CAPITOLO 13 - Il dio di Olimpia (L.A. 1984)


«Quello che più mi piace di lui è che quando, come tutti, si concede qualche pausa, basta prenderlo per un braccio e dirgli: “Michael, non stai giocando come potresti”, perché lui ti guardi come a dire “lo so” e si rimetta a giocare con più impegno. Mettendo assieme la sua competitività con i mezzi fisici e tecnici che ha, si può capire perché l’ho subito considerato il miglior giocatore che abbia mai visto.» 
– Bobby Knight

«Non c’erano i russi? E allora? Se anche fossero venuti, gli avremmo dato venti punti.» 
– Michael Jordan

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

Quante ne abbiamo sentite ai tempi della rinuncia dei paesi del blocco comunista a partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984. Era la “risposta” al boicottaggio americano di Mosca '80, la ripicca della ancora dominante potenza sovietica, lo spauracchio URSS che la maccartista propaganda USA, negli anni Cinquanta - quelli della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro - dipingeva come mostro “divoratore di bambini”. E non solo quelli cattivi, come fa ogni orco che si rispetti, no: i russi li “mangiavano” proprio tutti, i pargoli. 

Quattro anni prima, a Mosca, nel 1980, c’erano stati i primi Giochi di sempre ospitati da un Paese comunista e gli Stati Uniti dell’allora Presidente Jimmy Carter , per ritorsione contro l’invasione dell’Afghanistan operata dalle truppe sovietiche, avevano disertato la manifestazione a Cinque Cerchi come singolare corollario al teorema del mancato accordo SALT-2 sulla limitazione degli armamenti strategici da imporre alle due superpotenze mondiali.

In vista dei Giochi del 1984, però, lo scenario internazionale, dopo quattro anni, risulta naturalmente cambiato: non ci sono più né Carter (battuto dal repubblicano Ronald Reagan nel novembre 1980) né Breznev (cui succedono l’effimero interregno di Yuri Andropov e il “vecchio che avanza”, il fedele ex luogotenente brezneviano Konstantin Cernenko), ma gli attriti tra i due padroni del mondo sembrano, se possibile, addirittura accentuarsi anziché ammorbidirsi. 

E se per Mosca ’80, Carter (o chi per lui) si era mosso in anticipo dichiarando sette mesi prima dell’inizio dei Giochi che gli USA, tirandosi dietro una sessantina di nazioni (fra le quali Germania Ovest, Cina e Giappone), non vi avrebbero partecipato, risparmiando almeno agli atleti l’inutile fatica di allenarsi per un appuntamento cui non avrebbero preso parte, per Los Angeles ’84, invece, Cernenko (o chi per lui) aspetta l’ultimo momento (due mesi prima del 2 giugno, limite ultimo per rispondere al rituale invito del comitato organizzatore) per decidere di non inviare i propri atleti all’appuntamento olimpico. Vi risparmiamo le burocratiche “motivazioni ufficiali” partorite dall’apparato politico sovietico, limitandoci a ribadire la sostanza: in pratica tutte le nazioni appartenenti al blocco comunista (fatta polemica eccezione per la Romania del dittatore Ceausescu, che, però, cestisticamente parlando, era ed è un Paese che conta come il due di coppe quando comanda bastoni) seguono la Grande Madre Russia nell'epocale decisione di non partecipare ai primi Giochi veramente commerciali della Storia. 


Agli ordini, Generale

Per quello che dopo un’edizione d’assenza sarebbe stato il rientro nelle competizioni a Cinque Cerchi della pallacanestro a stelle e strisce, l’allora ABAUSA (oggi USA Basketball), l’ente che all’epoca governa gli eventi agonistici dilettantistici, decide di fare le cose “all’americana”, vale a dire in grande. Assegnata la panca olimpica al coach della Indiana University, il burbero Robert Montgomery (per tutti “Bobby”) Knight , la Federazione USA aveva istituito i classici (per tutto lo sport statunitense) tryouts per scegliere gli elementi da mandare a Los Angeles. Ogni minimo dettaglio viene curato nella maniera più scrupolosa, anche perché non vincere l’oro, per di più in casa, per gli Stati Uniti sarebbe stata, oltre che una semplice sconfitta sportiva, anche una specie di fallimento politico. Non c’erano i Paesi comunisti, è vero, ma questa squadra non “può” e non “deve” perdere. In ogni caso.

