CAPITOLO 12 - Il sorteggio della lottery (1984)
«Michael Jordan non era uno sconosciuto quando uscì dal college; era il Giocatore dell’anno. La mia sensazione era che fosse un fuoriclasse, un giocatore di talento che, se avesse lavorato duro ed espresso tutto il suo potenziale, un giorno sarebbe potuto diventare un All-Star. Va ricordato che, a quei tempi, i lunghi significavano tutto. Se non si aveva un grosso pivot, l’opinione comune era che non si avessero chance di vincere il campionato. Quel parere oggi è cambiato, dato che anche un piccolo può diventare la pietra angolare di una squadra da titolo. Michael ha rovesciato quel convincimento».
– Rod Thorn
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books
Quello che stiamo per scrivere farà sorridere molti, ma vi assicuriamo che è tutto vero. Per coloro (pochi) che ancora non ne sono a conoscenza, va subito precisato che Michael Jordan viene scelto “solo” col numero tre nel draft NBA 1984. Eh sì, avete letto bene: MJ viene chiamato al primo giro con la terza pick (scelta) della “lotteria”.
Nel maggio di quell’anno, Jordan, con una stagione d’anticipo sulle canoniche quattro previste dal programma accademico, si dichiara “eleggibile” per il draft della NBA, eppure nessuno, ma proprio nessuno, scommetterebbe un centesimo su una prima scelta assoluta diversa da quella che poi, in effetti, ci sarebbe stata. Il nome di quella chiamata numero uno? Akeem (ancora senza la lettera “h” davanti) Olajuwon, talentuosissimo centro di 2.08 m della University of Houston.
In prima fila per la caccia ai top prospects, i «“prospetti” migliori», secondo l’ambita etichetta affibbiata agli universitari che gli scout ritengono in possesso del miglior potenziale in proiezione NBA, ci sono gli Houston Rockets e i Portland Trail Blazers . La vincente del sorteggio chiama per prima e alla perdente va la seconda scelta; in terza posizione ci sono i Chicago Bulls, in quarta i Dallas Mavericks e in quinta i Philadelphia 76ers. E se arriviamo fino alla pick numero cinque, c’è un motivo ben preciso. La prossima matricola Michael Jordan, infatti, ha la convinzione che, alla fine di quel draft, finirà proprio ai Sixers: «Il giorno in cui decisi di rendermi disponibile per il draft NBA del 1984 ero convinto che sarei andato a Philadelphia» conferma MJ quattordici anni dopo. «Avevo appena terminato la mia stagione da junior a North Carolina e Coach Smith fece qualche giro di telefonate nell’ambiente della NBA per sapere quanto in alto sarei stato chiamato se avessi lasciato il college anzitempo. All’epoca, tra la fine di marzo e i primi d’aprile, i 76ers gli fecero capire che mi avrebbero preso con la seconda o la terza chiamata, in base a quella che avrebbero avuto a disposizione». Fin qui il Michael ufficiale. In realtà dalle parti della Città dell’Amore Fraterno si sono un po’ più sbilanciati. E di parecchio anche. I Sixers, guidati in panchina dall’ex leggendario “The Kangaroo Kid” , al secolo Billy Cunningham, guarda caso altro a sua volta ex ragazzo prodigio proprio a UNC nei primi anni Sessanta, fanno chiaramente capire a Smith di volere Jordan ma, allo stesso tempo, consci che il fresco College Player of the Year non sarebbe rimasto disponibile fino alla quinta posizione, decidono anche di muoversi per giocare d’anticipo ed evitare così di rimanere al palo in caso di brutte sorprese che, nel draft, sono all’ordine... dell’anno. Il management di Philly si mette allora subito in contatto con quello dei Bulls (Chicago, lo ricordiamo, avrebbe scelto due posizioni più in alto dei Sixers) per architettare uno scambio: come contropartita per la terza scelta detenuta dai Tori, i 76ers sono disposti a cedere le due pick in loro possesso (la quinta, come detto, e la decima) e la guardia Andrew Toney , che pure era stato uno dei protagonisti nella conquista del titolo NBA della stagione precedente, ma all’ultimo momento l’affare sfuma.
