CAPITOLO 18 - The Shot, Part II (1988-89)
«Credevo di essere in un’ottima posizione su di lui, ma non c’è modo di fermare un tiro come quello. Lui sta semplicemente sospeso in aria e poi ha quel tocco... Non avrei potuto fare altro.»
– Craig Ehlo
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Il GM Jerry Krause si era ormai convinto che, per continuare a progredire, i Bulls avessero bisogno di una presenza più forte in area. Così, subito prima del Draft NBA del 1988, cedette ai New York Knicks l'ala forte Charles Oakley per il centro di 2,13 Bill Cartwright, veterano che ai Knicks ritenevano sacrificabile in seguito all'acquisizione di Patrick Ewing. La cessione scatenò un putiferio a Chicago. Molti dei giocatori dei Bulls, Jordan compreso, vedevano Oakley come una sorta di bodyguard della squadra, l’unico che non cercava mai scuse e che affrontava a muso duro tattiche e atteggiamenti intimidatori degli avversari, specie quelli dei “Bad Boys” di Detroit.
Come molte mosse di Krause, anche questa era dura da mandar giù ma poi sarebbe stata digerita. Cartwright, per esperienza, stazza fisica e presenza difensiva, si rivelò l’ingranaggio giusto per i Bulls, colmando la lacuna che nel mezzo esisteva da quando Artis Gilmore aveva cominciato a perdere vigore. Inoltre, Grant era ormai pronto per occupare lo spot di power forward e fornire un apporto importante sia in difesa sia a rimbalzo. Con Jordan, Pippen e Grant i Bulls potevano contare su tre difensori tenaci e Cartwright era l’uomo giusto per blindare l'area.
Pippen però aprì la stagione 1988-89 in lista infortunati per via di un intervento chirurgico alla schiena, e senza di lui i Bulls partono lenti. Dopo due mesi languivano a 16 vittorie e 14 sconfitte e nello staff tecnico c’erano segni di frustrazione, con coach Doug Collins che incominciava a ignorare i suggerimenti degli assistenti Tex Winter e Phil Jackson, entrambi pupilli di Krause, finendo così per farsi attorno terra bruciata.
Ma con il rientro di Pippen e Jordan che iniziava a metabolizzare la perdita di Oakley e ad avere più fiducia in Cartwright, tra il 10 e il 19 gennaio i Bulls ne vinsero altre sei in fila. Un’altra striscia di sei vittorie li portò al 43-26 del 29 marzo, ma Chicago poi vinse solo 4 partite e ne perse 9, chiudendo la regular season a 47-35 e col quinto posto nella tosta Central Division. Intanto, però, era successo qualcosa.
Il 13 marzo Jordan aveva incontrato coach Collins e aveva accettato di giocare point guard al posto di Sam Vincent, retrocesso in panca, per il resto della stagione. Con MJ a portar palla, entrava in quintetto un tiratore (specie da tre) micidiale come Craig Hodges.
Michael partì di botto nella posizione che non ricopriva dai tempi del liceo, e il passaggio fu più morbido del previsto: nella larga vittoria su Indiana, per lui tripla doppia da 21 punti, 14 rimbalzi e 14 assist. Il 24 marzo, 33 punti e altro career-high di 19 assist nel successo su Portland. E che non fossero fenomeni isolati, lo conferma un dato: per Jordan nove triple doppie nelle prime diciassette gare in regia. “Mi sto divertendo nella posizione di point guard – dichiarò – perché mi dà l’opportunità di far vedere una certa leadership”.
Sulla sincerità di Jordan sul suo gradimento della nuova situazione non giureremmo, ma intanto i Bulls, con lui a giocare come point man, vinsero nove delle loro 11 partite. E tanto per continuare a dare i numeri, Michael, novello Oscar Robertson, compilò ben dieci triple doppie nell’arco di undici gare.
Collins aveva incominciato a impiegare MJ nello spot di "uno" solo a stagione inoltrata ma già giravano voci che tutto quel portare palla aggiuntivo lo logorasse nei finali di partita. Ciononostante, Jordan vinse ancora il titolo di capocannoniere, il terzo consecutivo e questa volta con 32.5 ppg, e fece parte del Primo quintetto sia All-NBA sia All-Defensive. Guidò anche la squadra negli assist e nei recuperi e fu secondo a poca distanza da Grant nei rimbalzi. I Bulls fecero il tutto esaurito in tutte le loro gare casalinghe per la prima volta nella storia della franchigia.