Per evidente comodità di Knight (a Bloomington ha sede il campus di IU), le selezioni per determinare i dodici dei 72 (!) convocati che sarebbero andati a Los Angeles avvengono all’Assembly Hall, l’impianto casalingo degli Hoosiers. L’elenco dei giocatori che in aprile si ritrovano nell’Indiana è il frutto di un anno di elucubrazioni cestistiche di Knight e dei suoi assistenti, che per tutta la stagione avevano setacciato, osservato e scrutinato la crema del basket universitario. 

Il processo di scrematura è durissimo, com’è tradizione di ogni tryout USA, tanto feroce quanto “crudelmente giusto”: “giusto” perché permette sì di mandare alle manifestazioni il meglio del meglio fra gli atleti del panorama nazionale, quelli che “sul campo” hanno dimostrato di essere i migliori e lo hanno fatto in base ai test dell’immediata vigilia delle competizioni ufficiali per le quali si preparano, non sulla base di presunti “meriti” da vantare in conseguenza di precedenti traguardi raggiunti; ma anche “crudele” perché esso può precludere la partecipazione ai grandi eventi a chi, soprattutto nell’atletica o in altre discipline troppo diverse, in questo senso, da uno sport di squadra come il basket, magari si è programmato per arrivare in forma ai grandi appuntamenti e non… ai tryout stessi, che, invece, dovrebbero servire a deciderne l’ammissione. Ma il sistema, in primis per il suo pragmatismo, è intrinsecamente “americano” e, come tale, non soltanto feroce ma unanimemente accettato.

Tornando ai tryout in questione, quelli del coach di Indiana, gli allenamenti furono di un’intensità spaventosa, sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico. Knight, noto in tutto il mondo (non solo del basket) per le sue intemperanze caratteriali , e per aver sempre “maltrattato” i suoi ragazzi - ai quali lo lega però un rapporto di lealtà reciproca straordinario -, non ha mai guardato in faccia nessuno. Lui ha una sola parola d’ordine per i propri giocatori: «ubbidienza». 

Devono fare quel che dice lui senza discutere, e basta. Altrimenti, sostiene Il Generale, in una squadra subentra il caos. Tipo che non va molto per il sottile, Il Sergentaccio, come viene anche chiamato dai suoi (non pochi, anche in patria) detrattori, Knight è stato spesso (a ragione) aspramente criticato per i suoi modi durissimi, gli stessi che, con buona probabilità, devono aver cozzato a tal punto con il “campionissimo” Larry Bird da far sì che questi lasciasse il campus di Bloomington dopo appena 24 giorni di permanenza . Il “sistema”-Knight, invece, non deve aver fatto più di tanto effetto su Michael Jordan, che una certa ammirazione per chi detenga e sappia esercitare una qualsiasi forma di autorità l’ha sempre provata. Una piccola riprova? Nella conferenza stampa di presentazione della squadra olimpica, la giovane stella, riferendosi al tecnico che, non a caso, prima di quella di Indiana, si è seduto per sei stagioni sulla panchina di West Point, la notissima Accademia dell’Esercito, dichiara: «Lui vuole il meglio per i suoi giocatori ed è molto simile in tutto e per tutto a Dean Smith, tranne che per il linguaggio, ma è una differenza che posso accettare». 