Questa la situazione dalle parti della Città dell’Amore Fraterno, ma per Houston e per Portland il nome Jordan significa solo una fugace tentazione. Perché il sogno di entrambe è quello di prendere il futuro… “The Dream” . I Bulls, intanto, stanno alla finestra. «Ma col passare delle settimane,» continua il racconto lo stesso Michael «Chicago incominciò a perdere partite su partite e, di conseguenza, a guadagnare posizioni nella graduatoria del draft. Ad ogni modo, l’intera faccenda per stabilire a chi sarebbe andata la pick numero uno si ridusse al lancio della monetina. A quei tempi la NBA non aveva ancora istituito la “lotteria” per il draft, quindi a decidere la prima chiamata era il lancio della moneta, da effettuarsi fra le peggiori squadre di ciascuna conference. Il resto della Lega seguiva in fila dietro le prime due: la terza scelta andava alla franchigia con il terz’ultimo record e così via…». La svolta che avrebbe cambiato l’intera storia della NBA sta per compiersi.
Il 23 maggio 1984, gli executives dei Trail Blazers e dei Rockets s’incontrano al quartier generale della NBA a New York City per il tradizionale lancio della monetina. Non una moneta qualsiasi, quindi, ma una sorta di doblone d’oro che avrebbe dato a una delle due franchigie il diritto di chiamare per prima nello storico draft di quell’anno. Portland sceglie croce, la monetina viene lanciata e, nell’attesa, in questi casi invariabilmente «spasmodica», dei dirigenti, sembra quasi non fermarsi più. Esce testa. Gli Houston Rockets ottengono quella tanto agognata prima chiamata e, quattro settimane dopo, non avranno esitazioni: quel 19 giugno 1984, il giorno del draft, si aggiudicheranno la matricola più quotata della stagione: Akeem Olajuwon.
Neanche i Trail Blazers, ai quali rimane pertanto la seconda scelta, sono alla ricerca di una guardia dato che nel roster ne hanno già due: Jim Paxson , ancora nel prime della carriera, e il promettente Clyde Drexler, che ha appena terminato il suo primo anno nella Lega; Portland sceglie allora Sam Bowie, il centro All-American proveniente dalla University of Kentucky.
Sembra incredibile, ma entrambe le squadre avrebbero potuto prendere Michael Jordan e non lo avevano voluto. Detta così, è un po’ da filibustieri. Ma con un po’ di ripasso di storia NBA, materia sempre affascinante e ricca di sorprese, cercheremo di rimediare.
Già al draft dell’anno precedente (’83), i Rockets avevano avuto la possibilità di scegliere con il numero uno, e quella chiamata l’avevano utilizzata per prendere Ralph Sampson, il “centrone” di 2.22 m che aveva spopolato alla University of Virginia. Ma, nonostante la buona annata d’esordio dell’ex Cavaliers, culminata nella nomina a Matricola NBA dell’Anno per il 1984, Houston è di nuovo il fanalino di coda della Lega e si ritrova, ancora una volta, a chiamare tra le primissime. Ora, però, la questione che più angustia i Rockets è chi chiamare. I Razzi hanno già nelle proprie file un centro (potenzialmente) dominante e allora, si chiedono, che farsene di un altro “pivottone” naturale? Come spesso accade, quando si ha la possibilità di prendere un fenomeno non si sta tanto a guardare per il sottile, e quello del ruolo diventa un falso problema. Nella NBA, ma si potrebbe estendere il concetto allargandolo a tutto lo sport in generale, vige da sempre una regola non scritta: è nota come BAA e le tre lettere non sono altro che le iniziali dell’espressione «Best Available Athlete», in pratica si tratta del saggio consiglio di prendere in ogni caso il «miglior atleta disponibile», in buona sostanza quello che più sa giocare. L’eventuale posizione in campo e tutto il resto vengono dopo, molto dopo. La regoletta, vecchia come il mondo, viene prontamente applicata dai Rockets, i quali non vedono l’ora di varare quella che, un decennio prima dell’attuale formidabile duo dei San Antonio Spurs David Robinson-Tim Duncan (rispettivamente 2.13 m e 2.11 m), sarebbe passata alla storia come l’edizione originale della celeberrima (e copiatissima) coppia delle Twin Towers, le Torri Gemelle: Ralph Sampson-Akeem Olajuwon .
