CAPITOLO 16 - I Bulls alla carica (1986-87)


«Quando la media di Michael scenderà a 25, 28 punti a partita, i Bulls avranno una squadra migliore.» 
– Pat Riley

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Per rimpiazzare Albeck come allenatore, Krause si rivolse al 35enne ex giocatore Doug Collins , che veniva da due anni come commentatore di basket per la CBS Sports dopo che le sue uniche esperienze di panchina erano state tre stagioni come assistente allenatore a livello di college, una alla University of Pennsylvania e due ad Arizona State. Krause chiamò anche il coach veterano Johnny Bach e l’ex giocatore Gene Littles per i ruoli di assistenti accanto all’eterno coach Tex Winter, confermato dallo staff di Albeck come uno dei pupilli personali di Krause.

Poi si mise a riattrezzare il roster, sbarazzandosi di quei giocatori che riteneva non rientrassero nei suoi piani per il futuro: Orlando Woolridge, Sidney Green, David Greenwood e Jawann Oldham, che furono tutti spediti via in cambio di un pacchetto di scelte del draft. Ciò lasciò Jordan, al rientro dopo quel serio infortunio al piede, come l’unico realizzatore certo in un quintetto titolare che nella serata d’apertura avrebbe compreso anche Charles Oakley, Earl Cureton e Granville Waiters là davanti e Steve Colter nell’altra posizione di guardia.

Con poca roba nella rosa eccetto Jordan e l’ala rimbalzista Oakley, Collins fece quello che qualunque altro coach dotato di un minimo di sale in zucca avrebbe fatto al suo posto: "palla a Jordan e tutti fuori dai…". Come avrebbe lui stesso dichiarato in conferenza stampa dopo una partita, suscitando l’ilarità dello stesso Michael, seduto lì accanto. Ma anche se il resto della squadra aveva pochissimo talento, quando hai Jordan di solito hai già abbastanza. 

La stagione fu un capolavoro individuale di uno dei più grandi cannonieri che il gioco del basket abbia mai avuto. Jordan bombardò i Knicks (nella vittoria per 108-103) con 50 punti al debutto (compresi tutti gli ultimi 18 dei Bulls), inducendo Collins a delirare estasiato: «Non ho mai visto nessuno come Michael Jordan, mai, mai e poi mai». Ma anche se in quell’occasione il coach era andato in brodo di giuggiole per la sua star, i rapporti tra i due non sarebbero mai decollati.

«Doug Collins ed io partimmo col piede sbagliato» dichiarò Michael parecchi anni dopo, ripensando a quell’annata in ogni caso unica. «Stan Albeck era stato licenziato e Krause aveva assunto Collins, che era stato ad osservare in segreto la squadra per l’ultimo mese della stagione 1985-86. Io avevo fatto un’ultima CAN scan prima dell’estate e, prima che partissi, Krause voleva che incontrassi Doug. Ci sedemmo e Krause mi comunicò che non voleva che giocassi a pallacanestro quell’estate. Io lo guardai dritto negli occhi e gli replicai: “Guardi, io sto tornando in North Carolina per giocare a basket. È così che miglioro, io devo giocare a basket in estate. E poi, ho finito la stagione giocando più di 40 minuti a partita”. Krause mi rispose: “Tu sei proprietà dei Bulls e noi possiamo dirti quello che devi e quello che non devi fare”». 

