Gibì Baronchelli - A Tista alta


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

«Io sono come la povera gente. Debole. Facile da maltrattare»
- Gianbattista Baronchelli a Paolo Ziliani, 1986

“Baronchelli Sport”
Arzago d’Adda (Bergamo), martedì 13 febbraio 2018

- Allora, Baronchelli: è vero che basta il cognome e non dobbiamo star qua a raccontare chi e che cosa è stato Gibì (o, per gli amici, il Tista), ma per chi non ha avuto il privilegio di vederla correre, che (gran) corridore è stato Baronchelli?

«[Sorride e si schernisce, nda] Se devo dire come vedo la mia carriera, penso di non essermi realizzato, nel senso che le gare che potevo vincere – che potenzialmente potevo vincere – non le ho vinte. Il Giro d’Italia non l’ho mai vinto, purtroppo».

- A quell’epoca c’era il patron del Giro, Torriani, che in qualche caso ha cercato di disegnare un Giro adatto alle caratteristiche di Baronchelli. 

«Il problema è che la mia carriera è stata impostata male dall’inizio. In pratica io ho fatto un po’ il contrario. Sono passato [professionista] molto giovane».

- Troppo giovane?

«No, prima si passa e meglio è, solo che io non ho avuto il tempo di capire e di imparare il mestiere. Mi han buttato subito nella mischia».

- Troppa responsabilità sulle spalle di un corridore così giovane?

«Beh, sì. Anche perché adesso, se faccio un confronto con Moser, che ha vonto cinque volte più di me, lui dal punto di vista dell’esperienza è partito con un vantaggio incredibile su di me. Tanto per fare un esempio, lui aveva tre fratelli professionisti».

- Lei veniva da una famiglia di corridori? Nessuno era appassionato di ciclismo?

«No, no. Si seguiva il ciclismo ma un conto è vederlo da fuori, un conto è essere dentro. Poi anche il mio clan di quando ero giovane, erano tutte persone improvvisate, tutti amici, che non sapevano. Tra l’altro quello che mi seguiva è scomparso pochi anni fa [Gigi Moreschi nel 2012, nda] e quindi lo ricordo sempre con piacere. Lui, prima di conoscere me, non sapeva neanche cos'era, la bicicletta, quindi… [sorride, nda] C’era, anche da parte loro, quando son passato io, il fatto che non avessero esperienza. Tra l’altro io, l’ultimo anno da dilettante, son andato fortissimo». 

- Lei vinse il Giro baby, il Tour de l’Avenir.

«Nello stesso anno».

- In Italia forse si esagerò un po’ con i paragoni: “il nuovo Coppi”…

«Sì, ma il problema è che io potenzialmente le doti le avevo, solo che avere le doti non basta. I corridori vanno anche programmati. Se noi prendiamo dei super, tipo Merckx, tipo Hinault».

- Non è stato molto fortunato come epoca.

«No, ma io li ho incontrati tutti e due. Ho fatto due secondi posti molto prestigiosi, dietro due super campioni. Però, ecco, prendiamo l’esempio di questi due. Merckx al suo primo Giro ha corso per le tappe. A correre per vincerlo ha iniziato a ventitré anni. Hinault: era un super. Ha trovato Guimard che l’ha guidato, e lui ha iniziato a fare il Tour nel ’78 e l’ha vinto. È del 54, e l’ha vinto. Io credo che gli atleti vadano anche programmati, anche perché a vent’anni fisicamente magari non sei neanche [pronto]. Adesso lasciamo stare, perché, se prendiamo Coppi, [il Giro] l’ha vinto a vent’anni. E quindi quello era un super. Io neanche voglio paragonarmi, però anche Saronni è stato buttato [nella mischia] un po’ presto. Lui ha vinto il Giro a ventun anni. E poi ne ha vinto un altro. Io ho incontrato Merckx e sono arrivato secondo, però c’era lo spazio per poterli vincere. In quegli anni lì poi ha vinto De Muynck nel ’78, e io arrivai ancora secondo. Ha vinto Saronni nel ’79, poi l’80 e l’82 è arrivato Hinault, quindi quando arrivava lui… Nell’81 Battaglin ha fatto una bella impresa, ma Battaglin si sapeva che era un atleta importante. Dopo, lui aveva degli alti e bassi più di me». 

