carriera. Ero in maglia iridata e quando ho raggiunto Polidori, che era l’ultimo degli attaccanti, ho sorriso a me stesso e non ho più nemmeno sentito il freddo anche se quel giorno si gelava. Gimondi arrivò con oltre sei minuti di ritardo. Non ho mai più fatto la differenza in montagna come quel giorno».
▶Ma il punto più alto della sua carriera non fu il record dell’ora del 1972?
«Quella fu la fatica più devastante. Io volevo a tutti i costi battere il primato. Non avrei considerato completa la mia carriera se non ci fossi riuscito, ma il tentativo arrivò in fondo a una stagione pazzesca, nella quale avevo già vinto Sanremo, Freccia, Liegi, Giro, Tour e Lombardia… Ho voluto provarci con due sole settimane di preparazione specifica, sono partito fortissimo e ho chiuso in 49,432 con 700 metri di vantaggio sul record di Ole Ritter. Ma fu lo sforzo più grande della mia vita. Quando sono sceso dalla bici non riuscivo nemmeno a camminare. Mi sentivo come un paralitico».
▶Quello è il record della famosa bici di Colnago, esposta al Moma, che pesava 5,750 chili...
«Colnago l’aveva alleggerita il più possibile, ma molti dei buchi sul manubrio e sulla moltiplica li ha fatti dopo per alimentare la leggenda… Colnago ha sempre saputo come “vendere” i suoi prodotti. Era bravo come meccanico, come era bravissimo suo fratello Paolino, il più veloce di tutti a cambiare le ruote. Ma io sono molto legato a Ugo De Rosa. Quando ho smesso di correre, e mi sono messo a produrre bici con il mio nome, Ugo mi aiutato tantissimo. Mi ha insegnato a saldare i telai. A Ugo devo un grazie infinito».
▶Gli avversari più tosti?
«Gimondi il numero uno: il più completo, tenace e continuo di tutti i miei rivali. In salita il più irriducibile è stato Fuente e nelle corse di un giorno ho dovuto duellare contro giganti come Godefroot e De
Vlaeminck. Tra di noi era sempre battaglia: in tutte le corse dal Laigueglia al Lombardia. Perché eravamo professionisti con il cuore dei dilettanti».
▶Una battuta per gli altri “suoi” campioni: Gianni Motta?
«Gianni Motta il più esuberante e imprevedibile, Vittorio Adorni il più furbo, Jacques Anquetil il Signore delle cronometro, Italo Zilioli il più buono e un grande amico, Marino Basso il Pirata delle volate, Francesco Moser il più grintoso, Bernard Hinault il più completo, un campione di temperamento».
▶Lance Armstrong?
«Eravamo amici. Ha dormito a casa mia… Ma non lo sento più. Mi ha deluso tantissimo».
▶Marco Pantani?
«Il più grande scalatore puro di sempre. L’avevo chiamato per fargli coraggio dopo l’incidente della Milano-Torino. Avrei voluto conoscerlo meglio».
▶Pogacar è il nuovo Merckx?
«Per come vince sì, certamente. Ma non ha gli avversari che ho avuto io. Mi ha impressionato per come ha vinto il Mondiale e l’ultimo Lombardia con fughe pazzesche e per come ha staccato tutti, da seduto, sul Mur de Huy alla Freccia Vallone».
▶Tadej è come lei un Cannibale, uno che ogni volta che può farlo vince.
«Giusto così. Chi va più forte deve vincere. Un vero campione si comporta così: i regali si fanno a Natale e ai compleanni».
▶A lei non è mai capitato di fare regali? Nemmeno a Bergamo, a casa di Gimondi al Giro del 1976?
«No, no… quella volta Felice mi ha proprio battuto. Non ci fu alcun accordo. Ci sono delle foto in cui ho le mani sui freni, ma la volata con Gimondi l’avevo già persa».
▶Se non fosse stato ciclista?