La dichiarazione di Michael (a questo proposito, pare che Smith, in tutta la sua lunghissima carriera, non abbia mai profferito parolaccia e la cosa ha in sé i crismi del miracolo), sicuramente spiritosa, suscita l’ilarità generale (con la “g” piccola) e del Generale, che scoppia a ridere per le parole di Jordan. Michael invece, nella stessa occasione, riesce miracolosamente a trattenersi dall’esplodere per le risate e si limita a sorridere. Il motivo per cui sarebbe dovuto deflagrare? Be’, un’occhiata a coach Knight, che gli sta di fianco, ogni tanto, dovrà pur avergliela data e c’è da chiedersi come abbia fatto MJ a rimanere impassibile alla vista di un simile “dipinto” qual era l’improbabile giacca a quadrettoni (in stile tovaglia da picnic, altra “divisa” ufficiale knightiana assieme all’inproponibile maglione rosso a girocollo) che indossa il santone di Bloomington. 

Giacca a parte, però, nominato capitano da Bob Knight, il ventunenne Jordan chiarisce subito che non avrebbe avuto problemi con il (eufemismo) focoso allenatore. Fin dall’avvio delle operazioni di composizione della squadra, l’head coach ed i suoi assistenti non avevano voluto lasciare nulla al caso per non correre rischi. 

Il solo pensare che nel 1983 Knight sia venuto fino a Bologna per visionare la nazionale Azzurra (Campione d’Europa quello stesso anno a Nantes, in Francia, con una squadra che forse è stata una delle più belle espressioni dell’intera storia del nostro basket), anch’essa ammessa al torneo di Los Angeles, può farci intuire almeno in parte il grado di perfezionismo (senza) quasi maniacale che caratterizza l’operato del coach. Ma questo è nulla in confronto a come vanno le cose in quelle sessioni di selezione prima e di preparazione alle gare olimpiche vere e proprie poi. 

Knight ha la possibilità, vincendo quella tanto agognata medaglia d’oro, di raggiungere Dean Smith (ancora lui!) e Pete Newell come unici allenatori al mondo ad aver vinto un torneo NIT a New York, un campionato nazionale NCAA e un titolo olimpico, quindi è perfettamente logico che voglia fare di tutto pur di non perdere questa chance. Newell, infatti, aveva vinto a Roma 1960, mentre Smith lo aveva fatto a Montreal 1976, nell’edizione dei Giochi che entusiasma a tal punto un tredicenne telespettatore del North Carolina, di nome Mike Jordan, da fargli esclamare di fronte alla madre: «Mamma, un giorno sarò campione olimpico!». 

Ora sarebbe potuto toccare a Knight, anche se c’è qualche piccola preoccupazione perché la sua “materia prima”, non sembra nemmeno lontanamente paragonabile con quella di cui avevano potuto disporre i suoi due illustri predecessori. Tanto per capirci, va subito chiarito che gli USA sono, ovviamente, i naturali favoriti, ma, alla vigilia dell’appuntamento olimpico, c’è davvero la sensazione che quella del 1984 non sia una formazione degna delle altre grandi compagini presentate dagli USA nelle edizioni passate. La squadra che scaturisce dai tryout, durante le cui sessioni lo staff tecnico di coach Knight esprime giudizi e valutazioni suddividendo i giocatori per ruolo (guardie, ali e centri) e… ponendo Jordan in una categoria a sé stante (non stiamo scherzando) a causa di quella che, parafrasando un’espressione pugilistica, si potrebbe definire «manifesta superiorità», non pare suscitare particolari entusiasmi. 

Quinn Buckner, uno degli unici cinque cestisti della storia ad aver realizzato il cosiddetto “Trittico d’oro”, ovvero vincere il campionato NCAA, le Olimpiadi e il campionato NBA, prima che i Giochi incomincino, dichiara espressamente che «l’attuale squadra olimpica americana non è all’altezza delle precedenti». Beninteso, il basket degli States resta, di gran lunga e senza paragoni, il migliore del mondo. Certo, Buckner ci era andato giù pesante, ma non era il solo a nutrire dei dubbi: alla vigilia di Los Angeles ’84 sono in parecchi a pensare che la “under 23” (ma l’età media di appena 22.1 anni farebbe pensare quasi più ad una “under 22”) selezionata da Knight non sia esattamente irresistibile. 

