CAPITOLO 20 - Il triangolo nì


«L’attacco a triangolo? Jordan ha talmente tanto talento che vincerebbe anche in un attacco a quadrato, a trapezio o a…» 
– David Falk

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Quando, nel 1987, il GM dei Bulls Jerry Krause, dopo aver inutilmente inseguito Jackson fin dai tempi in cui Phil era giocatore, riuscì a coronare il suo sogno di averlo sulla panca, seppure ancora soltanto come assistente, nello staff tecnico dei Bulls erano già a libro paga califfi come Fred “Tex” Winter per l’attacco e John Bach per la difesa (tra l’altro l’unico che sua maestà Jordan ascoltasse e che potesse fargli arrivare i “messaggi” che la proprietà intendeva mandargli). Head Coach era Doug Collins e il problema numero uno della triade di cervelloni era trovare un sistema che facesse in modo di valorizzare al massimo l’infinito talento di Jordan (reduce dall’incredibile media di 37.1 ppg nel campionato ’86-87) canalizzandolo però in una strategia di squadra che non mortificasse i compagni emarginandoli dalla manovra e che, soprattutto, li facesse vincere. 

In quel primo anno di Jackson a Chicago, si cercò di ovviare ai problemi trovando una soluzione suggestiva ma, francamente, troppo castrante: Collins spostò Jordan nello spot di point guard. Com’era prevedibile, i compagni migliorarono ma con Jordan a cantare (far punti) e portare la croce (leggasi palla) non si sarebbe andati lontano. O meglio, il totale dei suoi assist era sì schizzato alle stelle, i compagni erano stati sì più coinvolti, specialmente Pippen e Grant, ma per arrivare al titolo ci voleva ben altro. Phil Jackson capiva di dover escogitare qualcosa di diverso.

«Quando feci il mio ritorno nella NBA,» ricordava Jackson qualche tempo dopo la conquista del suo quinto titolo «mi accorsi che in pratica ogni squadra giocava più o meno allo stesso modo: era il tipico gioco dei playground anni Settanta, imperniato sui giochi a due eseguiti spesso in pivot basso. Avuta la palla dalla guardia, il lungo aveva due opzioni. O scivolava sulla linea di fondo per poi esplodere di potenza a canestro o, se raddoppiato, scaricava di nuovo fuori per il tiro della guardia smarcata.

Come variante, in seguito al raddoppio, la guardia “chiamava” a sé il lungo, cioè dall’area dei tre secondi verso il perimetro, per il più classico dei pick and roll. Fu proprio in quel periodo che decidemmo di riprendere il Triangolo di Tex Winter. Tex lo aveva impiegato con buoni risultati al college, a Kansas State, e lo aveva riproposto nella NBA a Houston, ma non aveva funzionato. Lo suggerì anche a Collins, che però lo abbandonò perché lo riteneva congeniale solo al basket di college. E anche lo stesso Winter non era del tutto convinto dell’efficacia di quello schema». 

Se ne sarebbe però subito convinto proprio Jackson, che, consapevole di non avere un play e un centro da titolo, a qualche santo doveva pur votarsi. «Il gioco che andava per la maggiore nella Lega non poteva confacersi a noi perché non potevamo disporre di un centro dominante che potesse giocare un cospicuo numero di palloni e di un grandissimo point man che glieli facesse arrivare, ma avevamo altre doti: eravamo rapidi e veloci, atletici, eclettici». E, guarda caso, proprio queste capacità sono essenziali in un tipo di attacco che è estremamente “democratico” nella suddivisione delle responsabilità offensive. O questo almeno in teoria, perché poi, quando contava, si dava la palla a Jordan e via andare.

Ma che cosa sarà mai, questo “benedetto” Triangolo? Cerchiamo di capirlo insieme. Innanzi tutto incominciamo a chiamarlo in modo esatto: i nomi sono diversi e qui citiamo i più comuni, così che non si possa fare confusione.

