CAPITOLO 19 - Un triangolo alla testa (1989-90)


«Guardare Michael Jordan risolvere una partita è una cosa di rara bellezza. 
Ma io non voglio abusarne. 
Mi piacerebbe vederlo dover impiegare meno energie e raggiungere qualche traguardo in più.»
– Phil Jackson

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Appena quattro giorni dopo essere stati eliminati dai playoff del 1989, i Bulls stupirono molti tifosi e i media lasciando andare Doug Collins, che addusse “differenze di filosofia” con il management. Sebbene i Bulls avessero vinto 50 partite e raggiunto per due volte le Finali della Eastern Conference, Krause avvertiva che i Bulls erano già andati più lontani che potevano sotto l’intenso Collins e che avessero bisogno di una mano più morbida alle redini per poter vincere un campionato. Reinsdorf gli diede manforte e la mossa fu fatta. 

Come giocatore, Phil Jackson era stato un’ala di riserva conosciuta per prima cosa per la sua difesa sotto il coach dei New York Knicks, Red Holzman, un uomo le cui squadre Reinsdorf aveva idolatrato per la loro abnegazione alla difesa e al gioco di squadra. Poi Jackson aveva fatto un po’ il commentatore e gironzolato come allenatore, avendo successo nella CBA ma non riuscendo a trovare un incarico nella NBA.

Krause, che aveva osservato Jackson da giocatore quando lavorava per i Baltimore Bullets ed era rimasto in contatto con lui nel corso degli anni, lo aveva chiamato per un incarico di assistente sotto Stan Albeck nel 1985, ma Albeck non lo aveva voluto. Jackson stava considerando la possibilità di lasciare il basket e di tornarsene a casa nel Montana, quando, nel 1987, Krause lo chiamò per un altro colloquio, stavolta per un posto alle dipendenze di Collins. 

Intellettuale e spirito libero che abbraccia il buddismo zen e a cui piace motivare i giocatori dando loro libri da leggere, Jackson era in stridente contrasto con il chiusissimo Collins. Piuttosto che urlare e sbraitare e saltare addosso a tutti i suoi giocatori, lui dava loro la libertà di risolvere i propri problemi, intromettendosi solo quando lo reputava assolutamente necessario. Con il nucleo di giocatori della squadra a maturare, questo assicurò il tocco giusto. 

Jackson, che aveva giocato in squadre che avevano prosperato su un gioco millimetrico e sul movimento senza palla dei giocatori, per l’attacco si rivolse a Tex Winter e gli lasciò instaurare il suo Attacco a Triangolo, detto anche Attacco a triplo post: usava pochi schemi prefissati ma aveva tutti e cinque i giocatori nella condizione di dividersi il possesso del pallone e di saper leggere le difese avversarie. Mise Johnny Bach a capo della difesa e assunse come assistente l’ex giocatore Jim Cleamons che, essendo giovane, avrebbe potuto stabilire un buon contatto con i giocatori. Ma la grande mossa fu mettere Winter a capo dell’attacco – cosa che Krause, da una vita fan di Winter e della sua concezione offensiva, applaudì esplicitamente. 

Ci volle un po’ ai Bulls per adeguarsi. In una lega che sempre più si appoggiava sui giochi in isolamento o sui pick-and-roll, il triangolo era una stridente eccezione – in particolare per una squadra che poteva vantare la più grande arma da uno-contro-uno della pallacanestro, Jordan.

Invece degli isolamenti per MJ e Scottie Pippen, l’attacco di Chicago incominciava adesso con la palla che andava dentro sia a Cartwright sia a Grant in post, dopodiché dipendeva da loro fare il passaggio giusto. Quando perdevano palla, Jordan ribolliva. E quando le partite erano punto a punto, era lui a prendere il comando nel finale, chiedendo la palla e ritornando ai giochi in isolamento nei quali era così efficace. Jordan sosteneva che il triangolo fosse un buon attacco per tre quarti perché faceva sì che tutti fossero coinvolti, ma non per il quarto periodo, quando la gara era in dirittura di arrivo e lui sentiva che la palla doveva appartenere alle sue sole mani.