- Anche lui è stato molto sfortunato fra malattie, cadute, incidenti. 

«Beh, anch’io con le cadute ho avuto sfortuna. Il primo anno mi sono rotto l’omero, e ancora ne porto le conseguenze».

- C’è una (presunta) sua frase che mi ha colpito. Non so se lei l'abbia mai detta o se gliel’hanno attribuita: lei si sentiva un po’ perdente dentro. È vero? 

«No. Io mi ritenevo un vincente».

- E perché le hanno attaccato questa etichetta?

«Eh, ma me ne hanno attaccate tante di etichette». 

- Infatti, son venuto fin qua per chiederle anche di questo.

«No, io ero straconvinto di essere in grado di arrivare a vincere certe corse. Solo che poi il problema qual è: che tu ne perdi una, perdi un Giro, ne perdi due, ne perdi tre…»

- …e la gente ti mette l’etichetta.

«Ma al di là della gente, psicologicamente, piano piano…».

- …lo paghi?

«Eccerto».

- Dal punto di vista tecnico, lei che corridore era? Caratteristiche, punti di forza, punti deboli?

«Il punto di forza mio era il recupero. E poi andavo forte».

- Su tutti i terreni? 

«Sì, ecco, la cronometro: non l’ho mai curata, purtroppo. I due errori grossi son stati: non capire quanto fosse importante concentrarsi; a cronometro non sapevo concentrarmi, perché atleticamente potevo benissimo fare, e le ho anche fatte, delle buone cronometro. E poi la pista: è importante farla da giovane, perché impari a stare in bicicletta». 

- Lei poi ha cambiato varie squadre. Ha trovato altre realtà con professionalità non all’altezza, o era già nella fase declinante della carriera?

«Considera che per me, quando mi son reso conto, poi han cominciato a fare dei Giri abbastanza “facili”. In quel periodo c’erano Moser e Saronni, sai che l’Italia sportiva del ciclismo vive sulle rivalità, è sempre vissuta su queste cose. E quindi poi per il Giro mi sono messo il cuore in pace, puntavo più alle corse in linea. Poi però alla Del Tongo è stata un po’ una rivincita che mi sono dovuto prendere per il fatto che era successo alla Supermercati [Brianzoli], che abbiam rotto il contratto a metà stagione».

- Per quale motivo?

«In squadra con Moser era impossibile stare».

- Due galli nel pollaio: mi torna in mente lavicenda di Sappada. Lei, che era ancora in gruppo, come la ricorda?

«Quello è stato il mio ultimo Giro. Alla vigilia di quella tappa mi sono ritirato perché avevo la febbre. Basta, io poi ho finito. Non ho più fatto il Giro».

- Perché è venuto via dalla squadra di Moser? Più per rivalità di corsa o questione caratteriale?

«No, era una cosa caratteriale. Non avevamo il carattere [per stare assieme], assolutamente».

- Mi racconta del mondiale d Praga '81: se la presero tutti con lei, che invece aveva fatto tutto quel che doveva fare per tirare la volata per Saronni, e quando invece si è voltato, dietro di lei non c’era? Ho ricostruito male?

«Sì, hai ricostruito bene».

- Ma allora perché era sempre lei a pagare per questa stampa poco amica? 

«Qualcuno doveva pagare, no?».

- Perché il Tista era l’anello debole? Non in corsa ma mediaticamente?

«[Sorride...] Io non ero l’anello debole. A me han fatto fare questo ruolo anche perché non mi difendevo. Nel senso che lasciavo stare».

