Roche: «Ho sempre saputo che avrei vinto»



A Sanremo stavo benissimo. Sapevo di essere andato sempre forte e che la maglia rosa non poteva sfuggirmi. A San Marino ho temuto di aver compromesso tutto. Ma da Sappada (e lì abbiamo sbagliato proprio tutti!) le gambe mi davano la convinzione che non potevo più perdere

Speciale di BiciSport – Il giallo del Giro 1987 

Appena è tornato in albergo, lontano dai clamori della premiazione finale, Roche si è chiuso nella sua stanza con la moglie Lydia e ha cominciato a scrivere dediche sulle maglie rosa ch aveva. Tutte personalizzate. Una per ogni compagno. Una per ogni componente la squadra che lo ha accompagnato in questa sua faticosa avventura. Poi le ha consegnate lui personalmente, mentre di sotto nella hall veniva preparato il rituale champagne. Roche sa come conquistare le simpatie e il rispetto di chi gli è vicino.

Sono stati momenti molto convulsi i suoi in albergo. C’eran troppe cose da fare. Ringraziare i compagni. Parlare con Boifava. Ragionare con Tacchella del proprio futuro (la Carrera gli ha detto quanto è disposta a dargli; oltre quel limite, è pronta a lasciarlo andare altrove. Lui ha ringraziato e si è riservato di di dare una risposta più in là). Sistemare le valigie. Finalmente stare con Lydia, la moglie che lo ha seguito come un’ombra senza mai intervenire. Fare il programma di viaggio (tornare a Parigi in auto perché lungo la strada aveva già fissato quattro appuntamenti con altrettante squadre, due italiane e due straniere, per la stagione 1988).

Quando pensa di aver fatto tutto, si siede in una poltrona a gustarsi la sua coppa di champagne. È tardi. E ormai la folla di familiari, sponsor e amici che si era radunata in albergo ha abbandonato.

Per tutti c’è il viaggio di ritorno a casa.

Lui si concede a un simpatico botta e risposta nel quale confida cose nuove che forse ora, mentre sente svanire la tensione della corsa, lascia affiorare con minor preoccupazione per i delicati equilibri di squadra. 

- Che cosa è successo a Sappada?

«Un casino nel quale abbiamo sbagliato tutti. Io a uscire allo scoperto. Boifava a far tirare la squadra. Visentini a perdere la testa».

- Perché è andato in fuga dietro Bagot?

«Perché pensavo che altre squadre mi avrebbero inseguito e che quella mia azione vrebbe fatto il gioco della Carrera».

- Credi che staccarsi come ha fatto Visentini sia solo perdere la testa o anche il pedaggio che si paga a un attacco portato con decisione fin dopo pochi chilometri dal via?

«Roberto non doveva farsi prendere dal panico, in fondo aveva davanti un compagno di squadra». 


- Un compagno-amico o un compagno-nemico?

«Un compagno con la sua stessa maglia che voleva che a vincere il Giro fosse la Carrera».

- A parti invertite che cosa avrebbe fatto?

«Avrei aspettato gli sviluppi della situazione».

- Si sente diverso da Visentini?

«Sì».

- In che cosa?

«Lui ha corso il Giro d’Italia soltanto per sé. Lui voleva vincere questo Giro perché non aveva voglia di fare il Tour. Io ho cercato di correre per la squadra perché penavo fosse giusto che la Carrera che spende tanti soldi avesse un risultato importante».

- E in corsa, come si è dimostrata questa diversità?

«Per le prime due settimane Visentini è stato a ruota. Non rispondeva agli attacchi, ma quando io andavo a chiudere i buchi lui mi seguiva. Un giorno che ero dolorante alla schiena, ho chiesto a lui di tenere calme le acque e lui ha attaccato».

- Roba da poco come attacco se si pensa al suo di Sappada…


«Il mio non voleva essere un attacco a Visentini».

- Che cosa vi siete detti con Roberto dopo quella sera?

«È difficile parlare con Visentini. Ci ho provato tante volte, ma lui risponde a monosillabi, non è facile capire cosa ha in testa».

- Che cosa avrebbe voluto dire a Visentini che non è riuscito a dirgli e a fargli capire?

«Che io non gli sono mai stato nemico e che non l’ho mai tradito. L’azione di Sappada è stata casuale, non preparata. In corsa si offrono delle situazioni che bisogna intuire in un lampo e saperle sfruttare. Ma non credevo che andando sulla ruota di Bagot sarebbe successo tutto quello che poi è accaduto».

- Ma lei si sentiva più forte di Visentini e quindi più capitano?

«Io sapevo solo che prima del Giro avevo già fatto molto bene. Avevo vinto delle corse e perso clamorosamente altre, mostrando comunque sempre una gran bella condizione. Pensavo di poter dare più garanzie, più affidamento di Visentini che invece a causa di diverse cadute aveva avuto un sacco di problemi ed era rimasto fermo per parecchio tempo».

- Che cosa pensa di Visentini?

«Ha classe, ma purtroppo paga una strana mentalità. Lui non ama quest’ambiente, non sente il fascino di certi momenti, non vuole correre all’estero. Con queste idee non potrà mai essere un campione, anche se, ripeto, certe qualità le avrebbe».

- Torniamo alla sua vittoria. C’è stato un momento in cui ha pensato che non avrebbe vinto?

«Dopo San Marino. Qulla sera tutto lasciava pensare che Visentini avesse ormai in pugno la situazione e io ero pronto a rispettare le consegne avute da Boifava. Dopo quel risultato, era Visentini il leader della squadra».

- Ma dopo Sappada?

«Dopo Sappada si è creata per me una situazione molto particolare. Sentivo che le gambe giravano molto bene e fisicamente sentivo di stare in ottima condizione. Ma psicologicamente e moralmente la situazione mi sfuggiva lentamente di mano. Avevo paura di tutto. Delle botte prese per strada, di un incidente in corsa, di un attacco cattivo».

- Ha vinto la sua prima grande corsa a tappe, che sensazioni prova in questo momento?

«Sono stordito. Comincio solo ora a rilassarmi un po’, ma dovrà passare ancora qualche giorno. Sono contento, ma pensavo fosse meno stressante. Ho capito quanto sia duro tenere la corsa per tre settimane. Ho capito che non basta solo una grande condizione fisica per vincere un grande giro. Ho capito che serve la fortuna. Ho capito che servono vicino dei compagni importanti e voglio ringraziare Schepers, ma non solo lui. Tutti sono stati preziosi per me. Sì, devo ringraziare proprio tutti gli uomini della Carrera».

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