Dopo aver trascorso la preseason imbattuti, i Bulls non riuscirono a far meglio che dividere equamente, tra vinte e perse, le loro prime 10 partite. Ma gradualmente incominciarono ad adattarsi al loro nuovo attacco e furono 29-20 quando un paio di strisce vincenti da nove gare consentirono loro di terminare sul 55-27, il secondo miglior bilancio nella storia della franchigia.

Sia Jordan sia Pippen furono All-Stars e la guardia Craig Hodges vinse la gara del tiro da tre punti all’All-Star Weekend. Jordan guidò la lega nei punti (33.6 ppg) e nei recuperi (2.77 spg) e ancora una volta fece parte dei primi quintetti All-NBA e All-Defensive. 


Mai svegliare il Mike che dorme

Il 28 marzo Jordan segnò il suo career-high di 69 punti in una vittoria al supplementare, 117-113, a Cleveland (tanto per cambiare…), infilando 23 dei 37 tiri dal campo e 21 dei 23 dalla lunetta, ed avendo anche 18 rimbalzi, 6 assist e 4 palle recuperate in quell’eccezionale prestazione.

L’esplosione realizzativa era stata scatenata dal parapiglia accaduto quando, nel primo quarto, c’era stato un incidente che aveva coinvolto “Air” che stava andando in entrata a canestro e “Hot Rod ” Williams che lo aveva gettato pesantemente a terra. Quello di Williams era stato un gesto di una violenza tanto inutile quanto gratuita e il solo risultato che aveva portato era stato quello di aizzare la folla che già non vedeva l’ora di scatenare la propria indole becera: il pubblico inveì ferocemente contro Jordan, ancora dolorante a terra, dimostrando così che il “meglio del peggio” non è esclusiva di certi palazzetti europei. Ma i supporter dei Cavs se ne sarebbero pentiti, amaramente.

«Quella di Cleveland – avrebbe in seguito raccontato Jordan – era incominciata come una qualsiasi altra partita fino a che non subii presto un duro fallo da "Hot Rod" Williams. Mi buttò a terra e io rimasi sdraiato per un minuto o due. Mentre me ne stavo lì disteso riuscivo a sentire la folla applaudire. Non potevo credere che fossero felici solo perché questo sarebbe servito a far vincere loro una partita. Quella non era sana sportività. In ogni evento agonistico a cui avevo partecipato, era quando qualcuno si rialzava dopo essersi fatto male che la gente applaudiva. I tifosi erano comunque attaccati nei confronti della loro squadra, ma capivano che la salute di un giocatore era più importante di un incontro di pallacanestro. Io ero a terra e loro applaudivano. Diedi un’occhiata al trainer dei Bulls, Mark Pfeil, e gli dissi: “Questa gente la pagherà”. Mi rialzai, segnai i miei tiri liberi e da quel punto in avanti fu come se mi trovassi in uno stato di furia controllata. Mentre giocavo quella partita, mi sentivo come un uomo posseduto dal demonio, giocando quella partita. Mi misi al lavoro». E che lavoro! Nei 50 minuti in cui fu in campo, Michael infilò 23 dei suoi 37 tiri dal campo, con 2 su 6 dall’arco, 21 su 23 dalla linea, 18 rimbalzi (!), 6 assist e 4 recuperi… La prossima volta, ci scommettiamo, i poco sportivi frequentatori del The Coliseum di Cleveland sarebbero stati ben attenti a non urtare la suscettibilità del Più Grande.

Quella prestazione era stata semplicemente superba ma Michael era stato l’ultimo ad accorgersi del totale dei suoi punti: «Non mi sembrava neanche di aver fatto 69 punti – avrebbe commentato – perché stavo segnando nel normale flusso della gara». Controproducente tentare di provocarlo.