La formazione che esce dal duro setaccio imposto dal ferreo coach della Indiana University allinea alcuni giocatori che non hanno ancora finito l’università come il pivot Patrick Ewing di Georgetown, lo swingman Chris Mullin di St. John’s, l’ala Wayman Tisdale della Oklahoma University; altri che l’hanno appena terminata come i vari Sam Perkins (l’ala-pivot compagno di MJ) a North Carolina, la guardia Leon Wood di Fullerton, l’ala Jeff Turner di Vanderbilt, incredibilmente preferito all'ala Charles Barkley, esplosivo a rimbalzo, della Auburn University, perché Knight vuole un tiratore dalla distanza, pure di 2.08 m (il che non guasta, anche se c’è il sospetto che a favore di Turner abbia giocato la maggiore “docilità” caratteriale più che tattica); e… Michael Jordan (anche lui, come Mullin, ai tempi dato dalle media-guides come swingman per via del ruolo ancora da decidere fra guardia e ala piccola), che, come sappiamo, non ha completato gli studi universitari per passare professionista con un anno di anticipo. 

Come si vede, il lotto (comprendente anche Steve Alford di Indiana, l’unico, quindi, a conoscere già molto bene i metodi di Knight; i due di Arkansas, il pivot Joe Kleine e la guardia, grandissimo difensore, Alvin Robertson; Jon Koncak, il centro di Southern Methodist University; e la guardia Vern Fleming di Georgia) sarebbe bastato per avere i favori del pronostico, ma forse non per dominare la scena, come invece sarebbe avvenuto. In effetti, pur essendo i favoriti, gli americani rappresentano l’unica vera “novità” del torneo. Nel senso che presentano giocatori nuovi, mai affacciatisi alla ribalta internazionale, tanto meno a quella olimpica. 

Le altre squadre invece sono più o meno le stesse di quegli anni, che poi si trattasse di Olimpiadi, di Europei o di Mondiali, poco sarebbe cambiato: ci sarebbero stati i soliti duelli Dubuisson-Blab a simboleggiare Francia-Germania, o Walter Bonamico-Drazen Dalipagic per Italia-Jugoslavia; poi, sempre fra gli Azzurri, gli eterni Pierluigi Marzorati e Dino Meneghin (i due “mostri sacri” erano alla loro quarta olimpiade!); lo spagnolo Fernando Martín, eccetera.

Prima del training camp, nelle ultime settimane precedenti all’inizio dei Giochi Knight arriva addirittura ad imporre tre allenamenti al giorno, e sono in molti a chiedersi se la spiccata inclinazione di Michael all’improvvisazione si sarebbe scontrata con il disciplinatissimo gioco controllato (e proprio in questo, nell’esasperata mania di congelare il gioco, e non certo negli aspetti caratteriali, vediamo gli unici possibili punti di contatto fra Il Generale e Smith) propugnato dal tecnico di Indiana. 

Timori non infondati perché già dai primi allenamenti si vede subito che Jordan spesso prova, riuscendoci, a superare i difensori avversari semplicemente librandosi in aria per poi decidere, naturalmente mentre se ne sta ancora lassù a fluttuare, che cosa avrebbe fatto di lì a qualche centesimo di secondo dopo. Inizialmente Knight ferma il gioco per spiegare a Michael perché secondo lui questo è sbagliato, ma una volta che si rende conto che Jordan è capace di stare sospeso in aria più a lungo di chiunque altro, il tecnico degli Hoosiers capisce, pur non essendo stato un gran giocatore , che, a quel ragazzo, è proprio il caso di concedere delle licenze. In fondo, se a Indianapolis un’Olimpica fatta di ragazzini di ventidue anni è capace di togliersi la (molto) concreta soddisfazione di richiamare 67.596 paganti, il merito è principalmente delle sue evoluzioni aeree. 

Per rifinire la preparazione, i dodici prescelti giocano alcune amichevoli organizzate dal coach contro selezioni di All-Star NBA e altri professionisti della Lega: a Portland, Oregon, contro una mista di free-agents e di matricole della franchigia locale; a Greensboro, North Carolina, contro una formazione che raccoglie ex studenti di North Carolina (tra i quali “nomi” come James Worthy, Bobby Jones dei Philadelphia 76ers, Phil Ford e l’ex idolo giovanile di Jordan, Walter Davis) e star assolute della NBA come Isiah Thomas, e che pure vede vincere la selezione olimpica per 96-85. 