Il Triple Post Offense, attacco col triplo post, o Sideline Triangle Offense (abbreviato nel più comodo Triangle), attacco a triangolo laterale, si dice sia nato negli anni Quaranta per merito del coach della University of Southern California, Sam Berry. Una delle guardie dei Trojans era tale Fred Winter e se nella NBA Il Triangolo è diventato… se stesso, lo si deve proprio a Winter, non al suo presunto inventore Berry.

Dotato di un talento nella media come guardia, ma con la vocazione per le alchimie tattiche, Winter incominciò la sua seconda carriera nel basket nel ’47 a Kansas State dove conobbe la prima variante del non ancora famoso Triangolo. Sufficientemente onesto da non spacciarsi mai per l’ideatore del sistema più scopiazzato di tutto il basket, Winter concede di aver apportato delle invenzioni a un meccanismo di gioco che ha come primo scopo quello di distribuire a tutti i cinque giocatori in attacco responsabilità, movimenti senza palla, compiti e tiri.

Superfluo precisare che un Jordan e un Pippen tireranno sempre a loro piacimento, in quantità e tempi scelti a loro discrezione, ma non è superfluo sottolineare che è con questa strategia offensiva che si sono visti i Bulls sei volte campioni NBA in otto anni, due dei quali senza Jordan del tutto (’94) o quasi (’95). Questo a voler significare che “qualcosina” questo fantomatico schieramento l’ha prodotta. 

Il nome deriva dal fatto che, collegando idealmente con una linea le posizioni che a mano a mano vengono occupate dai giocatori, si ottengono dei triangoli su uno dei lati lunghi (non è importante quale, se quello “forte”, dove si trova il pallone, o quello “debole”, l’opposto) del rettangolo di gioco.

Per descrivere però “come” ci si debba schierare sul campo, è bene affidarsi a chi tali spiegazioni deve farle per mestiere, e chi c’è di più indicato dello stesso “innovatore” che meglio di ogni altro ha saputo “propagandare” questo schema? Secondo lo stesso Winter, in un’intervista da lui rilasciata al Toronto Globe and Mail, un giocatore deve andare in post basso, un altro verso la linea laterale e un altro ancora dalle parti della lunetta. Il giocatore in post basso preferibilmente deve essere un lungo ma nulla vieti che sia una guardia o anche Pippen.

Fin qui nulla di eccezionale, ma poi si scopre che colui che è deputato ad andare incontro alla linea laterale era quello che aveva fatto il primo passaggio nella metà campo offensiva, oppure che era avanzato in palleggio fino a raggiungere l’attuale posizione perché la difesa gli aveva impedito una prima soluzione.

Da qui inizia la rumba: intanto – può sembrare banale ma non lo è per niente – la stragrande maggioranza del gioco si sviluppa davanti agli occhi e non alle spalle dei giocatori, che però devono trovarsi in continuo movimento sempre componendo i suddetti triangoli immaginari. Questo consente loro di seguire l’azione, passare se in possesso del pallone o, se destinatari del passaggio, di riceverla senza girarsi e, in genere, senza trovarsi fuori equilibrio. Ne derivano un’immediata lettura del gioco, anche in quegli elementi dotati di mano non proprio di velluto nel trattamento di palla, e una velocità d’esecuzione nettamente migliori.

Un errore che molti commettono è quello di presumere che con tale sistema di gioco siano inibite, o comunque limitate, la fantasia o la creatività dei più talentuosi. Niente di più falso. Qui non si sta tentando di imbrigliare l’estro di un giocatore in un sistema castrante per le sue doti, si sta solo cercando di metterlo in condizione di poter scatenare le proprie armi avvalendosi della collaborazione dei compagni.

