CAPITOLO 11 - Dean (Nai)Smith (1981-84)


«Non lasciate passare un giorno senza aver fatto qualcosa per una persona che non possa ripagarvi o che nemmeno sappia che l’avete aiutata.»
– Dean Smith

«Dean Smith ha saputo forgiare il carattere di Michael.»
– James Jordan

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Parlando del legame fra Jordan e il suo ex allenatore al college, si rischia di scivolare nella retorica del rapporto padre-figlio e simili. Sarà banale ma è così, visti i vincoli, fortissimi, che ancora oggi tengono uniti i due. Sgombriamo subito il campo da pericolosi equivoci: prima di scendere nel dettaglio di come il Mago di Chapel Hill sia entrato nella vita extra-basket di Michael, va subito detto che questo, signori, è un genio del basket. E non solo di quello di college. È un genio della palla a spicchi in generale. Punto e basta. 

Quello che Smith rappresenta per l’intero Stato del North Carolina, lui che pure è originario del Kansas (è nato ad Emporia, il 28 febbraio 1931), e per la pallacanestro mondiale in genere, è difficile da spiegare in poche righe, soprattutto se non si ha ben presente quella sorta di aura d’infallibilità che negli USA, addetti ai lavori (e non) amano appiccicare addosso ad allenatori dalla carriera lunga e piena di vittorie, meglio ancora se trascorsa per gran parte nello stesso posto.

La parabola tecnica di Smith, però, anche al di là di ogni possibile eccessiva esaltazione, ha espresso dei valori oggettivamente inconfutabili. Ampliando il campo, per far capire la statura non solo tecnica ma anche e soprattutto morale del personaggio, più di tanti discorsi vale questo semplice fatto: l’arena dove giocano le partite interne i Tar Heels della University of North Carolina si chiama, ebbene sì, Dean Smith Center! Forse non ci siamo capiti: quelli di UNC gli hanno intitolato l’impianto dove gioca la squadra.

A questo evento, già di per sé eccezionale, deve essere ancora aggiunto il più bello: il palazzetto, a Smith, non solo gliel’hanno dedicato da vivo, episodio più unico che raro, ma lo hanno fatto addirittura mentre il buon Dean era ancora in attività.

Fate finta, per un istante, di essere l’uomo più amato e rispettato dell’intero North Carolina e di guidare dalla panca una delle powerhouse più… “power” dell’intero panorama del college basketball.

E supponiamo abbiate in calendario una partita e che la squadra che per mestiere allenate giochi in casa. Prima di uscire, vi guardate allo specchio, fate due conti e dite a voi stessi che state per recarvi allo stadio a giocare il vostro match casalingo. Dove giochiamo oggi?, vi chiedete celiando. Giochiamo al… Dean Smith Center.

Per quanto, a ragione, si possano “odiare” le statistiche, soprattutto quando esse vengono usate a sproposito, è difficile, se non impossibile, evitare di citare quelle che riguardano Smith. Il Santone di North Carolina ha chiuso la sua straordinaria carriera di capo allenatore dopo ben 36 (trentasei!) anni di panchina biancoceleste, con 879 vittorie (record assoluto NCAA, davanti ad un altro mito, Adolph Rupp ), 2 titoli NCAA, dieci Final Four, e vagonate di giocatori, tutti rigorosamente completissimi dal punto di vista dei fondamentali e dal comportamento irreprensibile, regalati al professionismo. Per farsi un’idea della fama e della stima di cui il personaggio gode nell’ambiente, basta rendersi conto della considerazione che ha del modo di lavorare di Smith, un “duro” come Pat Riley, poi coach e oggi presidentissimo dei Miami Heat e fra i pochissimi totem ascoltati da quella sempre più ingovernabile players’ league che è diventata la NBA. «Guardiamo sempre con particolare attenzione a quelli che provengono da North Carolina» ha dichiarato in un’occasione il coach più impomatato di sempre. «Sanno giocare, hanno gran carattere, come i Jordan, i Worthy . Stimo moltissimo Dean Smith, e gli sono grato perché sono io a trarre vantaggio dal lavoro di quest’uomo, che ha insegnato basket a tutti. Quando [gli ex Tar Heels] approdano nella NBA, sono ben preparati, già pronti a scendere in campo». In concreto, un’incoronazione. E da Riley, poi.