Ma ormai il tempo degli allenamenti è finito. La copertina di Sports Illustrated del 22 luglio 1984 annuncia che il grande appuntamento è vicino e la foto non lascia dubbi su quale fosse l’atteso protagonista: sotto il titolo, «Up, up for L.A.», campeggia un Michael Jordan volante in entrata a canestro, con indosso la maglia della nazionale e un inconsueto numero “9”. Perché proprio il “9”, visto che ai Panamericani dell’anno prima aveva portato il “5”? 

La spiegazione più plausibile, usata anche dallo stesso Jordan per spiegare la scelta del numero che avrebbe portato a Barcellona 1992, è che il nove è dato dalla somma di 4+5, ovvero le cifre che compongono il numero 45 che il giovane Mike aveva indossato nel suo primo anno di liceo per emulare il fratello che giocava nella varsity. Ma un’interpretazione che risale agli antichi, tanto suggestiva quanto, forse, meno probabile, vuole che fosse stata una telefonata di mamma Deloris a fargli cambiare idea dicendogli che il nove è il risultato di tre per tre, e il tre è il numero della perfezione (?) assoluta. Sistemata la questione del numero, tutto è a posto. Che la festa incominci, allora.

Gli Stati Uniti sono inseriti nel Gruppo B, quello che comprende Cina (97-49), Canada (89-68), Uruguay (104-68), Francia (120-62) e Spagna (101-68) affrontate, e naturalmente battute, col risultato finale fra parentesi che parla da sé, nell’ordine riportato. La prima fase si chiude con gli USA qualificati a punteggio pieno per i Quarti assieme a Spagna, Canada ed Uruguay. La singolare formula scelta dagli organizzatori è stata capace di far giocare ben cinque partite per ogni formazione col solo scopo di eliminarne appena due (Cina e Francia, nel Gruppo B). Misteri (mica tanto) oscuri del CIO: la ragione, come sempre, è di cassetta.

Saltiamo all’ultimo atto, quello della finale, perché un dominio così netto può risultare noioso. Ad attendere Michael e compagni, ci sono gli spagnoli, già affrontati nel girone della prima fase. 

Alla vigilia, due gli episodi curiosi. Il primo riguarda il presunto discorso prepartita che coach Bob Knight si è ripromesso di fare ai suoi ragazzi. Scriviamo «presunto» perché quel discorso, Knight, non lo farà mai. Spieghiamo. Prima di quell’edizione del torneo olimpico di basket iniziasse il torneo olimpico, in tutta la storia del movimento riesumato dal barone Pierre De Coubertain, le squadre di pallacanestro degli Stati Uniti avevano vinto 69 delle 70 partite disputate. 

E anche l’unica persa, la famigerata finale di Monaco ’72 contro l’URSS, l’avevano vinta ma gliela avevano fatta perdere nel modo a tutti noto e che è passato (tristemente) alla storia del basket mondiale. Ebbene, Coach Knight non vuole certo essere il nuovo Henry Iba , il tecnico sconfitto in quell’occasione, e pensa bene di caricare le sue truppe ricordando loro, se mai ce ne sia bisogno in quell’edizione casalinga dei Giochi così intrisa di retorico orgoglio nazionalistico e di falso patriottismo da cortile, il grave torto subito dodici anni prima, e mai dimenticato. 

Knight però non ha modo di recitare quelle parole con le quali aveva aperto il torneo e con le quali avrebbe voluto chiuderlo: «Ricordatevi di Monaco ’72». La frase stessa gli morì in gola, quando, entrato negli spogliatoi, vide la lavagna recante una scritta quanto mai esplicativa: «Coach, con tutta la m. che ci ha fatto mangiare, è impossibile che perdiamo questa partita!». Knight, che se un “numero” del genere glielo avessero fatto i suoi Hoosiers sarebbe finito in galera per strage, sorride e recita, al posto della frasetta che si era preparato, un impagabile «Andiamo!» (che la dice lunga sulla sua fiducia nell’introduzione dei luminari della psicologia dello sport nell’ambiente della palla a spicchi). 