- Per mancanza di arroganza?

«No, è stato è un errore. È stato un errore perché bisogna difendersi. Sempre. Solo che lasciavo perdere. Non andavo a… Anche perché sui giornali poi di cose vere ce ne son poche».

- Se è per questo, anche in tv.

«Questa cosa qua mi faceva un po’ arrabbiare, e mi chiudevo. Ed è stato un errore».

- C’erano giornalisti con cui aveva buoni rapporti? Se non altro per far sentire anche la voce di Baronchelli?

«Ci son stati degli sprazzi, ci son stati giornalisti – tipo Paolo Ziliani, Gino Sala, Mario Fossati – che mi han capito veramente. Ma il problema è che era anche difficile capirmi, perché ero troppo chiuso».

- Come è riuscito a vincere sei Giri dell’Appennino consecutivi: era la corsa più adatta alle sue caratteristiche o c’è dell’altro?

«Dicono perché non venivano quelli forti… [ridacchia]»

- Vabbè, allora ce l’avevano tutti col Tista...

«Se uno non viene a una corsa, vuol dire che tanto forte non è, perché non è sicuro di vincere e allora sta a casa, no? Quella, nel calendario nazionale dei tempi, era la gara più dura».

- A proposito, Sallanches ’80: è ritenuto il Mondiale più duro della storia. 

«Assolutamente sì. Noi siamo stati la squadra più numerosa. Arrivammo in tre su quindici: io secondo [a 1’01” da Hinault], quarto Panizza [a 4’25”] e decimo Battaglin [a 8’34]».

- A renderla così dura fu più la Côte du Domancy da fare venti volte o il clima?

«La salita, non il clima. Il clima era piovoso ma non più di tanto, non faceva freddo. Ad agosto come fa a far freddo?».

- A Villach ’87, il 6 settembre, però pioveva e faceva freddo. E vinse Roche.

«Quello è stato il primo che non ho fatto».

- Qual è invece il mondiale che lei avrebbe potuto vincere?

«Praga ’81».

- Perché l’Italia tirò, nel finale, pur avendo Baronchelli davanti? Per il solito discorso dei due sceriffi?

«Eh beh, insomma... Avevamo tutti la maglia azzurra ma probabilmente gli interessi erano che dovesse vincere o Moser o Saronni, [sorride]».

- Mi torna in mente, Lanfranchi, uomo Mapei, che a Lisbona 2004...

«…ha corso dietro a Simoni. Sono dinamiche diverse. Non è neanche questione di bici, perché poi quell’anno lì, a Praga, ha vinto Maertens, che correva su una Colnago e ha battuto Saronni che correva su una Colnago. Maertens poi è scomparso».

- Aveva grossi problemi, di alcool e tasse. Contro gli sceriffi però ha vinto due mondiali belli pesantini.

«È vero».

- Che cosa si rimprovera, se si rimprovera qualcosa. Dopo tutti questi anni si può fare un bilancio onesto, anche e soprattutto con se stessi, no?

«Il problema è che io a quel tempo avevo quella testa».

- Quando ha capito di essere stato seguito magari da bravissime persone che però professionalmente non erano, o non erano più, al passo con i tempi?

«Troppo tardi».

- Era ancora corridore?

«Sì, più o meno, sì, ma oramai… Se fallisci, se sbagli l’entrata, hai sbagliato tutto. È difficile raddrizzare una carriera, anche perché poi ti fanno recitare un ruolo, una parte che neanche è la tua. Mi han fatto passare per tutto, e di più. Comunque sono sopravvissuto. Ho fatto sedici stagioni».

- Sull’ambiente del ciclismo, lei ha avuto le stesse sensazioni di Visentini, che non ha più voluto più saperne? O all'ambiente è rimasto legato?

«Per me quella di staccarmi è stata una scelta, perché soprattutto non mi piaceva la vita del corridore, devi stare sempre in giro. Non era la mia vita»

- Lei qui aveva gli affetti e qui voleva tornare?