Per onestà critica, bisogna precisare che quella di Houston (preferire Olajuwon a Jordan) è una mossa intelligente perché il nigeriano Akeem è già allora troppo forte per lasciarselo scappare mentre quel Jordan non è ancora… “Air” Jordan. A quei tempi il ventunenne Michael, reduce dai tre anni di gioco molto “collettivo” di Smith, non sembra quella guardia capace di “spostare” i destini di una squadra. In ogni caso, non lo sarebbe di sicuro per quei Rockets, che, nello spot numero “2”, quello di guardia tiratrice, sono ben coperti. Olajuwon, invece, per loro potrebbe essere il classico franchise-player, il giocatore-franchigia attorno al quale far ruotare le sorti dell’intero club, quindi va preso per forza. Ed è quel che accade.
Portland si trova invece nella situazione perfettamente duale rispetto a Houston: i rossoneri, che scelgono per secondi, hanno l’impellente necessità di una prepotente presenza in mezzo all’area. Con in squadra Mychal Thompson, ex prima scelta assoluta proveniente dalla University of Minnesota, i Trail Blazers possono disporre di punti sicuri, ma Thompson è più un’ala forte che un centro vero e proprio, e, in ogni caso, pur essendo un attaccante formidabile, non appare ciò che in America viene descritto come un factor, un “fattore”, quello che spesso e volentieri fa la differenza. L’altro “lungo” dei Blazers è il poco più che mediocre Wayne Cooper, e si capisce quindi quali fatiche debbano sobbarcarsi i Tracciatori di Piste nel farsi largo sotto le plance. Bisognosi di un vero pivot come dell’aria per respirare, i Blazers, pur di averlo e poter così spostare il pur valido Thompson all’ala grande, sono di bocca buona e propongono a Houston – senza porre ulteriori vincoli! – questo scambio: Clyde Drexler più la pick numero due come contropartita per la prima scelta (che, naturalmente, Portland avrebbe impiegato per Olajuwon) o, alla pari, la seconda scelta più Drexler per il centro biancorosso Ralph Sampson. Un’offerta irripetibile! Portland non si arroga neppure il diritto di scegliere chi dei due prendere tra Olajuwon e Sampson: vuole solo assicurarsi di chiudere l’operazione-draft portandosi a casa un centro dominante, poi che sia pure Houston a decidere quale e come. Accettando, i Rockets avrebbero la possibilità (cedendo Sampson e scegliendo Jordan con la pick numero due acquisita da Portland) di giocare con Olajuwon al centro e Jordan guardia; oppure (cedendo la prima scelta assoluta a Portland e prendendo sempre Jordan con la seconda), con il fresco Rookie of the Year Sampson nel mezzo, Jordan come shooting guard e Clyde Drexler all’ala piccola. Il giro è un po’ complicato e lo riassumiamo: Houston potrebbe schierare assieme Olajuwon+Jordan oppure Sampson+Jordan+Drexler. Ci siamo spiegati meglio, adesso?
Quello che può sembrare impossibile - ma solo ai giorni nostri, ormai pienamente consci di ciò che Jordan è diventato - è che nessuna delle due trades si concretizza. In altre parole, in Texas potrebbero arrivare insieme (!) Akeem e Michael oppure Michael e Clyde eppure non se ne fa nulla. Perché? È presto detto. Primo, Houston non sa decidere a chi dei due tra Olajuwon e Sampson rinunciare (difficile scegliere di chi privarsi: lasciar partire un coordinatissimo 2.22 m che sa giocare e che è appena stato giudicato Miglior Esordiente della Lega, o farsi sfuggire il miglior pivot di tutto il college basketball?); secondo, ammesso e non concesso che i Rockets accettino lo scambio, quella seconda scelta non saprebbero come impiegarla, visto che Jordan appare - ai loro occhi - un giocatore troppo simile a quel Drexler che (sempre via-Portland) arriverebbe dallo scambio, e che loro conoscevano fin troppo bene. Il futuro “The Glide” , infatti, è un prodotto locale dell’università di Houston (dove, assieme a Micheaux e allo stesso Olajuwon, aveva dato vita alla già menzionata confraternita del “Phi Slamma Jamma”); inoltre, su di lui c’è ancora qualche residua perplessità perché nel suo primo anno da professionista, Drexler aveva fatto intravedere sì buoni numeri, ma non ancora grandi… “cifre”: la sua stagione da matricola era stata altalenante e la sua media realizzativa si era fermata sotto gli 8 punti a partita. Naturalmente si vede già che Clyde è un buon giocatore, ma all’epoca difficilmente qualcuno scommetterebbe su di lui come futura stella assoluta, membro del Dream Team originale (quello “vero”, del 1992) e addirittura (nomina avuta nel ’96) uno dei cinquanta più grandi giocatori del primo mezzo secolo di NBA. Infine, anche se Michael è un vecchio pallino di coach Bill Fitch, i Rockets hanno appena avuto una buona annata sia dalla loro guardia titolare Lewis Lloyd (17.8 punti a partita), sia dall’ala piccola e leader della squadra Robert Reid (14 punti di media), quindi perché complicarsi la vita andando a prendere altre guardie/ali piccole?