Per quanto riguarda coach Collins, poi, questi commise l’imperdonabile errore di non schierarsi, il che voleva implicitamente dire schierarsi con chi comanda. Cosa che, a MJ, quando non è lui a comandare, non è mai andata giù. «Doug Collins stette fermo lì e ripeté lo stesso concetto» continua nel racconto Jordan. «Doug forse si mise d’accordo prima con Krause affinché questi potesse dargli manforte. Ma non fa differenza, fatto sta che tutti e due erano lì davanti a me e mi dicevano che se avessi giocato in qualche partita mi avrebbero multato. Io gli risposi: “Voi non avete il controllo della mia vita e l’estate è il mio tempo libero: per otto mesi all’anno lavoro per i Chicago Bulls, ma io non sono proprietà di nessuno”. Feci una scenata. Qualche settimana dopo, avevano sentito che avrei giocato una partita tra ex studenti di UNLV e North Carolina a Las Vegas. Io ero un ribelle, ma non ero pazzo. E non volevo altre tensioni con il management. Dissi a Coach Smith e agli altri ex studenti che sarei andato fino a UNLV per sostenere la squadra, ma che non avrei giocato. Non faccio in tempo ad arrivare a Las Vegas che Krause mi manda un messaggio in camera. “So che non giocherai, ma se lo farai ti multeremo con il massimo con cui possiamo multarti come giocatore dei Chicago Bulls”. Fumavo dalla rabbia. Arrivo all’arena e loro sono lì, Krause e Collins seduti in prima fila. Erano venuti fino a Las Vegas per vedere se avrei giocato nonostante sapessero che non avevo alcuna intenzione di giocare. La squadra [degli ex] di North Carolina è nello spogliatoio quasi pronta per scendere in campo. Io do un occhiata a Krause e a Collins, marcio dritto negli spogliatoi e dico: “Datemi una maglia”. Tentarono di multarmi, ma non poterono per via della clausola “Love of the Game” del mio contratto. Mi sono sempre chiesto perché mai facessero tutti quei problemi. Qual era il punto? Quali erano le loro motivazioni? Stavano cercando di calmare i miei bollenti spiriti? Krause trattava tutti come pezzi di m. e cercava di fare lo stesso con me. Quello che lui non conosceva e che non avrebbe mai potuto toccare era la considerazione di me stesso come persona. Io ho rispetto di me e non c’è niente che uno possa fare o dire che me lo possa far cambiare». 

La brillante gara d’apertura della terza stagione di Michael come professionista era stata solo l’antipasto di quello che sarebbe stato un pranzo luculliano. Tante e tali abbuffate di punti da far venire, con l’andare dei mesi, l’indigestione. Agli avversari. Jordan avrebbe guidato i Bulls nelle marcature per l’impressionante numero di 77 partite su 82.

Qualche record battuto qua e là: primati di franchigia per punti (3041, primo giocatore NBA della storia a raggiungere quota 3000 dai tempi di Wilt Chamberlain nel 1962-63), tiri dal campo realizzati (1098) e tentati (2279), tiri liberi realizzati (833) e tentati (972), e palle recuperate (236). Michael, in quella stagione irripetuta e irripetibile, segna 40 o più punti per ben 28 volte e almeno 50 in sei occasioni. Il 21 novembre 1986 Jordan realizza 40 punti e, tra questi, gli ultimi 18 dalla sua squadra nella vittoria contro i Knicks (a New York) per 101-99. Il 9 dicembre Michael segna almeno 40 punti per la settima partita consecutiva (!) e i Bulls vincono con i Denver Nuggets 106-100. Il 26 febbraio ’87 è la volta dei New Jersey Nets: 58 punti, con 26 su 27 dalla lunetta, nella vittoria per 128-113 della sua squadra. Il 4 marzo, quattro partite dopo, Jordan ne segna 61 in una vittoria al supplementare per 125-120 su Detroit. Il 24 marzo, nell’ultima apparizione di Julius Erving a Chicago, Michael saluta il suo ex idolo Dr. J regalandogli 56 punti (con 22 su 32 al tiro) nella vittoria per 93-91. Il 12 aprile, nella vittoria casalinga, 116-95, su Indiana, Air vola a quota 53 con il 70% al tiro. 

In una fiammata di tre minuti è il solo dei suoi a toccare il pallone, portandolo in avanti e segnando o subendo fallo. 16 aprile: per la terza partita consecutiva Jordan infrange il muro dei 50, segnandone un record di 61 (primato ottenuto senza disputare tempi supplementari) nella sconfitta interna (117-114) con Atlanta. Tira giù 10 rimbalzi e diventa il secondo giocatore (dopo il “solito” Wilt Chamberlain) a segnare 3000 punti in una stagione e 50 in tre incontri di seguito. Segna anche 23 punti filati per Chicago, battendo il suo precedente record NBA. I suoi 3041 punti di quell’annata sono il massimo di sempre per una guardia. Quasi superfluo aggiungere che avrebbe dominato la classifica cannonieri della lega: 37.1 punti a partita, una media inaudita. 

Jordan diventa anche il primo giocatore di tutti i tempi a far registrare almeno 100 stoppate (ne molla 125) e 200 recuperi (236) nella stessa stagione. Tutto questo, e molto di più, è stato Michael in quella stagione fenomenale, ma, proprio per la sua eccezionalità, non si sarebbe mai più ripetuta. 

