CAPITOLO 15 - Toro scalognato (1985-86)
«Io credo che sia Dio travestito da Michael Jordan. È il più grande giocatore della NBA. Oggi al Boston Garden, in diretta tv nazionale, nei playoff, ha messo in scena uno dei più grandi spettacoli di tutti i tempi. Non credevo che qualcuno potesse fare una cosa del genere contro i Boston Celtics»
– Larry Bird
«Quando gioco come quel giorno a Boston, non ce n’è davvero per nessuno. E una volta iniziata bene la partita, mi sono sentito come se niente avesse potuto fermarmi. Avrei potuto correre per giorni, e se fosse stato per me, forse staremmo ancora giocando…»
– Michael Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Il secondo campionato di Michael Jordan nella NBA sembrava destinato a grandi cose. Nella seconda metà della stagione ’84-85, il GM dei Bulls, Jerry Krause, aveva incominciato il difficile compito di assemblare una squadra che integrasse l’immenso talento della sua superstar. Il primo pezzo del puzzle, che andava composto, tecnicamente e caratterialmente, su misura per il giovane fenomeno, arrivò nel draft successivo all’anno da rookie di Jordan.
Per ottenerlo, però, ci volle una delle grandi manovre di quella vecchia volpe del secondo Jerry dei Bulls.
L’uomo di fiducia del primo Jerry (il gran capo Reinsdorf), da una vita scout e astuto valutatore, oltre che scopritore, di talenti, aveva individuato nel pressoché sconosciuto Charles Oakley, un’ala di 2.05 m molto “muscolare”, della piccola università di Virginia Union, il tipo di “protettore” fisico di cui aveva bisogno un finesse-player come Jordan. Purtroppo, perché avevano iniziato ad osservarlo in tanti, e per fortuna, perché se così non fosse stato si sarebbe trattato di un bidone, Oakley aveva giocato bene nei camp di postseason e Krause aveva incominciato a nutrire più di qualche dubbio che un potenziale crack da lottery di quel genere sarebbe stato ancora disponibile scegliendo nella posizione in cui i Bulls dovevano scegliere.
Titolari di una chiamata molto alta, la undicesima, i Tori, che già temevano di perdere il loro soggetto del desiderio, iniziarono a preoccuparsi sul serio. Specialmente Krause, che non dormiva più da quando aveva incominciato a sospettare che anche i Phoenix Suns di Jerry Colangelo, che avrebbero scelto col numero 10, avevano messo gli occhi sul futuro “The Oak”.
Per non farsi soffiare La Quercia, serviva un colpo da… Krause, e non tardò ad arrivare. Alle tre del mattino dello stesso giorno del draft, Krause intavolò un accordo con Cleveland, che deteneva la chiamata numero 9, così fatto: i Cavaliers avrebbero scelto Oakley per lui e lui in cambio avrebbe scelto Keith Lee, una magrissima ala-centro ma di grandi capacità realizzative, per i Cavs; poi Chicago e Cleveland, come è prassi comune, si sarebbero scambiate i giocatori e, in aggiunta, come parte della trattativa, la guardia Ennis Whatley sarebbe andata a Cleveland e Chicago avrebbe ottenuto anche una seconda scelta.
Siccome però il termine ultimo di chiusura delle cessioni predraft era già scaduto, l’accordo non poté essere annunciato fino al completamento del primo giro di scelte.
Il giorno del “sorteggio” tutto andò secondo i piani di Krause, ma per tutta risposta i tifosi dei Bulls si erano ritrovati a scuotere la testa in preda allo smarrimento. Prima avevano riempito di «boo» di disapprovazione il loro GM per aver scelto Lee, che non sembrava il rinforzo adatto per quei Bulls alla disperata ricerca di chili e muscoli da piazzare sotto i tabelloni; poi, gli stessi fan di Chicago, evidentemente un po’ a corto di fantasia nel contestare, erano tornati a riempirlo di «boo» perché Krause lo aveva scambiato con quel tale Oakley di cui non avevano mai sentito parlare.