Che poi questo porti a creare autostrade per le entrate di Jordan, concluse con canestro più fallo o un suo assist nel traffico, o nel liberare uno specialista del tiro da fuori che faccia puntualmente pagare i raddoppi su Jordan, è un altro discorso. Chi è in possesso della palla dopo il primo passaggio è libero di andarsene in uno-contro-uno, o di riaprire il gioco verso l’esterno alla guardia, o di passare all’ala grande o al point man che taglia dentro; l’importante è che venga rispettato uno dei dettami fondamentali dell’Attacco a Triangolo: lo spacing tra i giocatori, cioè la distanza che essi devono mantenere tra loro.

Tra un compagno e l’altro non devono esserci mai meno di quattro metri, questo per impedire alle difese avversari comodi raddoppi perché se due attaccanti sono troppo vicini, con un solo uomo se ne marcano due. E se credete alla favoletta che nella NBA la zona sia vietata e si commetta così un’immediata infrazione di difesa illegale, allora siete ingenui. È vero che non si può difendere a zona in “The League”, ma provate a “leggere” difensivamente una qualsiasi partita dei pro e poi ne riparliamo. Ci sono tante e tali “zone”, più o meno mascherate, e raddoppi di marcature che gli allenatori non ci dormono la notte.

Il Triple Post Offense, però, come tutte le cose che portano a qualcosa di positivo, necessita di applicazione e fatica, di giocatori adatti e, soprattutto, motivati, che ci “credano”, per dirla in una parola. Tra questi, almeno inizialmente, non c’era Jordan. Nel primo anno di Jackson come capo-allenatore, Michael era titubante e poco incline a dare la palla, figuriamoci a imparare a farlo sistematicamente e con tutti i compagni.

«Quando Phil assunse il comando in vista della stagione 1989-90,» ricorda “Air” «sentivo che il mio gioco stava cambiando e io non avevo davvero alcun controllo su ciò che stava accadendo. Per la prima volta avevamo un sistema identificabile progettato per integrare tutti quanti in attacco. In principio mi opposi al Triangolo. Pensavo che Phil credesse a tutte quelle chiacchiere sul fatto di non essere capaci di vincere un campionato con me a guidare la classifica dei marcatori. Ritenevo che si fosse deciso per quel tipo di attacco per togliere la palla dalle mie mani. Per la prima volta dai tempi del college, non ero io la prima opzione. La prima era buttare la palla dentro per Horace [Grant] o Bill [Cartwright]. Non ero l’unico a osteggiare quel sistema di gioco.

Agli inizi tutti l’odiavano perché era difficile da mettere in pratica. Ma Phil non ha mai fatto marcia indietro. Lui e l’assistant coach dei Bulls Tex Winter, che “inventò” il sistema, forzavano l’attacco su di noi fino a quando incominciammo finalmente a sviluppare un ritmo all’interno del sistema. Non posso dire che abbia funzionato sempre, ma almeno teneva tutti occupati e coinvolti. Non avendo ben compreso i possibili effetti di un’arma, allora solo potenzialmente devastante, per le difese avversarie, MJ aveva paura che i compagni non fossero all’altezza del compito e che l’assimilazione dei movimenti offensivi necessitasse di tempi troppo lunghi per essere completata. Di certo non era uno dei fautori del triplo post Johnny Bach, l’assistente allenatore incaricato di curare la difesa e confidente di Michael, che lo esortava a «non stare a sentire queste sciocchezze, di prendere la palla e divertirsi». Altro che Triangolo! Bach, arrivato a Chicago voluto da Collins, era l’unico dello staff societario che Jordan degnasse di attenzione e il solo a poter fare da mediatore con l’odiato Krause, che Jordan a più riprese ha cercato di mandare via.

A finire trombato, invece, fu proprio Bach, che nel ’94 venne lasciato libero di accasarsi altrove , mentre piano piano Jordan, che si stava sempre più accorgendo di quanto quel modo di giocare lo favorisse invece del contrario, si stava convertendo.