«Calciatore con l’Anderlecht. Quando ho smesso di correre ho giocato per dieci anni nella squadra delle vecchie glorie come interno destro. Correvo tanto… ma avevo anche una buona tecnica».
▶Va ancora in bici?
«Sì, ieri ho pedalato per una trentina di chilometri. Sempre con la classica bici da corsa. E non elettrica… Non riesco a vedermi con la bici a pedalata assistita. Sono stato operato all’anca e in certi giorni sto benissimo. In altri mi sembra di avere cento anni… Ma sono comunque contento perché un anno fa, per l’operazione d’urgenza all’intestino ho pensato davvero di morire. E invece Dio sì è rifatto vivo e mi salvato almeno per la seconda volta».
▶Può invitare a cena chiunque. A chi offrirebbe volentieri un bicchier di vino?
«Beh, mi incuriosisce molto Papa Leone XIV, un americano anomalo e molto interessante. Sicuramente non con Donald Trump».
▶Sul podio di sempre con...?
«Fausto Coppi e Bernard Hinault. Anche loro dominatori della loro epoca in ogni tipo di gara».
▶ Il più grande atleta di sempre tra tutti gli sport?
«Muhammad Ali. E sul podio ci vanno anche Usain Bolt e Jesse Owens».
▶Tutti la considerano il più grande. Lei come vuole essere ricordato?
«Come un corridore onesto, leale. Uno che ha sempre dato tutto. Per vincere».
Perché lo chiamano Cannibale
Eddy Merckx è soprannominato il Cannibale. Come nasce questo nome?
È stata Catherine, la figlia undicenne di un suo gregario, compagno di squadra ma anche avversario, Christian Raymond, a definirlo così. Raymond disse che Eddy non lasciava neanche le briciole agli altri, e la ragazzina al telefono disse al padre “ma allora è un cannibale”.
E così Merckx diventò il Cannibale per sempre. Il belga oltre a 5 Giri (77 giorni in rosa), vinse 5 Tour de France e una Vuelta. È uno dei 7 ciclisti ad aver vinto tutti e 3 i grandi giri
***
Re Filippo del Belgio lo invita a Palazzo
Oggi Eddy festeggerà a casa con la moglie Claudine (sposata nel 1967) la figlia Sabrina e i nipoti, mentre il figlio Axel è impegnato con la sua squadra dilettantistica al Giro Next Gen. Meise, il piccolo comune a Nord di Bruxelles, dove vive, gli dedicherà una piccola festa.
Ma giovedì scorso Merckx è stato ricevuto dal re Filippo del Belgio, che ha ufficialmente aperto i festeggiamenti per gli 80 anni del più grande campione belga e più grande ciclista di tutti i tempi.
Eddy ha fatto visita a re Filippo nei giardini della residenza reale di Bruxelles. Il sovrano sì è più volte informato dello stato di salute di Merckx che negli ultimi mesi si è sottoposto a vari interventi all’anca dopo una caduta in bicicletta ad un passaggi a livello. L’ultima operazione è stata fatta il 22 marzo. Merckx era stato fatto «Barone» nel 1996 dal padre di Filippo e la casa reale belga lo ha sempre considerato «il più grande ambasciatore del Belgio nel mondo».
«È stato un incontro molto emozionante - ci racconta Eddy - Il re Filippo è stato molto gentile, si interessato della mia famiglia, della mia salute a alla fine mi ha regalato un quadro con tre foto nelle quali ci sono io con gli ultimi tre re del Belgio: Baldovino, Alberto e Filippo, appunto. Mi stupisce sempre vedere quanta attenzione c’è nei miei confronti. Vuol dire che qualcosa di buono ho fatto». Esposizioni speciali dedicate a Merckx sono state allestite al Museo del Ghisallo, al centro del Giro delle Fiandre di Oudenaarde e al museo del ciclismo Koers a Roulers nelle Fiandre.
Commenti
Posta un commento