Ma, come la gran parte delle mosse di mercato che “Mr. Crumbs” avrebbe fatto nel corso degli anni, sarebbe stato lui a ridere per ultimo visto che lo stesso Oakley avrebbe poi avuto una stellare carriera NBA. Prima Charles giocò bene negli anni in cui i Bulls stavano per salire alla ribalta, poi fu ceduto ai New York Knicks nella trattativa che portò a Chicago Bill Cartwright, il centro delle prime tre squadre dei Bulls campioni. Comunque la si giri, un colpo da maestro.
Quindi, in un’altra mossa delle sue, Krause prelevò la guardia John Paxson da San Antonio perché gli Spurs dovevano ancora a Chicago del contante dalla precedente cessione di Artis Gilmore. Il furbo GM acconsentì di cancellare il debito in cambio di Paxson, una guardia “operaia” il cui unico attributo – hai detto niente – era la capacità di saper infilare inesorabilmente i classici spot up jumpers , una caratteristica che sarebbe diventata molto utile giocando accanto a una star quale Jordan, che attirava costantemente un raddoppio della marcatura. Raddoppi che il buon “Pax” avrebbe fatto pagare cari alle squadre avversarie.
I Bulls fecero anche altri movimenti di secondo piano acquisendo Gene Banks e George Gervin da San Antonio e firmando Kyle Macy come free agent. Con Jordan e Woolridge destinati a ripetere la grande annata precedente, aleggiava a Chicago un diffuso ottimismo mentre la stagione stava per incominciare.
A gambe all’Air
Ottimismo che crebbe subito con le vittorie di Chicago nelle prime due gare di regular season, ma nella terza partita, vittoria per 111-105 in trasferta contro i Golden State Warriors, accadde il disastro: il 29 ottobre 1985, Jordan riportò la frattura all’osso navicolare del piede sinistro. Senza Jordan la squadra andò allo sbando. Coach Albeck tentò di metterci una pezza e sopperire così alla clamorose lacune offensive, inserendo nel ruolo di Michael l’ormai declinante ex stella George Gervin, che in passato aveva vinto tre titoli di capocannoniere della NBA, ma il grande “Iceman” non era più lui. Ormai prossimo alla fine della carriera, le doti di Gervin erano irrimediabilmente intaccate dal tempo e dai passati problemi di droga. Nel frattempo, tanto per rimanere in tema, Quintin Dailey per due volte aveva dovuto lasciare la squadra per entrare in una struttura di recupero per tossicodipendenti. I Bulls stavano rapidamente precipitando verso il fondo della classifica.
L’infortunio che gli aveva minacciato la carriera era stato il primo vero, serio stop che Jordan avesse mai riportato. Sembrava una cosa di poco conto e l’iniziale prognosi di un mese di recupero ci poteva anche stare. Invece i mesi passarono uno dopo l’altro, da settembre si era arrivati a febbraio e la frustrazione di Jordan era ormai insostenibile. Le cose non erano andate come previsto ed è il protagonista stesso a raccontarle.