Il Coach, oggi in verità un po’ in ribasso, sarà pure vulcanico, ma conosce profondamente il basket e le inafferrabili leggi che lo governano, e capisce subito che il gruppo non necessita di ulteriori, diciamo così, “sollecitazioni”. E, forse, Knight, da quella riga, scritta dal leader del gruppo, aveva anche compreso che i giocatori (tranne forse il "suo" Alford, che magari ci era abituato) non avevano particolarmente gradito certi suoi “sistemi”. «Bobby Knight vuole emergere solo lui. Amo alla follia Dean Smith», è il messaggio di addio di Jordan.

L’episodio che dà l’unica preoccupazione allo staff tecnico (composto, oltre che da Knight, dagli assistenti Don Donoher e George Raveling) è invece la dimenticanza che porta Jordan a presentarsi al Fabulous Forum di Los Angeles, l’impianto dove si gioca la finale, senza la divisa da gioco giusta. Mentre i compagni si apprestano a indossare pantaloncini e canotta blu, lui tira fuori dalla borsa la divisa bianca. Panico. Tra lo sconcerto generale che può prendere in simili momenti in cui c’è tutt’altro a cui pensare, a qualcuno si accende la lampadina: viene chiamata una volante della polizia che consentirà ad un incaricato di recarsi in fretta e furia al Villaggio Olimpico per cercare di recuperare nella camera di Jordan il completo giusto. Quello blu.

Sistemata la forma (la divisa da gioco), rimaneva la sostanza (il risultato). Ma quella non può spaventare i ragazzi di Knight che vincono facilmente (96-65) trascinati dallo smemorato Michael (capocannoniere della manifestazione) che per l’occasione infila il consueto ventello. 

Jordan chiude il torneo a 17.1 di media: non un’esagerazione, d’accordo, ma bisogna anche tenere conto del sistema di gioco molto “collettivo” di Knight, della pochezza degli avversari che non avevano mai obbligato gli USA a spingere troppo e, infine, della “profondità” del roster che aveva garantito ampi minutaggi a tutti. 

Lo stesso MJ, nell’ultimo incontro, dopo un buon 7/10 su azione in metà gara, viene richiamato in panca da Knight a 4’58” dal termine; tanto, sul 84-54, anche senza Michael in campo difficilmente gli spagnoli avrebbero rimontato quaranta (!) punti di scarto. 

Gli Stati Uniti avevano regalato alla Spagna un bel “cappotto” nuovo, così come avevano fatto, nonostante il caldo torrido, a tutte le altre sfidanti: gli americani, nelle otto gare che li avevano portati all’Oro, seppelliscono le avversarie sotto una montagna di 32 punti di scarto di media. Una superiorità a tratti perfino imbarazzante. Per quanto riguarda Jordan, invece, il suo tabellino complessivo consta di 137 punti in 8 gare, con 60/110 (54.5%) dal campo e 17/25 (68%) dalla lunetta, 24 rimbalzi, 16 assist, 7 stoppate e 12 recuperi. 

Giudicando a posteriori, l’Olimpiade del 1984, che infatti sarebbe passata alla storia come l’ultima con gli Stati Uniti dominatori con una “semplice” squadra di universitari, porta in sé le avvisaglie che il vento sta cambiando: il divario tra l’America non professionistica e il Resto del Mondo professionistico si sta riducendo, ma la sorprendente (agli occhi degli stessi osservatori americani) superiorità tecnica sciorinata dalla squadra di Knight avrebbe posposto (di quattro anni) ogni eventuale allarmismo iu-es-ei

