CAPITOLO 17 - Great Scottie! (1987-88)


«Il mio giocatore ideale è alto 1.96 m, pesa 90 chili, salta come Michael Jordan, ha il numero 23 come Michael Jordan e… gioca come Michael Jordan.»
– Doug Collins

«I fell in love. I thought, ‘Oh my god'».
– Jerry Krause su Scottie Pippen a The Vertical

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

A Krause i conti della stagione 1986-87 dei Bulls (leggasi risultati) non portano e quindi si mette di buzzo buono ad eseguire opportune sottrazioni al roster. Poi è la volta delle addizioni e quelle (importantissime) arrivano direttamente dal draft NBA del 1987: il GM questa volta si supera e porta a casa due pietre angolari per il futuro della franchigia.

Grazie alle sue Grandi Manovre, Chicago ottiene l’ottava e la decima chiamata del draft e Krause, in un primo momento, crede di poter mettere agevolmente le mani su uno “sconosciuto” (agli addetti ai lavori) quando individua il versatile Scottie Pippen di Central Arkansas. Come era accaduto con Oakley, però, Pippen ha la “pazza” idea di giocare molto bene nei camp di postseason, scompaginando così i piani del diabolico Jerry. In seguito a quelle prestazioni, il nome di quella magrissima ala proveniente da uno sperduto college minore prende a circolare e la sua quotazione schizza alle stelle.

Preoccupato che l’ottava posizione non sia più abbastanza buona per aggiudicarsi Pippen, Krause si accorda con Seattle per ottenere la loro quinta pick (in cambio dell’ottava detenuta dai Bulls) qualora il giocatore voluto dai Sonics non sia disponibile. Krause rende ancor più appetibile l’affare acconsentendo di scambiare con i Sonics nei successivi due draft, inserendo nel... pacco-regalo anche una seconda scelta. Ecco fino a che punto Krause vuole Pippen, ma teniamo presente che l’intero accordo salterebbe nell’ipotesi che Seattle riesca ad aggiudicarsi il giocatore che ritiene faccia al caso suo.

Quel giocatore è Reggie Williams di Georgetown, e quando questi viene scelto col numero 4 dai Los Angeles Clippers, pare che lo spostamento d’aria provocato dal sospirone di sollievo tirato da Krause abbia prodotto onde di almeno quattro metri nel vicino Lago Michigan. Seattle sceglie allora Pippen (per conto di Chicago) con la pick numero 5, i Bulls selezionano (per i Sonics) Olden Polynice al numero 8, e l’antica arte del baratto conosce nuovi, imprevisti splendori. 

Il prestigiatore Krause non ha però ancora finito con trucchi e magie, e con la decima chiamata, dal suo inesauribile cilindro, l’infaticabile illusionista ha ancora la possibilità di tirare fuori dal cilindro un lungo; la scelta si riduce a Joe Wolf di North Carolina e Horace Grant di Clemson. Anche se Wolf proviene da un program infinitamente più rinomato, lo staff tecnico e dirigenziale dei Bulls, Krause in testa, conviene nel ritenere Grant un atleta migliore, dotato di maggior potenziale. Così, mentre deve ancora finire di diradarsi il polverone seguito all’acquisizione di Pippen, i Bulls si aggiudicano anche Grant. Quella sera, al termine del draft, l’intera gerarchia dei Bulls rimane come rapita. Al più grande cannoniere (Jordan) e a uno dei più forti rimbalzisti (Oakley) della Lega, Chicago ha appena affiancato due giovani e affamati giocatori che eccellono ad entrambe le estremità del campo.

Contrariamente a molti talenti del college basketball, che vivono e muoiono per le loro statistiche realizzative, Pippen e Grant possono entrambi giocare altre carte sul tavolo della corsa all’anello. Pippen, oltre che un valido rimbalzista, è un grande ball handler, tanto abile come realizzatore quanto straordinario come difensore, che sa giocare indifferentemente point guard, shooting guard, o small forward - se non persino power forward -. Grant è un altro difensore eccezionale, un tenace rimbalzista e un realizzatore discreto che non ha bisogno della palla per avere un impatto sulla partita. 

Durante il training camp, però, accade un incidente che smorza un po’ gli entusiasmi della squadra. Contrariato perché Collins cambia il punteggio di una partitella in famiglia imponendo forzatamente lo svantaggio alla sua squadra, Jordan ha un diverbio col coach e abbandona, infuriato, l’allenamento.


Poiché nelle battaglie tra superstar e allenatori, è sempre chiaro da quale parte stia il vero potere (per altri, illuminanti esempi, si prega di rivolgersi a Magic Johnson, che fece trombare Paul Westphal nella stagione 1980-81), tocca naturalmente a Collins risolvere la situazione. Doug, alla fine, deve cedere e fare il primo passo, anche se poi la mossa gli sarebbe inevitabilmente costata un po’ di reputazione al cospetto degli altri veterani della formazione, e questo prima ancora che incominci il campionato. Non un buon segno.

Né Pippen né Grant sono nel quintetto base della sera d’apertura. Lo starting-five prevede Jordan e Paxson alle guardie, Artis Gilmore (riacquistato dai Bulls anche se trentottenne) al centro, e Oakley e Brad Sellers (un 2.13 m con null’altro che un morbido tocco al tiro) alle ali. Per tutta la stagione nessun rookie parte mai titolare, tuttavia le matricole, pur partendo dalla panchina, riescono lo stesso ad assicurare al gruppo quel solido atletismo che alla franchigia era a lungo mancato. 