«Sì. Adesso, negli ultimi quattro o cinque anni, mi son risvegliato».

- In che senso?

«Sono un po’ più disponibile».

- Prima, era più riservato? Non si fidava di certi giornalisti o personaggi che popolano i media?

«Eh beh, non è che ho un bel ricordo. Ma d’altronde, anche i giornalisti son lì a fare il loro mestiere».

- Sì, però c’è modo e modo di farlo. Come il corridore. Non è che nel calderone si è tutti uguali.

«La gente vuole gli scandali, magari inventati ma li vuole; ma è assurdo. Adesso è uscito il mio libro. Mi ha convinto un mio tifoso, laureato in legge. Ha quattro, cinque anni meno di me. Mi ha conosciuto attraverso i giornali, la tv. Aveva scritto un po’ poi io l’ho corretto parecchio, perché non “ero” io. Poi lui mi ha lasciato fare perché, giustamente, era la mia biografia».

- Si parla anche di extra-ciclismo?

«No, è la mia biografia, di extra-ciclismo c’è pochissimo. S’intitola Dodici secondi, editore Lyasis. La sede è a Sondrio e l’autore, Luca Merisio, è di Bergamo. È una piccola casa editrice».

- Dodici secondi, il suo distacco al Tour del ’74, lei secondo dietro Merckx.

«Me l’ha suggerito Marco Pastonesi, gli ho detto: guarda, abbiam bisogno di te [ride]».

- Alla fine tornano anche utili, ’sti giornalisti.

«Sì, con le presentazioni e tutto. Lui sa cosa fare».

- C’è qualche personaggio cui lei è rimasto legato, che ha frequentato anche dopo aver smesso di correre? O anche lei ha mollato tutti, alla Visentini?

«Mi son trovato benissimo con tutti. No, be’, non come Visentini. Però se ti dico, negli ultimi tempi, quello che ho fatto, non ci credo neanche io». 

- Cioè?

«Moser ha avuto un incidente lavorando in campagna. Si è fatto male. L’ho chiamato per sentire come stava. Poi ci siam sentiti a Natale, ci siam scambiati gli auguri. Anche con Saronni».

- Mi fa piacere. Da quant’è che non vi parlavate con Moser?

«Non ci siam mai parlati… [scoppia a ridere]

- Questo aneddoto c’è nel libro?

«No, non c’è».

- Quindi questa è una chicca in esclusiva. Anche a lui avrà fatto piacere, no? 

«Penso di sì».

- È stato un gesto spontaneo, disinteressato?

«Sì, son rimasto colpito perché suo fratello Enzo è morto in campagna, sotto il trattore».

- Ho letto di lei a fine carriera : "Io torno alla terra perché vengo dalla terra". Lo disse davvero?

«Sì, appena smesso volevo fare l’imprenditore agricolo, avevo le piante, un po’ di roba».

- Aveva comprato della terra?

«Sì, un po’ di terra ce l’ho. Il problema è che poi dopo due o tre anni mi sono accorto che la terra era troppo bassa: o alzavano la terra oppure dovevano cambiar mestiere. E poi son venuto qua in negozio, che già c’era mio fratello».

- Quando ha aperto qui con suo fratello Gaetano?

«Nell’82, io poi sono arrivato nell’89».

- E come va?

«Benissimo. Basta lavorare il giusto, che poi lo stabiliamo noi».

- Ha guadagnato abbastanza per non dico vivere di rendita ma almeno non preoccuparsi troppo? O con quel ciclismo, anche un ex corridore di livello internazionale, ancora oggi deve lavorare? 

«Ho corso sedici anni e in Italia ero un corridore nei primi cinque, nei primi tre, quindi…».

- La pubblicità, per esempio: lei ne faceva?

«Sì, ma pochissima».

