Sappada, la versione di Roche
Così parlò Stephen Roche a Philippe Brunel, storico inviato di ciclismo de L’Équipe e ancora oggi collaboratore (saltuario) della rivista. Rilette a trent’anni di distanza quelle parole suonano, se possibile, profetiche oltre che ancora più illuminanti. (chgiord)
Questa è la cruda testimonianza del campione irlandese. Ecco la sua versione dei fatti di Sappada. «Vi spiego perché sono nel giusto. E aggiungo che: Boifava non ha carattere; Visentini dovrebbe smettere (e vi racconto come si comporta con i compagni); il ciclismo italiano è su una brutta strada; l'esempio di Moser non è positivo; i giornalisti hanno le loro responsabilità falsando molte realtà. Questo mestiere è un'altra cosa...».
di Philippe Brunel
BiciSport n. 7, luglio 1987
BiciSport n. 7, luglio 1987
«Io mi ero reso conto fin dal mio arrivo alla Carrera che con Visentini non avrei mai potuto raggiungere un punto d’intesa. Non ci saremmo mai capiti, in quanto non avevamo la stessa mentalità. Sicché tutto quello che è successo a Sappada era in un certo senso scontato.
Forse sono un po’ duro con lui ma Visentini per me non è un uomo in quanto rifiuta il dialogo e questo comportamento non è da uomini. Quella sera a Sappada sono andato più volte verso di lui ma come al solito non mi ha risposto che attraverso monosillabi. Sì… No… Mumm… Nient’altro. E di questo suo comportamento, di questa mancanza di comunicazione con lui naturalmente io ho sofferto».
Mi sarebbe piaciuto tornare sugli incidenti successi nel pomeriggio e avrei voluto spiegargli la mia posizione. Avrei voluto dirgli che il suo punto di vista non mi sembrava coerente, anzi era contraddittorio ma non sono riuscito a parlargli.
Prima di Sappada, Visentini non mi aveva mai aiutato. Né al Giro di Romandia, né durante le prime tappe del Giro d’Italia quando indossavo la maglia rosa. Non ha mai speso un colpo di pedale per me. E faceva ricadere su di me ogni responsabilità, praticamente lasciandomi da solo con Schepers.
Visentini pensava soltanto a risparmiarsi in vista della tappa di San Marino. E dopo quella crono avrebbe voluto che mi sacrificassi completamente per lui e che noi tutti corressimo per difendere la sua maglia rosa. Visentini voleva vincere a ogni costo ma questo non era affatto logico.
Tutte queste cose, in fondo piuttosto semplici, le ho capite quando Boifava è venuto a raggiungermi lungo la strada nella tappa di Sappada, per dirmi di fermarmi di aspettare il gruppo. Sul momento non ho capito il significato delle parole di Boifava in quanto mi sembrava che la mia presenza in avanti fosse un vantaggio per la squadra. La mia posizione obbligava i corridori della Panasonic a lavorare.
E invece Boifava non voleva tutto ciò. Boifava non voleva problemi. Non voleva che succedessero cose in qualche modo capaci di contrariare Visentini. Boifava insomma voleva che la situazione restasse immobile fino a Saint-Vincent. Tanto è vero che Boifava mi fece addirittura dire dal mio meccanico che sarebbe venuto a buttarmi a terra con l’ammiraglia se non mi fossi fermato.
Nello stesso momento ho saputo che dietro, Boifava, faceva lavorare tutta la squadra per inseguirmi. E questo mi ha mandato fuori dai gangheri. Cosicché io stesso mi sono messo a spingere: ma solo in quel preciso momento. Prima non avevo mai dato un cambio ai corridori con cui ero in fuga.
Tutto questo è successo in corsa. La sera in albergo, a Sappada, non ho capito la ragione per la quale Boifava si è rifiutato di parlare con me al contrario di Quintarelli il quale si è dimostrato onestissimo e molto comprensivo… Io mi sono trovato solo. Solo con Schepers e con il mio meccanico francese, Valcke, il quale, poveretto, non poteva fare granché per me. Sentivo dire che mi avrebbero licenziato e che mi avrebbero impedito di correre il Tour de France. Mentre io sapevo di essere nel pieno dei miei diritti.
Ero veramente esasperato. Ero anche molto avvilito ma tutto quello che mi succedeva in fondo non mi sorprendeva neppure tantissimo. Prima di tutto perché di incidenti simili ne avvengono sempre, anche nelle migliori famiglie. Non è facile andare sempre d’accordo, ventiquattro ore su ventiquattro: ci sono sempre degli alti e bassi… In secondo luogo perché ormai avevo incominciato a conoscere le persone che mi circondavano, le loro virtù e i loro difetti e anche le loro debolezze.
Boifava non è affatto un cattivo direttore sportivo ma manca di carattere. Ed è anche troppo gentile. Vorrebbe sempre “arrangiare le cose”, aggiustare tutto in armonia ma questo non è sempre possibile. Quando un corridore commette un errore è normale che venga rimproverato e l’errore gli venga contestato. Invece il corridore sa che Boifava ha ormai perduto il gusto di dialogare con il corridore a forza di parlare al vento, di sbattere contro il muro. Già, perché i corridori fanno tutto di testa loro.