«Il Triangolo permetteva a tutti noi di superare il diretto difensore prima che il resto della difesa si rendesse conto di cosa stesse succedendo. A causa di tutto quel movimento richiesto nell’esecuzione dell’attacco, il sistema costringeva i difensori ad essere “leali”. Non potevano raddoppiarmi tanto facilmente perché io ero solito muovermi senza palla. L’attacco era congegnato per fare di ogni giocatore una opzione realizzativa. Ecco come Scottie [Pippen], Bill e un “aiuto” come John Paxson divennero così importanti. Quando l’uomo di Paxson incominciava a diventare “sleale”, bum, John lo faceva secco con un tiro in sospensione che avrebbe allargato ancora di più la difesa. Di conseguenza, io avevo più spazio per agire. Le “Jordan Rules” di Detroit diventarono meno efficaci perché io avevo troppe opzioni».

Jordan, né limitato né imbrigliato dalla spartizione dei compiti offensivi, aveva compreso che con questo sistema poteva gestire il possesso del pallone, entrare centralmente a canestro senza “paracarri” alla Cartwright a ostruirgli il cammino (ehm, il volo), ma soprattutto non gli “toglieva la palla dalle mani” quando contava, come sulle prime aveva temuto. Winter sapeva che i Bulls erano difficilmente battibili con Jordan e Pippen in serata.

Ma se i due o uno dei due fossero stati fuori fase o anche semplicemente ben controllati, col Triangolo la squadra avrebbe comunque avuto altre frecce nella propria faretra offensiva. Sempre secondo il mago del Triangolo, parecchie squadre danno per scontati i 25-30 punti di Jordan e non fanno altro che marcarlo col loro miglior difensore, senza dedicargli raddoppi o particolari gabbie tattiche e nella speranza che, di punti, non ne faccia 50. Il vero rebus però è un altro.

È facile immaginare che siano stati i Jordan e i Pippen a fare grande il Sideline Triangle Offense e non l’Attacco a Triangolo Laterale a fare l’inverso. Le difficoltà ad adattarvisi incontrate nei primi tempi da campioni acclarati non fanno che confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che questo tipo di strategia offensiva non fa miracoli e soprattutto non è per tutti.

Tanto per fare degli esempi, il Triplo Post venne impiegato da Quinn Buckner nei disastrati Dallas Mavericks della stagione 1993-94 che pure avevano un (teorico) triangolo delle meraviglie in Jason Kidd, Jamal Mashburn e Jimmy Jackson, un trio di un’ecletticità tale che, sulla carta, sembrava fatto apposta per giocare in quel modo. Come sia finita è noto , con i tre tutti ceduti per questioni ambientali prima che tecniche, e la celebre figura a tre lati lasciata nella sua sede naturale, il libro di geometria.

Nella stagione 1996-97 un coach veterano e rotto a ogni esperienza NBA come Cotton Fitzsimmons cercò di riproporlo coi suoi iperversatili Phoenix Suns dei vari Danny Manning, Michael Finley e Robert Horry, ma, nonostante le doti di gran passatore dal post basso di Manning, il tentativo fallì miseramente dopo neanche due mesi di regular season. Si potrebbe citare, giusto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, l’esempio, semplicemente insuperabile, fornito dalla squadra femminile della Connecticut University: nel ’94-95, impiegando il Triangolo, UConn vinse 35 partite su 35.

Tre esempi che dimostrano una lezione antica quanto lo sport: senza campioni non vinci nulla e non vai da nessuna parte. Ma se sei organizzato e giochi con un modulo adatto ai tuoi giocatori, male che vada ti pari il posteriore. 

Un altro dei dettami tecnici per innescare l’apparentemente cervellotico avvio di ogni manovra offensiva dei Bulls era il superamento del primo muro difensivo avversario. Ed è lo stesso Jackson a spiegarlo: «La prima cosa da fare è interrompere la continuità della difesa perimetrale. In genere va fatto all’altezza dell’arco con un passaggio o un entrata o un tiro». Ok, Coach, ma non tutti hanno talenti naturali come Jordan, Pippen, Tony Kukoc o atleti straordinari come Dennis Rodman, Ron Harper e compagnia.