Portland, poveretta, berrà invece fino in fondo l’amaro calice di squadra destinata a convivere in eterno con il marchio infamante: potrebbe prendere Jordan e invece gli preferisce la meteora Sam Bowie di Kentucky.
Per dovere di cronaca, c’è però da precisare che alla vigilia di quel draft tutti considerano Olajuwon, il centro di 7’ (scarsi) dell’Università di Houston, il miglior prospetto del draft, seguito a ruota da Jordan e, subito dopo, dall’altro settepiedi Bowie.
In più, riguardo a Michael, anche nello staff dei Blazers, come accaduto ai Rockets, ci sono le medesime discussioni sul ruolo, se sarebbe stato più opportuno farlo giocare ala piccola o guardia. E visto che i Blazers in casa hanno già Paxson come guardia titolare (il miglior elemento della formazione è reduce da un’annata da 21.3 punti per gara) e anche Drexler, che poteva entrare dalla panchina ed occupare efficacemente entrambi gli spot di “2” e di “3”, preferiscono andare a colmare altre (evidentissime) lacune di organico. Jack Ramsay, oggi analyst della NBA per conto della ESPN, il canale televisivo via-cavo che trasmette solo sport 24 ore su 24, e coach dei Trail Blazers quando essi presero l’infausta decisione di trascurare Jordan nel draft ’84, rilascia alla rivista ESPN–The Magazine, il bellissimo quindicinale illustrato della rete, un’intervista, pubblicata nel numero 3 dell’8 febbraio 1998, nella quale espone, per l’ennesima volta, i motivi di quel suicidio, pardon, di quella... “scelta”. «Molto, molto temp prima del draft ‘84, avevamo deciso di prendere il miglior centro disponibile. Avevamo già delle buone point guards ed elementi come Jim Paxson e Clyde Drexler come seconda guardia. La nostra scala di priorità era: Hakeem Olajuwon, Patrick Ewing e Sam Bowie. Quando Ewing decise di restare a Georgetown e Houston vinse il sorteggio e prese Olajuwon, noi rimanemmo con Bowie. Non ci pensammo due volte. Naturalmente sapevamo che Jordan era un buon giocatore, ma io credo che nessuno a quel tempo potesse immaginare cosa sarebbe diventato». Il vecchio Jack, il tecnico che aveva portato i grandissimi Blazers dell’immenso Bill Walton al titolo di campioni NBA 1977, non aveva tutti i torti. «Ricordo anche di aver parlato con James Worthy,» aggiunge Ramsay «il quale mi aveva riferito che ciò che più era emerso di Michael al college era la sua competitività. James mi aveva detto che a North Carolina si dovevano segnare un certo numero di tiri liberi consecutivamente prima di terminare l’allenamento e poter andare via. Michael voleva essere sempre il primo a lasciare il campo, il primo a fare la doccia, il primo a rientrare in camera così da poter scegliere per primo a mensa e poter assicurarsi per cena il piatto migliore. Voleva essere il primo in tutto».