Ma chi è Dean Edwards Smith, cestisticamente, prima di approdare sulla Tobacco Road per ricostruire, partendo dalle fondamenta, quello che sarebbe poi diventato uno dei program cestistici più ricchi di tradizione di tutta l’America? Da sesto uomo (nel ruolo di guardia) delle squadre della University of Kansas (campione NCAA nel 1952 e secondo posto l’anno successivo), all’inizio degli anni Cinquanta, alle dipendenze di quell’altra leggenda che risponde al nome di F.C. “Phog” Allen , Smith, per tutta la sua vicenda agonistica, ha sempre avuto modo di “respirare” grande basket. E di imparare ad insegnarlo. Tramite segnalazione dello stesso Allen, nel 1955 il giovane Dean (24 anni) approda alla corte di Bob Spear, all’epoca neo head coach della U.S. Air Force Academy, l’accademia aeronautica degli Stati Uniti, che proprio in quell’anno avvia un proprio program cestistico.

Spear è un metodico cui non fa difetto la creatività, dote, quest’ultima, che gli avrebbe permesso di cavarsela anche nelle situazioni in cui non avrebbe avuto a disposizione “materiale umano” dal talento sopraffino; in parole povere, conosce la difficile arte di saper fare le nozze (una stagione decente) con i fichi secchi (giocatori scarsini). Per Smith, anche lì, lezioni da vendere. Poi, altro giro e altro grande di turno: nel 1958 Dean è chiamato da Frank McGuire che lo vuole come assistente a North Carolina. È la svolta.

Nell’estate del 1961, a soli 30 anni, al giovane assistant coach si presenta l’occasione della vita. La chance arriva quando McGuire decide di lasciare la panca di UNC per tentare l’avventura nei pro e afferrare al volo, agli allora Philadelphia (oggi Golden State) Warriors, l’imperdibile opportunità di allenare l’immenso Wilt Chamberlain. Alla sua prima stagione con responsabilità di head coach, l’allenatore-ragazzino Smith si accolla un peso che avrebbe schiacciato chiunque, ma non lui.

I Tar Heels avevano vinto il titolo nazionale NCAA da imbattuti (32-0, il loro record in quella magica stagione) nel 1957 ma, dietro a tutta questa luce, c’era più di qualche ombra dovuta ai sospetti di tutt’altro che presunte irregolarità commesse nelle operazioni di reclutamento. A differenza di quella lenza di McGuire, però, Smith, pur non perdendo il gran bel vizio di saper attirare il fior fiore del basket liceale (mai sentito di un certo Mike Jordan?), riesce a farlo sempre entro gli angusti limiti dei rigidissimi codici regolamentari imposti dalla NCAA. Dopo qualche ovvia difficoltà iniziale, dovuta certo all’inesperienza ma anche alle sanzioni (meno borse di studio elargibili e calendario ridotto) inflitte dalla NCAA per le violazioni commesse dalla precedente gestione, finalmente Smith decolla, con tre Final Four di fila nel triennio 1967-69. Ormai è un “nome” e, come tale, ha carta bianca su tutto: dal reclutamento (fatto sempre in prima persona, con lettere, telefonate o “visite pastorali”) alle divise (bellissime, disegnate da lui!), dall’arredamento del proprio ufficio (stupendo, progettato da lui!) alle invenzioni tattiche sul parquet. Qualsiasi cosa faccia Dean Smith è ben fatta. Un genio. Ma questo ve l’avevamo già detto, no?

Se poco sopra abbiamo scritto “invenzioni”, parlando di tattica cestistica, non è per caso. Il Santone di Chapel Hill, infatti, è noto in tutto il mondo del basket per alcune sue peculiarità che, tra una vittoria e l’altra, gli hanno pure attirato qualche critica. Le rotazioni del parco giocatori, per esempio, rappresentano proprio uno dei terreni sui quali è stato più costantemente attaccato. Smith era capace di mettere in campo una star per poi toglierla per 30’’. Altro esempio: nelle sedute d’allenamento, era solito insegnare ai suoi gli schemi senza quell’oggetto che difficilmente si potrebbe definire insignificante dettaglio, il pallone. Secondo il Verbo di Dean, palla = distrazione. Se parla lui, si ascolta. E basta. 

Più volte, poi, la critica non gli avrebbe risparmiato i suoi strali. A parte la celeberrima battuta, già riportata, secondo cui si sproloquiava che fosse stato proprio Dean Smith l’unico uomo al mondo capace di tenere Jordan sotto i venti punti a partita, per molto tempo, da parte degli osservatori più superficiali, a Smith sarebbe stato imputato di aver vinto troppo poco , soprattutto in rapporto alla ricchezza del patrimonio tecnico di cui solitamente aveva potuto disporre. 