Con i primi tre che possono fare le scarpe a point man di ruolo, il problema del finto play è risolto. Il centro dominante non c’è, ma con tali atleti e ballhandler ci si può permettere una circolazione di palla supersonica senza che la difesa avversaria riesca a capirci nulla. In una frazione di secondo possono avvenire passaggi, entrate o tutte e due le cose insieme.

Eppure i meccanismi, anche per campioni di tale levatura, per essere oliati a puntino, necessitano sempre di lavoro, ore e ore di ripasso in palestra. Gli aggiustamenti, come quello di Rodman (nullo in attacco ma vitale per i rimbalzi offensivi), che, per far suo il rimbalzo in attacco, preferisce sistemarsi in post basso dal lato opposto rispetto a quello dove è stato formato il triangolo, o quello di Kukoc, che ai primi tempi andava troppo dietro alla palla, hanno bisogno di tempo per essere effettuati. 

Le varianti sono infinite ma almeno un paio in particolare sono troppo esplicative per essere ignorate. In una, Pippen ha la palla in mano in posizione di guardia all’altezza dell’arco, ma in genere dietro la linea dei tre punti: Scottie si scambia il pallone con Jordan componendo un primo triangolo immaginario sulla linea laterale; a questo punto Da Pip legge la difesa avversaria e, se c’è spazio, entra e la spacca in due dopo aver duettato con Air; altrimenti Jordan passa a Pippen e intanto Harper taglia dentro per poi uscire di nuovo a comporre un altro triangolo.

Nel frattempo, il centro Luc Longley va verso la linea laterale, sempre sul lato “forte”, muovendosi dalle tacche, con Rodman a sostare dalla parte opposta in posizione ottimale per il rimbalzo o per smarcarsi. A questo punto Jordan si incrocia con Harper, Pippen è in condizione di passare al Verme se questi, sul taglio, si ritrova libero.

Nell’altra, Jordan, in posizione di point guard (quella che nella prima variante era di Pippen) passa allo stesso Scottie, a quel punto Rodman può eseguire il taglio e andare a sistemarsi nell’angolo. Pippen ora può servire Dennis o Longley (andato sulle tacche dalla parte opposta di Rodman, cioè sul lato forte) o restituire la sfera a MJ o, infine a Harper, che, da dove era (all’altezza della lunetta), può andare verso Rodman creando assieme a lui un pericolo sul lato debole.

Supponiamo che Pippen dia la palla a Longley, Luc può girarsi e tirare in post passo, oppure può decidere di “giocare a due” con l’uomo in angolo (per esempio Jordan), che, tagliando, si porta via il proprio uomo impedendogli di raddoppiare sul centro.

A quel punto Jordan (o chi per lui era nell’angolo) può essere servito dal pivot che gli ha fatto da sponda. Un’altra chance si ha se Longley, che tiene palla sulle tacche, aspetta il blocco di Pippen che viene sfruttato da Harper per “uscire”, ricevere e magari tirare, mentre Pip (che può anche andare verso l’arco) e Rodman (che non può) tagliano.

Se Scottie taglia invece verso la palla ma non riceve, allora prosegua verso il lato debole, e Jordan e Longley eseguono il pick and roll alla maniera di stockton-to-malone di Utah. Se Scottie riceve e poi la smista ancora a Harper, Jordan e Pippen si scambiano fra loro di posizione eseguendo blocchi l’uno per liberare l’altro. Longley fa il suo breve “taglietto” per farsi vedere da Harper, che può decidere di “giocare a due” con lui o con Rodman.

Se però siete sotto di uno all’ultimo secondo, fidatevi: date palla a quello col “23” e...
di CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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