«I primi raggi-X non avevano mostrato niente», ricorda Jordan nel 1998 a proposito di quell’infortunio avvenuto 13 anni prima. «Continuavo a curarmi e a tentare di giocare, ma riuscivo a malapena a camminare. Una CAT scan, che mostrò l’osso nelle lastre, finalmente rivelò la frattura. Non riuscivo a crederci. Andai a casa e piansi per giorni. Ero così depresso che mio padre venne dal North Carolina perché era preoccupato per me. Dopo sette settimane, mi fu detto che la frattura non si era saldata abbastanza. Mi demoralizzai del tutto un’altra volta perché avevo sperato di rientrare per la pausa dell’All-Star Game. Tuttavia convinsi il dottore ad applicarmi una stecca rimovibile invece di un’altra ingessatura. Era tutto ciò di cui avevo bisogno. Ritornai in North Carolina e incominciai ad accelerare il processo di riabilitazione. I Bulls mi avevano fatto visitare da due specialisti ortopedici in aggiunta a John Hefferon, il chirurgo ortopedico della squadra. Il 12 febbraio fui di ritorno a Chicago per una visita di controllo, ma Reinsdorf e Krause non volevano ancora che giocassi. Avemmo un incontro a tarda sera con tutti i dottori su uno speaker-phone. Nessuno di loro voleva essere il primo a dire che sarebbe stato sicuro, per me, ritornare a giocare. Allora me ne tornai in North Carolina e incominciai a giocare comunque. Tirai a canestro per qualche giorno, giocai qualche brillante uno-contro-uno, poi due contro uno, poi partite a tutto campo. In un periodo di quattro settimane mi riportai in forma e nessuno ne seppe nulla. Quando tornai la seconda volta, i medici non riuscivano a credere ai risultati del test sulla forza. La mia gamba sinistra in effetti era più forte della destra. Così ci incontrammo di nuovo. Stesso ufficio. Reinsdorf, Krause ed io ci sedemmo attorno a un tavolo. Prima ancora che qualcuno potesse dire una parola, io dissi: “Non voglio che ci sia alcun equivoco”. Cercai nella mia ventiquattrore, tirai fuori un registratore e lo sistemai in mezzo al tavolo. Ancora una volta i medici si tirarono indietro. Il dottor Stan James ci disse che c’era il 10 percento di probabilità che potessi fratturarmi l’osso un’altra volta. Quello era tutto ciò che Reinsdorf e Krause volevano sentire. La squadra era pessima e loro stavano pensando alla pick della lottery. Stettero molto attenti a non dire quelle precise parole [si ricordi la presenza del registratore, N.d.A.], ma era come se le avessero scritte sui muri. Quello fu il momento in cui incominciò la discussione. Krause disse: “Noi non correremo il rischio. Tu che ne pensi?” Io risposi: “il mio pensiero è che c’è un 90 percento di possibilità che [l’osso] non mi si fratturi di nuovo”. Ma io sapevo che quella gente aveva ben altri programmi e glielo sputai fuori proprio davanti alla faccia. “Voi state cercando di perdere più partite possibili per poter scegliere con una chiamata migliore al draft”. La cosa fece saltare i nervi a Krause. Quella deve essere stata proprio la volta in cui vennero scoperte le pillole di Tylenol ricoperte di cianuro. Reinsdorf mi descrisse questo scenario: “Che ne diresti se ti dessi 10 pasticche in una boccetta e una di esse fosse ricoperta di cianuro? Ci metteresti la mano correndo il rischio di prendere quella sbagliata?” Io ci pensai su un momento e gli dissi: “Lo sai anche tu, Jerry, che questo è un paragone del cavolo. Ma la mia risposta è questa: dipende da quanto è forte il mal di testa”. Reinsdorf voleva una garanzia del 100 percento, ma io non avrei potuto garantire il 100 percento di possibilità di non infortunarmi neanche quando mi fratturai l’osso la prima volta. Inoltre, se si fosse rotto di nuovo avrei avuto parecchio tempo prima del training camp per l’intervento chirurgico. Se non avessi testato il piede allora e questo si fosse rotto più avanti, poi avrei perso un’altra stagione. Ma ero completamente solo in questa battaglia, anche Falk era dalla loro parte. Erano tutti preoccupati per la Gallina dalle uova d’oro mentre io in quel momento mi stavo preoccupando per la mia vita. Entro la fine della serata, Reinsdorf e Krause acconsentirono di lasciarmi allenare a pieno regime, ma limitarono il mio tempo di gioco a soli sette minuti per tempo. Potevo allenarmi due ore al giorno, ma non potevo giocare più di sette minuti? Questi erano gli stessi tipi che mi avevano definito il più grande practice player che avessero mai visto. Reinsdorf e Krause escogitarono questo sistema ridicolo che incrementava il mio tempo di un minuto per tempo ogni partita. Sarebbe stato imbarazzante più per l’intera lega che per la squadra. Una sera stavamo giocando in trasferta con Indiana e avevamo la palla a 31 secondi dal termine. Stavamo perdendo di un punto. La sera prima Reinsdorf aveva chiamato l’allenatore Stan Albeck e gli aveva fatto capire che, se io avessi giocato un minuto di più, lui lo avrebbe licenziato. Ora, i “miei” minuti erano passati. Se fossero trascorsi i due secondi che c’erano sul cronometro, allora il mio tempo di gioco avrebbe raggiunto un altro minuto. Stan mi tirò fuori dall’incontro. I tifosi impazzirono, urlarono contro Stan, lo insultarono. Io ero in fondo alla panchina, furibondo. John Paxson alla fine segnò il tiro vincente sulla sirena. Ma fu proprio lì che seppi tutto quello che mi serviva sapere di Reinsdorf e di Krause».