Condannato dalla critica all’eterna etichetta di sostenitore del gioco “controllato”, convinto assertore di una filosofia cestistica (e di vita) riassumibile nel concetto della suddivisione dell’abbondanza (di talento) nel gruppo, Smith ribatteva alle accuse sfornando come panini giocatori già pronti per il “piano di sopra”, quello professionistico. E il tutto senza mai perdere di vista l’obiettivo principale che, in virtù del suo modo di intendere la figura di allenatore universitario, più educatore che coach, si autoimponeva: formare degli uomini prima ancora che dei giocatori. 

Da quando quest’uomo del Sud, tutto d’un pezzo, di cultura superiore e modi sopraffini, ha assunto l’incarico di capo allenatore della squadra di basket di uno degli atenei più famosi d’America, l’85% degli atleti-studenti che si sono iscritti da (e in molti casi per) lui a North Carolina si sono laureati. Attenzione: la cifra comprende anche coloro i quali hanno deciso di lasciare anzitempo il college per tentare la sorte nei pro. Gli stessi, il più delle volte, sono tornati per laurearsi, magari studiando d’estate. Grande conoscitore d’uomini, oltre che bravissimo allenatore, e quindi di come vanno le cose nel mondo, si è legato a sé per la vita i giovani virgulti che giocavano per lui, curando per prima cosa sempre e comunque il loro interesse e poi, secondariamente, quello della formazione che allenava, cioè il suo. Se uno dei suoi giocatori gli chiedeva consiglio riguardo all’eventualità di passare professionista prima di aver trascorso i canonici quattro anni di università, Smith rispondeva sempre per il bene del ragazzo: se questi aveva problemi economici, sarebbe stato meglio per lui firmare subito e mettersi a posto per la vita, perché poteva bastare un banale infortunio per perdere certi treni che forse non sarebbero ripassati più; se il “prospetto” era ancora troppo tale, vale a dire ancora troppo acerbo tecnicamente, il suo suggerimento sarebbe stato quello di restare ancora un anno (o due, se si trattava di un sophomore) per completarsi, perché nella NBA lo avrebbero massacrato. Se, infine, il giovanotto in questione chiaramente non aveva i mezzi per vivere col basket, il caldo monito era quello di studiare e di pensare a laurearsi, per costruirsi lo stesso una buona strada nella vita, con in mano un bel pezzo di carta col timbro di UNC. 

Insomma, Smith ha dimostrato in tutta la carriera, e che carriera!, di saper essere una persona onesta ed integerrima in un mondo, quello del college basketball, dove ipocrisie, soldi e pastette sono all’ordine del… minuto. E poi, e questo la dice lunga sulla sua serietà, è stato uno dei pochi coach, stiamo parlando ovviamente di quelli che “spostano”, a non prevaricare con la propria figura quelle dei suoi giocatori, che, alla fine, in ogni livello e per tutti gli sport, sono pur sempre quelli che scendono in campo e che determinano fortune e rovesci di qualsiasi mago, vero o presunto, della panchina. Ecco perché la stragrande maggioranza degli atleti che hanno giocato per lui ne mantiene un ricordo così buono: si fidano. Ecco perché uno come MJ sente ancora il bisogno di un parere da Dean Smith.

Jordan è stato certamente l’esempio più famoso, il giocatore più noto a lasciare Chapel Hill con la sua paterna benedizione, ma come dimenticare altri Tacchi Incatramati che hanno deciso di salire in anticipo al “piano superiore” per giocare la propria carta al tavolo dei pro? A partire da Bob McAdoo (primo e unico giocatore di junior college a ricevere una borsa di studio da UNC e primo ’Heel a lasciare anzitempo il college per passare professionista), per continuare con lo stesso James Worthy (compagno di Michael nella squadra che vinse il titolo nell’82), JR Reid, e per finire con Jerry Stackhouse e Rasheed Wallace (anche gli ultimi due, nonostante le arie da boriosi esponenti della X-generation, d’estate tornano a giocare al Carmichael Auditorium: è tutto dire…). Altri nomi passati da Chapel Hill sotto la supervisione smithiana? Eccoli: Billy Cunningham, Bobby Jones, Doug Moe, Phil Ford, George Karl, Larry Brown. Può bastare? 

Se vale, come vale, il vecchio detto, che trova cittadinanza in tutto il mondo della pallacanestro USA, secondo cui nel basket pro conta la scritta che c’è sul retro della canotta da gioco (leggi nome del giocatore) e in quello di college la scritta che c’è sul davanti (leggi nome dell’università e quindi del coach), allora rimane valido il concetto che allenare a livello “collegiale” significa dover fare qualcosa in più del semplice cercare di vincere il campionato NCAA. Essere allenatore di college, inteso alla Dean Smith, vuol dire anche educare gli student-athletes, forgiare in loro quello spirito che poi rimarrà come un marchio di fabbrica morale del giocatore, limitatamente alla sua parabola agonistica, e dell’uomo, prima, durante e dopo di essa. E quell’uomo, ormai adulto, in ogni caso non smetterà mai di essere legatissimo alla sua alma-mater. 