Per il secondo anno consecutivo, i Bulls esordivano nei playoff contro Cleveland. Le squadre si spartirono le prime quattro partite, Chicago sprecando l’occasione di chiudere la serie sul proprio campo casalingo lasciandosi sfuggire Gara 4 per 108-105 al supplementare nonostante i 50 punti di Jordan. Il che fissò la decisiva Gara 5 del 7 maggio a Cleveland, un incontro che produsse uno dei più rimarchevoli, e spesso mostrati al replay, tiri nella storia della NBA.
“The Shot”, Il Tiro, come è noto in entrambe le città, avvenne dopo che Craig Ehlo, guardia dei Cavaliers, aveva dato alla sua squadra il vantaggio del 100-99 nei secondi di chiusura. Con soli tre secondi rimasti, Jordan prese il pallone sul lato destro e palleggiò verso la sua sinistra, nel cerchio dell’area. Saltò all’altezza della linea del tiro libero per far partire il suo jumper e Ehlo gli saltò di fronte per tentare la stoppata. Quando Jordan fu al culmine dell’elevazione, Ehlo gli si parò davanti con la mano proprio sulla palla. Allora Jordan tirò indietro il pallone e aspettò, come sospeso a mezz’aria, spostandosi tanto più lievemente alla sua sinistra, fino a che Ehlo non fu superato e incominciò a scendere. Quindi, con Ehlo sul parquet, Jordan rilasciò la palla mentre a sua volta ridiscendeva. Giusto alla sirena, la palla non trovò altro che la retina, 101-100 per i Bulls, e serie chiusa.
La reazione di Jordan negli istanti immediatamente successivi sarebbe passata alla storia. Esultando come un invasato, un “Air” al settimo cielo agitava i pugni quasi si fosse liberato di un peso più grande di lui, immortalato in migliaia di filmati proposti e riproposti in tutto il mondo, mentre lo stordito pubblico del Richfield Coliseum di Cleveland era rimasto incredulo a fissarlo. È stato quello, forse, il più grande instant replay nella storia NBA.
La scienza non sembra ancora in grado di fornire un’esauriente spiegazione del quasi soprannaturale hang time di Jordan, probabilmente si tratta “solo” di un grandissimo talento atletico che gli permette, più ancora che un’elevazione eccezionale (nella Lega ci sono stati e ci sono tuttora autentici “canguri” che saltano di più!), un assoluto controllo del corpo. Su una cosa siamo certi di poter scommettere: è pura fantascienza (cestistica) l’assurda teoria secondo la quale qualche “genio” ha attribuito il merito del suo superiore tempo di volo… all’ampiezza dei pantaloncini XXL che ha sempre portato! Neanche si trattasse del prototipo di tuta alare messo a punto dal povero Patrick De Gayardon, l’artista degli sport estremi dell’aria, negli ultimi anni della sua vita.
I Bulls andarono avanti per battere i New York Knicks in sei partite che fissarono la rivincita contro i Pistons nelle Finali di Conference. Chicago vinse due dei primi tre incontri di quella serie, ma Detroit limitò Jordan a soli otto tiri in Gara-4 andando a vincere 86-80 e ribaltando la serie. I Pistons, infatti, vinsero poi le due successive liquidando, il 31 maggio, per 94-85, Chicago alla sesta partita. La intimidatoria, soffocante difesa di Detroit, in particolare finalizzata a fermare Jordan, impedì ai Bulls di segnare 100 punti in ogni partita della serie e, con Jordan sotto i 29 punti, i Bulls erano precipitati a un quanto mai indicativo bilancio di 1-17. I Pistons arrivarono fino a vincere il loro primo campionato NBA, mentre nei Bulls scoppiava l’ennesima rivoluzione tecnica.
Il 7 luglio il proprietario Jerry Reinsdorf esonerò Collins, pare, per il modo in cui l'allenatore aveva gestito i giovani della rosa e, soprattutto – crediamo – per le reiterate campagne denigratorie nei confronti del proprio GM Jerry Krause. Peccato capitale, questo, concesso solo a sua maestà Jordan. A Collins subentrò uno dei suoi assistenti, Phil Jackson. Ne risentiremo parlare.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan
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