Io ho avuto la fortuna d’apprendere il mestiere e di correre, all’inizio, sotto la guida di Maurice de Muer e di Raphaël Géminiani e sono felice di avere tanta buona sorte. Tutti e due avevano una concezione del mestiere ben diversa.
Sapevano riprendere e rimproverare i corridori quando sbagliavano la qual cosa sollevava me dallo stesso impegno. E avevano una vera autorità che esercitavano nella squadra.
Géminiani, che aveva corso con Coppi nella Bianchi, ha sempre ripetuto a noi corridori che l’Italia è il paradiso di chi pratica questo mestiere, ed è vero. Ma se voi conoscete solo questo aspetto del ciclismo, quello che io ho sperimentato, siete irrimediabilmente perduti.
I corridoi italiani non amano affatto venire a correre in Francia, salvo due o tre eccezioni.
Dicono che sarebbe come andare all’inferno ma in realtà non hanno una visione sufficientemente larga e giusta del ciclismo, cioè del loro mestiere. Può darsi che io sia un po’ duro nel dire queste cose ma gente come Wiégant, De Muer e Géminiani mi ha fatto capire che io esercito un bellissimo mestiere che però richiede molto lavoro di preparazione prima di dare risultati. I tecnici che ho citato sanno creare rispetto intorno a loro mentre in Italia è spesso il corridore che decide. Si è portati, insomma, a credere di più ai leader della squadra che al direttore sportivo e questo è un fatto che falsa tutto.
Visentini, arrivato a questo punto, non dovrebbe fare più questo mestiere. Roberto è atleticamente dotato, ha tanta classe ma non ha nulla da dire in una grande squadra con vocazione e programma per un’attività internazionale.
Salvo il Giro d’Italia, Visentini non si interessa di nulla: per conto mio dovrebbe correre per la Remac.
Ma forse neppure la Remac lo sopporterebbe perché Visentini è un tipo veramente particolare, soprattutto per niente gentile con i suoi compagni di squadra.
Urla in continuazione, protesta perché non gli hanno portato una borraccia d’acqua in tempo, perché la borraccia era troppo calda oppure troppo fredda. La sera perché il suo letto è troppo piccolo oppure perché l’albergo doveva avere una stella in più. È dunque normale che Visentini non ami neppure “il menù del Tour de France” imposto a tutti i corridori. Però devo dire che molti corridori sono come lui in Italia tanto è vero che alla luce di quello che è successo a Sappada io adesso mi domando se non stiamo in realtà parlando di due concezioni diverse, opposte, del ciclismo.
Anche Moser ha delle responsabilità indirette in quanto adesso i giovani arrivano a pensare che non si possono ottenere dei grandi risultati senza l’aiuto di Conconi. Non bisogna ignorare la scienza, ma è ingiusto lasciar credere che con la scienza si risolva tutto. Infatti alla base ci deve essere il mestiere e per me il mestiere significa sacrificio.
Bisogna allenarsi, mangiare, dormire mentre i corridori italiani hanno dimenticato queste cose. Sono invece sempre preoccupati di fare esami clinici, fanno i test e finiscono per esagerare in questo campo. Se hanno male alle gambe scalando un colle è perché marciano a 350 watt al posto di 400. I corridori italiani esigono che la loro bicicletta sia il più possibile leggera, vogliono gomme da 200 grammi, vogliono raggi profilati ma poi cosa fanno? Piazzano computer sul manubrio. Ecco come si rasenta il ridicolo.
Su di un piano diverso, anche i giornalisti italiani hanno le loro responsabilità. Sono fantasiosi e non del tutto equilibrati. Parlano troppo di Moser, di Saronni e di Coppi.
Non parlano abbastanza, invece, di Giupponi, che è un buon corridore. Dei nuovi nomi il pubblico non sa niente e così un giorno, quando un giovane si afferma, il pubblico giustamente si domanda da dove viene. Tutto questo sistema finisce per deformare i giudizi e così la gente cade facilmente in errore.
Il giorno dopo di Sappada sono stato aggredito e sinceramente ho avuto paura di morire. Sono stato costretto a proteggermi dietro i miei compagni per difendermi da tutto quello che mi arrivava addosso. Ho avuto veramente paura per la mia vita. Eppure in nessun momento avevo tradito la causa della squadra. Ero stato gentile con tutti i tifosi, non avevo mai rifiutato un autografo o una fotografia.
Io credo che il mio intervento alla RAI nella trasmissione televisiva della sera a Canazei ha però risolto molti problemi e mi ha aiutato a continuare. Gli italiani hanno capito che io ero sincero e alla fine mi hanno persino incoraggiato. E nello stesso tempo si sono stabiliti i rapporti con i compagni. Quando io tornerò, avrò più compagni, intorno a me, e soprattutto più veri.
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