L’eventuale presenza dei sovietici, che se fosse andata male avrebbero preso l’Argento, non avrebbe magari messo in dubbio la vittoria degli Usa, che restavano sempre e comunque la Mecca del basket, ma avrebbe condotto almeno ad uno scontro vero, dodici contro dodici! E se i primi avessero continuato a mandare in campo uomini fatti, navigati professionisti, e i secondi dei pur talentuosissimi giovincelli, prima o poi ci sarebbe forse scappata la sconfitta delle “stelle e strisce”… Prima che iniziasse il torneo di L.A., era stato lo stesso Raveling, uno degli assistenti di Knight, a fiutare il pericolo. Secondo lui, infatti, già nel 1988 a Seul, per gli Stati Uniti avrebbe potuto essere difficile spuntarla qualora ci fosse stato lo scontro diretto. Come sia andata a finire lo sappiamo, e chi non lo sa lo troverà più avanti. Per ora basterà anticipare che Raveling fu facile e lungimirante profeta. 

La conferenza stampa che manda tutti finalmente in vacanza è il teatro per l’ultima recita dello show...boy Michael Jordan, la stellina appena apparsa nel firmamento cestistico internazionale. Interrogato sul piccolo incidente della maglia lasciata in camera, Jordan, in sempre più crescente agio di fronte a taccuini, telecamere e microfoni, avrebbe provocato i Blue Devils, i poco amati “cugini” dei Tar Heels, dicendo che la seconda maglia della nazionale se l’era scordata perché era di un blu troppo simile a quello di Duke; se fosse stata di un bel blue-Carolina, non se la sarebbe certo scordata. 

Fra l’ilarità degli inviati, si assiste alla nascita di una stella, ma sono ancora in “pochi” a saperlo. Fra questi, di certo ci sono lo stesso Knight, che lo definisce «un giocatore di basket» (non sorprenda l’apparente banalità dell’affermazione, Knight vuole intendere che Jordan è il prototipo del giocatore di basket ideale, la sua definizione vivente); il coach della Spagna Antonio Diaz Miguel, che, per scherzare, aveva inutilmente chiesto all’amico Bob Knight di dargli Michael in cambio di tutta la squadra; e il giocatore iberico Fernando Martín, che sorprese a tal punto la stampa USA da far sì che, ancora oggi, ogni libro americano su Jordan riporti immancabilmente la descrizione che egli ne fece in un inglese che maccheronico: «Michael Jordan? Jump, jump, jump. Very quick. Very fast. Jump, jump, jump» ; ma se Fernando Martín l’incubo Jordan aveva dovuto viverlo solo due volte, una nel girone di qualificazione e una in finale, che cosa avrebbe dovuto dire allora il povero Vern Fleming, compagno di Michael in quella squadra e deputato a marcarlo in allenamento? 

Ancora oggi, Fleming non ha ancora dimenticato quelle giornatacce: “A quei tempi, lui semplicemente ti saltava addosso. Tu salivi per contrastargli il tiro, e forse c’era anche qualcun altro che andava su assieme a te, ma mentre tu iniziavi a ridiscendere, lui era ancora là che saliva. Ecco cosa mi colpì di Michael allora. Ma nessuno si aspettava che potesse diventare così forte come è diventato». 

Come in ogni buona storia americana, non manca l’inevitabile lieto fine. Mamma Deloris non dimenticherà mai il primo oro olimpico di Michael: «Quello fu un momento speciale per me perché è come se riuscissi a sentire lui bambino dirmi "un giorno sarò campione olimpico” e io rispondergli “ma certo…”. Vincere la medaglia d’oro è stato molto emozionante e ricorderò per sempre la sensazione unica che ho provato quando mi hanno messo la medaglia attorno al collo». Da bambino, Jordan aveva visto Quinn Buckner e Dean Smith vincere l’oro a Montreal 1976 e aveva sognato di emularli. Quel sogno, adesso, si era realizzato: anche lui aveva potuto infilarsi al collo la medaglia olimpica e prendere in mano la bandiera americana. O meglio, la piccola bandierina a stelle strisce, di quelle che si mettono sulle coppe di gelato, che in quelle vecchie immagini del 1984 gli si vede agitare con tanto entusiasmo; otto anni dopo, quella bandiera avrà altri significati. Molto diversi.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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