Chicago partì a razzo con un avvio di 12-3 mentre Collins veniva nominato Coach of the Month per novembre. Mentre Gilmore sembrava trascinarsi stancamente (fino al punto che la dirigenza lo lasciò a piedi a dicembre), quando una serie perdente di cinque partite fece precipitare il record di Chicago a 15-12, i Bulls si rimisero in carreggiata e lottarono con Detroit e Atlanta per il titolo della Central Division. Una vittoria per 115-108 su Boston all’ultima giornata della stagione diede ai Bulls un record di 50-32, che li appaiò agli Hawks per il secondo posto, quattro vittorie dietro ai Pistons. In onore dei progressi dei Bulls, Krause fu votato come Executive of the Year della NBA. 

Jordan fu semplicemente fenomenale, giocando da protagonista in una delle più grandi stagioni nella storia della NBA. Guidò la squadra nei punti in ogni partita tranne una, quella in cui Paxson si prese gli onori con 19 punti in una vittoria per 98-97 in trasferta contro Golden State il 1º dicembre. Segnò 35 ppg per vincere la sua seconda corona consecutiva di capocannoniere e guidò anche la lega nei recuperi con 259, cioè 3.16 per gara, il primo giocatore di sempre ad arrivare al top della Lega in entrambe le categorie.

Quando i Bulls ospitarono l’All-Star Weekend, si tenne al centro dei riflettori ripetendosi per il secondo anno consecutivo come campione delle schiacciate (sebbene molti credettero che i risultati fossero poco limpidi per qualche votazione un po’ partigiana di Chicago e che Dominique Wilkins fosse stato “derubato” del titolo) e fu l’MVP della partita con 40 punti nella vittoria, 138-133 della selezione dell’Est (la sua). Al termine della stagione Jordan ottenne anche le nomine come Most Valuable Player della NBA e di Defensive Player of the Year, altra accoppiata senza precedenti.

Alcune perle dell’ennesima preziosa collana che costituì la quarta stagione nei pro di Michael: il 3 aprile, a Detroit, gioca la sua high-game dell’annata, segnando 59 punti nella vittoria per 112-110. Tre settimane dopo, il 24, ne fa 46 per superare Boston 115-108. Quella è la cinquantesima partita vinta del campionato, ed è soltanto la seconda volta di sempre che la franchigia di Chicago taglia questo traguardo.

Quattro giorni più tardi, il 28 aprile, c’è la prima gara dei playoff e Chicago affonda Cleveland 104-93 con Jordan a rifilare ai Cavs, tradizionalmente sue vittime preferite, un rotondo cinquantello. Non basta? Eccovi serviti: 30 aprile, Gara-2, Chicago prevale 106-101 e Jordan ne mette dentro 55.

È il 18 maggio e nelle semifinali della Eastern Conference Detroit suona Chicago in cinque partite. Chuck Daly, capoallenatore dei Pistons, e i suoi assistenti Dick Versace e Ron Rothstein parlano apertamente di una cosa di cui tutti sanno (ma negano), l’esistenza: le Jordan Rules, le “Regole per Jordan”, ideate da Coach Daly e applicate (fin troppo) alla lettera dai randellatori di Detroit per contenere, limitare e, di fatto, malmenare Michael in modo che arrecasse meno danni possibili. Le Regole non erano che un set completo di raddoppi, difesa dura e aggressiva per impedirgli le letali penetrazioni centrali. 

Oakley, nel frattempo, aveva guidato di nuovo la lega nel totale rimbalzi (1066) ed era stato il secondo come media (13.00, subito dietro il 13.03 di Michael Cage). E i tifosi avevano continuato a farsi divorare dalla curiosità: ogni partita al Chicago Stadium, eccetto per uno scontro di inizio stagione con Washington, aveva fatto registrare il tutto esaurito.

Le 50 vittorie dei Bulls fecero guadagnare loro il vantaggio-campo per la loro serie di primo turno di playoff contro Cleveland; lo sfruttarono al massimo sconfiggendo i Cavaliers 107-101 nella decisiva Gara-5. In quell’incontro, Collins fece partire titolare Pippen (all’ala piccola, invece di Sellers) per la prima volta nella carriera di Pippen e la matricola rispose con 24 punti e un ottimo gioco a tutto campo, nonostante la situazione di pressione.

Questo fissò la resa dei conti contro i Detroit Pistons, i “Bad Boys”, che stavano per detronizzare Boston nella Eastern Conference e con cui i Bulls stavano incominciando a far crescere un’accesa rivalità. C’era maretta: Jordan e il centro di Detroit Bill Laimbeer vennero alle mani in Gara-3 e il gomito di Jordan colpì, non si sa se involontariamente o no, la guardia Isiah Thomas in Gara-5. La tattica di Detroit era di giocare su Jordan e metterla sul fisico, contrastandone ogni tiro e andando a infastidirne ogni movimento. Funzionò: dopo essersi fatti sfuggire Gara-2 in casa, i Pistons inanellarono tre vittorie per far loro la serie in cinque partite. 

Per quanto i Bulls fossero migliorati, la serie con Detroit rivelò una mancanza di durezza a metà campo. Chicago aveva bisogno di un centro, ed era chiaro che Corzine non era la risposta. Così Krause si rimise al lavoro. 
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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