A proposito della annosa questione del ruolo, va anche sottolineato come, nella NBA dell’epoca prejordaniana, sia ancora profondamente diffusa e radicata la convinzione che le grandi squadre, quelle capaci di vincere l’Anello di campione o comunque di concorrervi fino in fondo, si costruiscano attorno ad un centro dominante o ad un playmaker geniale. Meglio ancora se attorno a tutti e due, come aveva insegnato la coppia dei Milwaukee Bucks (campioni NBA 1970-71) Oscar Robertson-Lew Alcindor, l’asse point guard-centro per antonomasia. Di tutte le più forti squadre del passato, sempre attenendoci a squadre antecedenti l’era-Jordan, pochissime erano imperniate su una guardia, anzi, quasi nessuna. Nel passato ci sono state le dinastie dei grandi centri : quella dei Minneapolis Lakers di George Mikan degli anni ’50; o quella dei Celtics degli anni ’60 del «giant among giants» , il «gigante tra i giganti» Bill Russell; accanto alle dinastie erano poi emerse altre indimenticabili formazioni, a cavallo fra i decenni Sessanta e Settanta, che non si possono non menzionare: le squadre di Philadelphia ’66-67 e di Los Angeles (’71/72) del contraltare di Russell, Wilt Chamberlain (ma quei Lakers avevano anche due guardie immarcabili come Jerry West e Gail Goodrich); quelle dei Knicks dei due titoli (’70 e ’73) che hanno coronato la filosofia dello «hitting the open man» portata a livelli di diabolica perfezione. Quelle squadre di New York avevano due dei più grandi giocatori di sempre: Willis Reed in mezzo all’area e Walt Frazier in cabina di regia, e ad essi, nell’ anno del secondo titolo, si sarebbe aggiunta un’altra fantasiosa guardia dall’estro imprevedibile, lo straordinario Earl “The Pearl” Monroe.
Si potrebbe invece continuare all’infinito nel citare squadre che pur potendo schierare guardie o ali piccole eccezionali raramente avevano fatto strada nei playoff. Forse con l’eccezione dei citati Lakers dell’immenso West, nella postseason, dove è noto che il gioco diventa più duro e se non si ha il comando sotto i tabelloni non si va avanti, per sopravvivere bisogna avere gente che prenda punti e rimbalzi da sotto, disporre di pivot, insomma. E di qualcuno che li inneschi. Nei playoff, si sa, si corre di meno, il gioco in campo aperto è spesso soppiantato dai titanici scontri sotto le plance e alcune tipologie di guardie/ali sono inevitabilmente penalizzate. E poi, messa giù papale papale, chi avrebbe mai potuto immaginare, allora, che razza di guardia/ala piccola sarebbe diventato Jordan? Un conto è emergere a livello universitario, un altro riuscire a fare la stessa cosa tra i professionisti, in mezzo a gente più alta, più forte, più veloce e più smaliziata. L’arte del draft è, appunto, un’arte. E trattandosi di “materiale umano”, per fortuna nessuno a priori può mai essere sicuro di niente. Altro che scienza.
Per tutti questi motivi, dunque, la franchigia dell’Oregon preferisce dirottarsi su Bowie (la cui carriera NBA sarà poi devastata dagli infortuni ), l’unico centro valido rimasto sulla piazza. È una mossa giusta, in rapporto alle esigenze tecniche della squadra, ma, a causa di ciò che sarebbe diventato MJ, avrà l’ingrato destino di essere derisa in eterno da addetti ai lavori e non.
Per terza chiama Chicago, ed è così che Michael Jordan si ritrova nella Windy City, la Città del Vento, e tutto per una monetina dispettosa. «Se Portland avesse vinto il sorteggio,» dice Michael ripensando a come inizia la sua avventura professionistica «avrebbe preso Hakeem Olajuwon, io sarei andato a Houston e Sam Bowie sarebbe finito a Chicago, che aveva perso un numero di gare tale da superare [nella graduatoria del draft] Philadelphia. Houston vinse il lancio della monetina, i Rockets presero Hakeem e Portland ripiegò su Bowie. La cosa buffa è che i Bulls avevano perso il lancio della moneta nel 1979 con i Los Angeles Lakers. I Lakers presero Magic Johnson e i Bulls scelsero David Greenwood, che faceva ancora parte della squadra quando arrivai io. Non è incredibile? Un semplice lancio della monetina…».
Per quel «semplice lancio della monetina», come lo chiama lui, i Bulls, anche loro ben felici di prendere uno fra Olajuwon o Bowie se ancora disponibili , si vedono in pratica “costretti” a prendere Michael Jordan! Se in quell’ultimo weekend di stagione regolare i Los Angeles Clippers non vincono quella partita che vincono, ai Philadelphia 76ers, che detengono i diritti sulla prima scelta di Chicago, va la terza pick anziché la quinta e, al posto dei Bulls, Jordan lo prendono loro! A quel punto la storia di Jordan, dei Bulls, dei Sixers e dell’intera NBA sarebbe cambiata. E, più modestamente, lo sarebbe anche quella di chi scrive, che, “fatalmente”, sarebbe finito a servire “Gin Fizz” e “White Lady” in una qualche terrazza in riviera. E poi c’è ancora chi si ostina a sostenere che il Destino non esiste.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan
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