«C’erano state un paio di altre partite nelle quali avevo giocato con quel tipo di emozione. Feci 49 punti contro Detroit la prima partita dopo l’All-Star Game del 1985. C’erano state poche gare in cui avevo giocato con quella sorta di rabbia controllata. La partita di Jerry Stackhouse di Philadelphia del 1996 è un altro buon esempio. Stackhouse aveva detto che aveva giocato uno-contro-uno con me e che non credeva che fossi poi così forte e che avevo solo ottenuto tutte le chiamate favorevoli. Questo mi mandò fuori dai gangheri. Avevo 44 punti dopo il terzo quarto e tirai i remi in barca perché eravamo anche troppo avanti nel punteggio. LaBradford Smith mi rifilò 37 punti una sera a Chicago. Noi giocavamo contro di loro a Washington la sera successiva. Gli dissi che ne avrei fatti 37 all’intervallo di quella partita e finii con 34 alla pausa. Ci sono state un paio di partite contro i Knicks i cui allenatori avevano fatto una dichiarazione che non condividevo. Durante i playoff del 1989 mi procurai una distorsione alla caviglia e Rick Pitino, che era il coach dei Knicks, andò in tv e disse che non credeva sul serio che mi facesse male. Mi assicurai che non sembrasse che stessi male il giorno appresso e gliene allentai 47. Jeff Van Gundy fece la stessa cosa durante i playoff 1996. Mi aveva definito “subdolo” e aveva sostenuto che imbrogliavo perché, fingendomi amico degli avversari cantavo loro la ninna nanna per “addormentarli”. Questo mi fece irritare per davvero. Gli diedi 44 punti il giorno dopo e gli dissi: “Imbroglia questi, nanerottolo!”. Tutti mi chiedevano che cosa avessi detto a Van Gundy dopo la partita. E questa è la miglior traduzione che possa darvi».

Altre tensioni arrivarono poi con i playoff. Chicago, il cui record post All-Star Game di 27-8 era il secondo migliore dell’intera NBA, sconfisse Milwaukee 3-1 e Philadelphia 4-1 per fissare un altro incontro con i Detroit Pistons. I Bulls, che vedevano i "Bad Boys" come dei teppisti, specialmente Bill Laimbeer e Rick Mahorn, si lamentavano di come essi spesso ricorressero a mezzi meschini che mettevano a repentaglio l’incolumità degli avversari, tutto con il solo fine di trarne un qualche vantaggio.

La serie fu tirata e piena di tensione, e il fattore campo dominò nei primi sei incontri: dopo le prime due partite disputate a Detroit, Jordan risollevò Chicago quasi da solo, portandola dallo 0-2 al 2-2: in Gara 4, il 28 maggio, aveva impattato la serie con i suoi 42 punti nella importantissima vittoria per 108-101, dopo averne messi a segno 47 nel match precedente. Gara 7 era in programma il 3 giugno al Palace di Auburn Hills, il modernissimo ma forse un po’ asettico teatro delle gesta dei Pistons, ma per i Bulls fu un disastro. Paxson si era slogato una caviglia nella sesta sfida e, subito prima del fischio d’inizio, Pippen aveva sofferto di una delle sue ricorrenti emicranie.

I Bulls restarono indietro dall’inizio e non furono mai in partita, perdendo con l’imbarazzante punteggio di 93-74 (nonostante i 31 punti, 8 rimbalzi e 9 assist messi a referto da Jordan) in quello che coach Jackson avrebbe definito «il mio momento più difficile come allenatore». Pippen, il cui padre era deceduto prima dei playoff e che Scottie non aveva potuto vedere prima dell’incontro, fu bersagliato come responsabile dai media e dipinto come un giocatore che mancava di quella fermezza interiore per passare indenne nella Partitissima. 

Ancora una volta i Bulls si erano fermati prima del tempo finendo per cadere nelle mani degli odiati Pistons e la cosa a Michael non poteva andare giù. Privatamente attaccò i propri compagni di squadra per essere scomparsi in the clutch, come si dice in America, cioè quando più contava.

Jordan fu particolarmente poco tenero con Pippen, che aveva infilato soltanto uno dei suoi dieci tiri dal campo e se ne era rimasto seduto in panchina per gran parte del match in preda al famigerato, fortissimo mal di testa. Da allora, spietato come suo costume, ad ogni calo di rendimento del futuro “gemello”, Jordan avrebbe sempre pungolato Pippen sventolandogli davanti alla faccia il foglio delle statistiche e canzonandolo: «Ancora emicrania stasera, Scottie?». 

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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