Analizzando l’intero arco 1981-1999, non riconoscete in più di qualche tratto della parabola jordaniana la mano di Smith? Ci piace pensare, allora, che i tanti ex Tar Heels fossero tra i pochi pro a giocare… con la canotta indossata al rovescio.

Smith è stato, inoltre, anche un grande innovatore dal punto di vista tecnico. Se oggi espressioni come attacco “shuffle”, “passing game”, difesa “run & jump” sono pane quotidiano per chi mastica pallacanestro, molto si deve al vecchio (ormai senza virgolette) Dean. E se parliamo di sistemi di gioco innovativi, specialmente offensivi, impossibile non citare il contributo del Profeta del “Four Corners Offense”, l’Attacco a Quattro Angoli, destinato ad imperitura fama non tanto per… aver suggerito il nome al ristorante presente a Chapel Hill, quanto per la sua effettiva valenza tecnica. La paternità del celebre sistema offensivo, gli è sempre stata erroneamente attribuita, ma risale in realtà al “jurassico” James “Babe” McCarthy, coach di Mississippi State, o forse addirittura ad Arthur Lonborg di Northwestern. Certo, la disposizione di quattro giocatori nei quattro angoli (che permette di “congelare” la palla che viene fatta circolare fino a che non si apre un varco nelle maglie della rete difensiva avversaria) non l’avrà inventata Smith, ma chiediamoci per un momento chi l’ha resa famosa: lui, McCarthy o Lonborg? «Nella mia carriera l’abbiamo impiegato 137 volte per difendere il vantaggio, e abbiamo vinto in 135 occasioni», ha dichiarato Smith, che, evidentemente, deve essere uno attento ai particolari. 

Vogliamo poi discutere del "T-game” contro le difese a zona, o dello schema 1-4? D’accordo, sarebbe interessante, ma rischieremmo di… scrivere un libro su Dean Smith! Ma non c’è solo il Dean Smith "tecnico”: anche l’ormai consueto huddle, il breve conciliabolo che si svolge tra i giocatori all’altezza della lunetta nei momenti di pausa del gioco, è opera del Mago, così come l’abitudine, da parte di chi ha appena segnato, di indicare col dito l’autore dell’assist che gli ha permesso di andare a realizzare. Il tutto, alla luce del suo insegnamento secondo il quale il “gruppo” deve sempre venire prima di tutto. In campo e fuori.

Tutto questo, e molto di più, è stato Dean Smith, una persona che ha trovato sempre il tempo per dare un consiglio, fare una telefonata, andare a trovare un suo ex giocatore. Il rapporto di stima, affetto e fiducia fra “Coach” (come lo chiama tuttora Michael) e i suoi giocatori permane ben oltre il quadriennio (quando esso viene completato) accademico e non è riassumibile in poche righe. Per renderne un’idea, ancorché largamente approssimativa, basti pensare che ancora oggi, lo stesso Michael Jordan, che pure è… se stesso, quando deve prendere delle grosse decisioni su questioni di particolare importanza alza la cornetta e chiama… Avete indovinato chi. E, a parte le particolari circostanze relative a questioni straordinarie, Michael, che talvolta può apparire così “distante”, così lontano dal suo vecchio mondo, non ha mai nascosto di continuare a sentirsi regolarmente con l’antico Maestro di basket e di vita. Ma non è solo per bisogno che gli ex biancocelesti si sentono di chiamare il Santone, e se proprio di necessità si tratta allora è proprio una necessità del cuore. 

Abbiamo volutamente tralasciato di soffermarci su cosa abbia significato l’epoca di Smith per l’intero basket di college, dal punto di vista promozionale, dell’immagine, dello sviluppo del torneo NCAA, perché, come detto, ci sarebbe voluto un altro volume. Ci limiteremo, allora, a riportare solo la seguente annotazione: nel 1961-62, la prima stagione di Smith a UNC, il campionato durava solo due settimane anziché tre, la tv per le Final Four era una cosa semplicemente inimmaginabile e le squadre non erano 64 ma quaranta in meno (!); ma è tutto l’indotto di attenzione di pubblico e dei media, d’immagine, di contratti stipulati, che la figura di questi Maestri del basket universitario hanno in qualche maniera incrementato, da autentici, straordinari personaggi quali sono stati e, in qualche caso, sono tuttora. 

Oggi, se dici UCLA, dici John Wooden. Se dici Georgetown, dici John Thompson. Se dici Kentucky, dici Adolph Rupp. Se dici UNC, dici...

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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