- Ha mai pensato di avere un procuratore, allora non c’erano?

«No, mai. I soldi venivano sempre dopo altre cose. Magari ho sbagliato anche quello, perché se ti fai pagare di più, sei anche rispettato di più».

- Anche dal punto di vista mediatico. C’è più prudenza a prendersela con corridori o diesse legati a uno sponsor che magari investe in pubblicità su testate o emittenti che mantengono la baracca.

«Anche continuare a cambiare squadra è stato un danno per me. Un errore grosso. Però alla Bianchi, e nel libro c’è, potevo finire la carriera lì, perché io non sono un tipo che cambia. Son venuto qui nell’89 e io, prima di cambiar mestiere, smetterò di lavorare. Anche quando correvo, dopo tre anni dicevano che ero finito, che dovevo smettere. Son andato avanti per sedici anni a correre. Non son gli altri a dirmi quello che devo fare. Anche nelle squadre: ho fatto cinque anni alla Scic, poi è arrivato Saronni e per me non c’era più spazio. E quindi o fai il gregario di Saronni, o hai una squadra divisa. Oppure ci si mette d’accordo: tu fai queste corse, io faccio quelle. E sono andato via. Ho fatto un anno alla Magniflex, e non mi son trovato bene. Poi sono approdato alla Bianchi e ho fatto tre anni. Ma io alla Bianchi avrei finito la carriera, non volevo correre così tanti anni. Però poi, anno per anno, andavo avanti e correvo. Ma comunque io alla Bianchi ho trovato un ambiente che mi ha galvanizzato, mi ha fatto ritornare la voglia di correre».

- E dopo, che cosa è successo?

«È successa una cosa, e nel libro la spiego, una cosa che mi avevano promesso e non l’han mantenuta».

- Parliamo di aspetti economici o di cose tecniche, di corse?

«Di cose tecniche, di corse».

- Quindi magari di quel certo tipo di gregari?

«Bravissimo. Allora alla Bianchi, quando son arrivato io, c’era Knudsen che era l’uomo-faro. Knudsen nell’81 ha smesso e la Bianchi, i dirigenti, avevan promesso a me che prendevo io il posto di Knudsen. A me andava benissimo perché non volevo vincere io, a me andava bene la squadra com’era impostata, solo che poi hanno cambiato idea e son stato messo un po’ da parte».

- Su chi hanno puntato? Erano gli anni del tridente di Ferretti: lei, Contini e Prim?

«Puntavano su Contini, più giovane di me».

- Com’erano i suoi rapporti con Contini?

«Buoni».

- E nella Del Tongo invece che cosa successe?

«Ho vinto il [mio secondo] Lombardia, subito: l’86. E poi ho fatto l’87 ma lì oramai ero stanco».

- Quand'è che ha cominciato a sentire di non essere più il Tista di prima?

«Nell’83».

- Addirittura? Mica facile vincere un Lombardia se già non ci sei più con la testa.

«Eh, ma lì è stato uno stimolo, con quello che era successo alla Supermercati [Brianzoli], mi ha stimolato, ma poi è finito in fretta».

- Adesso che vi siete riconciliati, qual era il problema con Moser? Perché non c’era feeling?

«Beh, lui vuol essere il primo ma i risultati gli danno ragione».

- Con lei aveva qualche atteggiamento un po’ sopra le righe?

«Vabbè, ha il suo modo di fare, che io non condivido. E a lui quel modo di fare rendeva».

- Non è una parte che lui recitava, è il suo modo di essere, vero?

«Assolutamente sì, certo. Ma lui ha avuto i frutti di questo atteggiamento».

- Invece con Torriani lei che rapporto aveva? 

«Era un grosso personaggio».

- Lui ci provò anche a disegnare dei Giri adatti alle caratteristiche di Baronchelli.

«Uno: quello del ’75, e troppo presto. Troppo presto».

- E quello del ’77, vinto poi da Pollentier? 