Quello che a Michael serviva sapere del suo presidente e del suo general manager è fin troppo chiaro, ed è la stessa eterna differenza che c’è tra chi “gioca” e chi “fa giocare”: the love of the game, si dice così, no? «Quello che accadde tra Jerry Krause, Jerry Reinsdorf e me durante la stagione 1985-86 – continua un amareggiatissimo Michael – fu un qualcosa che non sono mai riuscito a superare. Ora guardo a quella situazione come a un test, forse il più grosso test della mia carriera professionistica. Quella vicenda mi diede una visione molto chiara di Krause e Reinsdorf: loro erano uomini d’affari, non uomini di sport. E non provavano un amore vero per questo gioco. Loro prendevano le loro decisioni d’affari, solo che era il basket ad essere l’affare».
Jordan aveva saltato 64 partite, praticamente l’intera stagione regolare, ed era stato pure ampiamente criticato per aver abbandonato la squadra. Neanche fosse andato a spasso, invece di passare ore in piscina – lui che odia l’acqua! – cercando di recuperare il prima possibile. In seguito a quella frattura da stress, Michael aveva infatti deciso di lasciare Chicago e di far ritorno a casa, nel North Carolina, per stare a riposo e poi completare la riabilitazione al piede. Nella palestra di Chapel Hill, davanti allo striscione che con un solenne “Carolina Pride” gli ricordava in ogni istante l’orgoglio della sua terra, Jordan incominciò il processo di rieducazione votandosi con dedizione assoluta al severissimo regime di allenamento che il suo staff sanitario aveva instaurato per assicurargli un pieno recupero. Tra sedute in acqua e fisioterapia, il suo piede continuava a rinforzarsi. Michael stava per rientrare: «Una volta recuperata la mia sicurezza e sentito che il piede stava ritrovando la sua forza originaria giocando, non c’era nulla al mondo che potesse più fermarmi». Ma se ormai i dolori fisici erano alle spalle, adesso incominciava un’altra sofferenza, quella del rientro.
Il 10 marzo, con i Bulls fermi all’orribile record di 22-43, Jordan informò il management che era pronto per giocare di nuovo, nonostante il fatto che i dottori gli avessero detto che, rientrando allora, c’erano dal 10 al 15 percento di possibilità di riportare un nuovo infortunio che avrebbe potuto interrompergli la carriera. Jordan, dopo quell’incidente, prese un’abitudine che non avrebbe più abbandonato: incominciò a proteggere le sue preziosissime “molle” immobilizzandole dentro un paio di rigide Nike nuove di zecca messegli a disposizione prima di ogni partita dal suo sponsor tecnico.