«Sarebbe stata dura, se non impossibile, continuare a segnare come avevo fatto durante la stagione 1986-87» sarebbe stata l’opinione di Jordan undici anni dopo. «Ho attaccato dalla palla a due fino al fischio finale per 82 partite. Era quella la mia mentalità. In termini di talento fisico ne avevamo meno in quella squadra di tutte le altre dei Bulls in cui ho giocato. In effetti quei Bulls non erano esattamente uno squadrone, a giudicare dai nomi snocciolati dal leader di quella formazione. «Quando si aprì la stagione il nostro quintetto base vedeva Steve Colter alla posizione di point guard, Earl Cureton e Charles Oakley alle ali e Granville Waiters al centro. Sapevo che avrei avuto la necessità di segnare se volevamo vincere e sono abbastanza sicuro che Doug Collins la pensasse allo stesso modo. Realizzai una striscia di nove gare con 40 o più punti. Non avete idea di quante e quali energie occorrano per segnare 40 punti in una sera. La differenza tra avere di media 32 punti a partita nel corso di un’intera stagione e un po’ più di 37 è significativa. Pensateci mettendola così: se ne segnavo 32 una sera poi dovevo segnarne 42 la sera successiva solo per andare a pari». 

Se la matematica non è un’opinione: 32+42=74, 74/2=37. 

Se per Jordan, individualmente, quella sarebbe stata una stagione a dir poco pirotecnica, lo stesso non si sarebbe potuto dire giudicandola dal punto di vista della squadra. Il campionato dei Bulls fu molto meno spettacolare, anzi fu all’insegna di una mediocrità che appariva ormai come una specie di seconda maglia sotto quella ufficiale: se la portavano sempre dietro. Cambiavano gli allenatori, i dirigenti, ma non i risultati. 

I Tori, quell’anno, vinsero cinque delle loro prime sei partite ma poi ne persero 7 su 10 precipitando a un per loro “normale” 50% di vittorie, soglia attorno alla quale trascorsero gran parte del torneo. In marzo Chicago sembrò per un attimo scuotersi: vincendone sei su sette riuscì ad arrampicarsi per cinque partite sopra il pareggio vinte-perse, portandosi sul 31-26, ma poi ridiscese alquanto bruscamente allo stesso livello stavolta perdendone sei su sette. 

I Bulls chiusero la stagione perdendo anche le ultime due gare e così il bilancio finale, ancora una volta, non avrebbe lasciato adito a dubbi: 40-42, passaggio rocambolesco ai playoff in quella che non doveva essere stata certamente una Eastern Conference di squadre indimenticabili, ed eliminazione rapida nella postseason. Anche qui, un film già visto. Boston "spazza" Chicago in tre partite secche e tutti a casa. E stavolta non c’era nemmeno stata la Gara 2 dell’anno precedente ad addolcire la pillola. Come venne definita allora quella sfida, «un classico esempio di squadra fortissima che batte un grandissimo solista». 

A parte Jordan solo Oakley aveva avuto una buona stagione, guidando la NBA nel totale rimbalzi accumulati nelle gare casalinghe. Di gare interne o esterne non si faceva differenza, invece, al botteghino. Da quando c’era Jordan, a vedere i Bulls al Chicago Stadium o da qualunque altra parte dell’Unione non erano mai meno di diecimila. 

Per due volte Jordan e i “Jordanaires” attirarono una folla di oltre 30.000 (dicasi trentamila!) persone al Pontiac Silverdome di Detroit, campo casalingo dei Detroit Pistons, dove l’1 febbraio 1987 Michael mise in scena un altro spettacolo dei suoi: 38 punti nella sconfitta dei Bulls, davanti a 38873 paganti inebetiti e incapaci di esultare per la vittoria della loro squadra su UN giocatore.

Tanto per cambiare, anche in quell’anno MJ fu selezionato nel primo quintetto All-NBA e non lo turbò più di tanto la scudisciata tecnica arrivata sotto forma di pepato commento dell’allenatore imminente campione NBA, Pat Riley dei Los Angeles Lakers (oggi ai Miami Heat): «Quando la media di Michael scenderà a 25, 28 punti a partita - fu la previsione di Coach “Gel” - i Bulls avranno una squadra migliore». Era vero. 

CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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