«Lì mi son riscattato, perché arrivavo dal ’75, che avevo fallito. Il ’76 così così, il ’77 son arrivato terzo al Giro, poi ho vinto il Lombardia. Però quello che brucia di più è quello del ’78. Lì avevamo la squadra divisa. Lo persi la terza tappa, quell’anno lì. C’era via De Muynck, io ero nel gruppetto dietro, eravamo a venti secondi. Avevo dentro tre compagni di squadra però abbiamo avuto l’ordine di aspettare Saronni, che era staccato. De Muynck è arrivato con un minuto e poi ha vinto il Giro con 59” [su Baronchelli, secondo, nda]. Era inevitabile che uno dei due… Io dovevo andare via da lì, non c’era più spazio».

- I suoi rapporti con Visentini e Roche?

«Roche non lo conosco. Visentini era un tipo… Quei Giri lì, fatti per Moser e Saronni, andavan benissimo anche a lui. Andava bene a cronometro, era un corridore per quei Giri lì, non troppo duri, perché se c’eran due, tre tappe consecutive difficili, non aveva quella tenuta. Era un bel corridore, ma si preparava [solo] per il Giro. Io invece…».

- Nell’83, per tempi su strada, cioè senza gli abbuoni, il Giro lo avrebbe vinto lui per 48”, invece lo vinse Saronni. 

«Anche nell’81, lo aveva vinto Prim a tempo, ma con gli abbuoni l’ha perso [per 38”]. Eh be’, non era giusto, tutti quegli abbuoni...».

- Al Giro 1983, Saronni con gli abbuoni guadagnò 3’20” contro l’1’25” di Visentini. Però si sapeva che c'erano e Saronni era là a buttarsi nelle volate per rosicchiare secondi, risultati poi decisivi.

«Però nell’86, andando su a Foppolo, quello che ha tirato su i corridori son stato io, poi gli ultimi due chilometri son saltato per aria come un pollastro».

- Quello è stato il miglior Visentini che lei ha visto?

«Quell’anno lì, metti che io non tiro ad andar su, là…».

- …lui non vince il Giro?

«Eh. Saronni era lì, eh. Se si scopre lui, chi è che tira? LeMond? Era mica il tipo che tirava, il LeMond. Muñoz? Chi era lo spagnolo? Ho tirato quasi tutto io lì, eh».

- Forse era Alberto Fernández. E lei perché aveva tirato?

«Perché mi sentivo bene, solo che ho sbagliato a fare il conto con le mie forze [ridacchia]».

- E la maglia azzurra? Dietro ci sono tanti interessi, spesso trasversali.

«Eh, lo so…».

- Il suo rapporto con il Ct Alfredo Martini com’era?

«Martini era bravo a tenere insieme il gruppo, però io l’ultimo mondiale che feci, quello negli Stati Uniti, a Colorado Springs nell'86, dietro ho stoppato due corridori. Ho coperto la fuga di Argentin. Io soffrivo moltissimo l’altura, ma quando son tornato giù, volavo. E io quell’anno lì, sarà un caso, ho rivinto il Lombardia».

- Il ciclismo di oggi lo guarda? E, soprattutto, si diverte?

«È abbastanza noioso».

- Questo perché gli squadroni ammazzano le corse, o perché ci son troppi soldatini?

«Ma nooo. Io direi che la radiolina va tolta».

- E la sicurezza? Tanti direttori sportivi sostengono che oggi ci sono troppe rotonde, e in gruppo ci sono duecento corridori.

«Son tanti i corridori in gruppo».

- Infatti i grandi Giri ora si corrono con otto anziché nove corridori per squadra, e le classiche monumento con sette.

«Troppi. Adesso è impossibile. Io non so come facciano, ogni cento metri c’è una rotonda. Correre oggi è molto, molto più difficile che ai miei tempi. Molto più difficile».