Lo squallido teatrino che da lì a breve si sarebbe inscenato avrebbe dato vita a una delle più bizzarre, per non dire ridicole, situazioni nella storia dello sport. Non solo americano. Jordan, che si era ripromesso di portare i Bulls nella postseason tutti gli anni della sua permanenza a Chicago, voleva giocare per aiutare la sua squadra a qualificarsi per i playoff, contando sul fatto di avere almeno l’85 percento di possibilità che fisicamente sarebbe stato bene. Reinsdorf e Krause, non volendo correre nessun rischio di perdere il loro giocatore-franchigia, e per l’altro motivo “intuito” da Jordan, fecero tutto ciò che poterono per fargli cambiare idea, ma lui non ne volle sapere. Nel mezzo, tra l’incudine della proprietà e il martello dei risultati che sarebbero venuti solo con il fenomeno in campo, stava Albeck. Il tecnico era ben consapevole che, con Jordan in quintetto, avrebbe potuto vincere più partite e mantenere il suo posto di lavoro, ma era altrettanto conscio che la musica, fuori dal campo, la dirigevano i due Jerry e quindi la “sopravvivenza” della sua panca dipendeva da loro.
Jordan ebbe 22.7 punti, 3.6 rimbalzi e 2.9 assist di media nelle 18 partite di regular season (3 prima e 15 dopo l’infortunio) giocate. Aveva ancora una volta guidato la sua squadra nei punti, anche se Woolridge, stabilizzatosi sui 20.7 ppg, era stato il migliore di quelli che avevano giocato per tutta la stagione. Oakley invece aveva guidato i Bulls a rimbalzo con 8.6 rpg e, almeno quello, sarebbe stato un buon segno per il futuro.
Con Michael in squadra, seppure a ridottissimo servizio, nelle ultime 15 partite di stagione regolare, i Bulls avevano marciato con un mediocre 6-9 e si erano qualificati, per il rotto della cuffia di un inguardabile record complessivo di 30-52, per i playoff. Con Jordan i Bulls erano andati sul 9-9; senza di lui, sul 21-43: qualcosa, o meglio, Qualcuno doveva essere mancato.
Dica 63!
Quei Bulls non potevano oggettivamente competere con i Boston Celtics futuri campioni NBA per la sedicesima volta, perdendo in tre partite secche al primo turno. Ma prima di uscire al first round di quei playoff che con tanti sforzi aveva inseguito, Jordan lasciò un paio di biglietti da visita dei suoi. In Gara 1, giocata il 17 aprile 1986, fece 49 punti nell’incontro perso 123-104; in Gara 2, nel pomeriggio del 20 aprile, un Michael ispirato come non mai segnò i famosissimi 63 punti in quella sconfitta, avvenuta dopo due tempi supplementari di una partita indimenticabile, per 135-131. Jordan era tornato. Davanti ad un’audience televisiva nazionale e sul sacro parquet del Boston Garden, non solo aveva stabilito un primato per punti segnati in una gara di playoff NBA – record che dura ancora oggi – segnando 63 punti, cancellando così il precedente massimo di 61 detenuto dal grandissimo Elgin Baylor, ma aveva compiuto una prestrazione-monstre difficilmente quantificabile con le fredde cifre, seppure molto significative. Nei 53 minuti giocati Jordan fece 22/41 dal campo, 19/21 dalla linea, con 5 rimbalzi, 6 assist, 3 recuperi e 2 stoppate. E tutto questo contro i futuri campioni del mondo, quei Boston Celtics edizione 1985-86 che vantano serissime credenziali per ambire al platonico titolo di più forte squadra di sempre. Dopo quanto visto quella sera al Garden, nessuno riusciva più a credere ai propri occhi. L’allora allenatore dei Celtics K.C. Jones ricorda un dettaglio significativo di quella serata incredibile: «Normalmente i miei giocatori in panchina stanno chinati in avanti e cercano di incrociare il mio sguardo per farmi capire che sono pronti ad entrare in campo. Ma in questa partita, dopo aver cambiato senza risultato cinque difensori su di lui, stavano tutti seduti piegati all’indietro guardando in tutt’altra direzione». Come dar loro torto?