- C’è un campione che l’ha emozionata dopo che lei ha smesso? O che la emoziona, se è ancora in attività. Faccio un nome: Peter Sagan?

«Sagan è un grande, ma come testa».

- Perché è “libero”, e riesce a perdere col sorriso, sapendo di aver dato tutto?

«È vero».

- C'è un Baronchelli oggi, qualcuno in cui lei si rivede?

«No, ognuno ha le sue caratteristiche. Tornando a Sagan, al Tour 2017, dopo che è caduto Cavendish, non era da squalificare. Il suo errore, la sua umanità ha fatto pensare ai giudici che fosse andato a scusarsi, invece era andato ad accertarsi come stava [Cavendish]. Perché, al di là della corsa, a lui interessava la salute. E infatti i commentatori: “…va a scusarsi, ma non si può…”. Cavoli. Quello lì, Cavendish, se guardiamo le sue volate, più scorretto di lui non c’è nessuno. Cavoli, ma questo qui doveva tirare i freni, ma dove vuoi andare? Certo, questo qui sa andare in bici, eh. Questo qui a sessanta all’ora ti alza la bicicletta. Questo qui è un fenomeno, in tutti i sensi».

- E uno dal punto di vista caratteriale?

«Rebellin».

- A 46 anni suonati corre ancora. 

«Forse è meglio che si faccia visitare... [ride]».

- In bici lei va ancora?

«Sì, poco. Per la salute».

- Con amici?

«No, da solo. Non voglio rogne. Le mie battaglie le ho fatte, anche dopo».

- Non me ne racconta neanche una?

«Sono nel libro. Qualcosa d’interessante c’è».

- Tipo la pace con Moser. Posso definirla così o è fuori luogo?

«È fuori luogo, perché io non son mai stato in guerra».

- Vuol dire che in guerra era l’altro? Soffriva più lei Moser o viceversa?

«Non ci siam mai parlati, ma per colpa più mia che sua. Qualcuno doveva pur fare il primo passo».

- Che cosa l’ha convinta a farlo lei, dopo tutti questi anni?

«Quando ho sentito dell’incidente mi sono ricordato del fratello, morto sotto il trattore. Umanamente, ho detto: cavoli, pensa… Mi son sentito di chiamarlo per accertarmi di come stesse e vabbè, da lì dopo ci siam scambiati gli auguri. Anche con Saronni».

- È una bella storia. Mi racconta almeno l’inizio della telefonata: “Ciao Francesco, sono il Tista…”? 

«Sì».

- E lui? Questo c’è nel libro?

«Noo».

- Come no?

«Oramai, era già fatto».

- Lui era emozionato?

«Aveva piacere. No, non credo si emozioni».

- Sarà stata una bella sorpresa.

«Gli ha fatto piacere. Sai, dopo è uno che non è che sta lì tanto a girarci intorno. È uno che ti mette anche a tuo agio».

- Allora, per chiudere: il Tista è stato un incompiuto o no?

«Atleticamente, sì». 

- Rispetto alle potenzialità?

«Certo».

- Però, lei è soddisfatto di ciò che ha fatto?

«Cosa conta? Il passato non conta».

- Conta per se stessi.

«Sì, per quello comunque io sono in pace con me stesso».

- Non è una cosa da poco. In tutti i mestieri.

«Sì, ma il passato è passato. È inutile che uno abbia nostalgia. La bici a me…».

- …ha dato tutto?

«Cavoli. Io se non correvo in bici, cosa facevo? L’agricoltore? L’operaio?».

- È una passione che ha sempre avuto o le è venuta dopo aver scoperto di andar forte?

«Nel libro ho scritto, ed è vero, che son andato a correre perché non avevo voglia di lavorare nei campi. Hai capito?».

- Disse qualcoa di simile Giuliano Figueras, ma non è detto che da corridore si faccia meno fatica, anzi.

«Ho sbagliato sport». [ride]

CHRISTIAN GIORDANO




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