«Michael stava facendo così tanto e così bene, che mi sono scoperto a volermi fermare per starlo a guardare, e io stavo giocando!», dichiarò ovviamente estasiata la guardia dei Bulls John Paxson. E la star dei Celtics Larry Bird semplicemente scosse la testa sbalordito. «Io credo che sia Dio travestito da Michael Jordan.» avrebbe commentato Bird. «È il più straordinario giocatore della NBA. Oggi, al Boston Garden, in diretta tv nazionale, nei playoff, ha messo in scena uno dei più grandi spettacoli di tutti i tempi. Non credevo che qualcuno potesse fare una cosa del genere contro i Boston Celtics».
Un’uscita del genere, e per di più fatta da quello che, assieme a Magic Johnson, era il miglior giocatore di tutta la NBA e già uno dei grandissimi di tutti i tempi, non poteva lasciare indifferente Michael, che vedeva in quei due una specie di Olimpo cestistico da raggiungere.
«Ricordo di aver letto ciò che Larry disse della partita» disse MJ ritornando col pensiero a quella sua incredibile prestazione. «Davvero non riuscivo a credere che avesse detto una cosa del genere. Quella frase proveniva da uno che era nella Lega da sette anni ed apparteneva ad una categoria nella quale io stavo cercando di entrare. A quel punto ho creduto di non aver mai giocato una gara migliore di quella, ma sapevo di avere ancora tanta strada da fare. I commenti di Larry Bird mi diedero credibilità. Fino a quel momento venivo visto ancora come una matricola vanitosa, non come un giocatore “vero”. Quando Bird ebbe quelle parole di riconoscimento per la mia prestazione, diventai un giocatore con la “g” maiuscola. Io non ero ancora arrivato al suo livello, ma adesso ero un giocatore che era stato etichettato come una stella, un potenziale Hall of Famer a seconda di come avrei preso quei commenti. All’epoca, non compresi appieno ciò che le sue dichiarazioni avrebbero significato per me. In altre parole, i suoi elogi non avrebbero cambiato il modo in cui io mi sarei comportato come giocatore. Io non mi vedevo alla stessa maniera in cui mi vedeva Larry. Se lo avessi fatto, forse non avrei ottenuto tutto quello che ho ottenuto in seguito. Presi quelle parole come un complimento e nient’altro. Lui mi aveva dato la conferma che ero sulla strada giusta, ma niente di quello che lui o chiunque altro potessero dire avrebbe modificato la mia strada. Fuori dal campo, Larry mi metteva soggezione per via di tutto ciò che rappresentava, tutto quello che aveva raggiunto, e il fatto che lui fosse semplicemente “Larry Legend”. Mi sentivo allo stesso modo al cospetto di tutte le star di quel periodo: Magic Johnson, Julius Erving, tutti loro. Non avevo paura di loro in campo perché credevo di avere le doti per competere con tutti. Ma la loro “presenza” fuori del campo mi intimidiva. Ripensandoci oggi, mi rendo conto di quanto avessi da imparare per arrivare al loro livello. Sono contento di non aver saputo allora quanto avessi da imparare. Se non fossi cresciuto col mio passo, non sarei stato in grado di definire i minuscoli dettagli che hanno caratterizzato la mia carriera. Ricordo ogni più piccolo passo, ogni minimo dettaglio. Ora, quando mi volgo indietro, vedo un solo grande quadro. Certi di questi ragazzi di oggi hanno solo un gran miscuglio di tinte senza alcun dettaglio. Le loro carriere sono solo una massa di colore senza nessuna nitidezza perché non hanno speso tempo a lavorare sui dettagli o non ne apprezzano o comprendono il processo di sviluppo».
Il quadro (tecnico) di Michael, invece, è sempre andato perfezionandosi, anno dopo anno.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan
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