CAPITOLO 21 - Il nuovo re della collina (1990-91)


«È per questo che si vive, per giocare contro Michael Jordan nelle Finali» 
– Magic Johnson 

«Ecco che arriva Michael: finta a destra e va a sinistra e alza il braccio all’indietro [come per schiacciare] e poi si ferma un momento [in aria]. Con la lingua fuori, ma è ancora in aria, è ancora in aria! Io sono lì seduto in panchina che guardo e dico: “No, non può farlo! Non a noi… non a me!”. E invece sì, cambia mano e [con la sinistra] realizza in layup. Tutti eravamo sbalorditi. La gente impazziva, si strappava i capelli. Il giorno dopo andavano al lavoro e dicevano: “Cosa vi siete persi… Cosa vi siete persi!”» 
– Magic Johnson 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

A dispetto del risultato, Phil Jackson e i suoi assistenti erano usciti dai playoff del 1990 con straordinario ottimismo. Lo staff tecnico dei Bulls sapeva che la squadra sarebbe dovuta diventare più dura in difesa ed era ben consapevole delle difficoltà insite nella tanto delicata quanto necessaria operazione di cercare di convincere Jordan (senza inimicarselo) e compagni del bisogno di utilizzare il Triple-post Offense. Ma ora c’era almeno la confortante certezza di disporre delle solide fondamenta sulle quali edificare una vera formazione da titolo. 

La chiave della saldezza difensiva dei nuovi Tori ormai pronti a scendere nell’arena per il titolo era il 2.14 m Bill Cartwright, che i Bulls avevano acquistato proprio dagli eterni rivali Knicks. Fino a quel momento la sua carriera era apparsa una lunga guerra di frustranti battaglie (perse) contro gli infortuni che sembravano rincorrersi uno dopo l’altro con disarmante regolarità.

Purtroppo per Cartwright, oltre ai gravi problemi di efficienza fisica, c’era stata anche la sfortuna di dover combattere quelle battaglie contro gli incidenti proprio davanti agli spietati occhi dei media di New York. Il centro dei Knicks aveva sopportato con cristiana rassegnazione un susseguirsi ininterrotto di interventi chirurgici ad un piede e la situazione pareva così senza via d’uscita che le velenosissime “penne” del loco gli avevano affibbiato la poco esaltante etichetta di “Medical Bill” . 

Ai tempi della sua permanenza in bluarancio, il problema principale dei Knicks era sempre stato quello di non sapere come riuscire a farlo giocare assieme al loro giocatore-simbolo, Patrick Ewing. New York aveva cercato in tutti i modi di farli coesistere.

I Knicks, come ormai fa chiunque abbia in squadra due lunghi super, avevano provato a schierarli nella forse un po’ logora formula delle “Twin Towers”, le Torri Gemelle, ma ebbero scarso successo. Alla fine, i Knickerbockers si arresero e lo cedettero, in cambio dell’ottimo Oakley, ai Bulls, dove però la triste fama della sua cartella clinica lo aveva già preceduto.

Cartwright si ritrovava così a dover ricominciare da zero, e nella Windy City perché N.Y. non poteva permettersi di aspettarlo. Povero Bill, tutti lo davano per rotto e pensare che solo pochi anni prima, nei report di parecchi addetti ai lavori, era stato descritto come un potenziale «pericolo del post basso» e per giunta dotato di «gran classe».

Ciò che Chicago vedeva in lui, invece, era quella “presenza” da intimidatore difensivo di cui i Bulls avevano disperato bisogno. Ma comunque la si voglia girare, la frittata era che, all’epoca, Michael Jordan non aveva piacere (eufemismo) di averlo nel roster.

Phil Jackson, tuttavia, ne aveva intravisto il valore, fino allora inespresso, non solo come difensore ma anche come leader. Per questo e per il suo particolare modo di fare, il coach aveva preso a chiamarlo “Teacher” e quel nick, Il Professore, gli sarebbe rimasto appiccicato addosso come una seconda pelle.

Oltre che per quella sua aria austera, messa in risalto anche dal vocione cavernoso e da un pizzetto chiazzato di bianco, che metteva soggezione, compagni e avversari conoscevano Cartwright anche per un aspetto meno appariscente e più puntuto: i suoi gomiti, o meglio l’uso che ne faceva, tenendoli sempre ben alzati o larghi verso l’esterno, quando andava a rimbalzo. Le proverbiali gomitate di Cartwright non erano famigerate come lo stile di gioco dei Pistons, ma erano lì lì. 

«Bisognava stare in guardia da quelle gomitate perché potevano colpirti in qualsiasi momento» è lo spaventato ricordo che ne ha quello che allora era il centro di riserva dei Bulls Will Perdue. «In allenamento, io le prendevo continuamente ma è proprio così che Bill giocava. Gli era stato insegnato a giocare con le braccia alte e i gomiti all’infuori». Perdue però le assaggiava solo nelle partitelle in famiglia, i malcapitati avversari no: a loro toccavano quelle in gare ufficiali. Ed erano dolori, in senso metaforico e no. 

Jordan, dal canto suo, forse solo grande amico di Oakley e probabilmente anche un po’ geloso della fetta di leadership che Cartwright poteva sottrargli, non lo vedeva di buon occhio. È esperienza comune che quando si approcciano due personalità molto forti, il più delle volte il primo impatto assomigli più a uno scontro che a un incontro e questa elementare “legge naturale” non si era smentita per il duo Michael-Bill.

Tecnicamente, e quindi al di là di mere differenze caratteriali, o di frizioni nate da pregiudizi riconducibili a una reciproca scarsa conoscenza, Jordan era irritato dal fatto che certe volte il centro facesse fatica a bloccare la palla e si piazzasse in mezzo alla corsia centrale, proprio sulla strada delle entrate a canestro di Jordan. 

«Michael non conosceva davvero Bill come persona» era l’analisi del GM Jerry Krause dei problemi iniziali creatisi fra Jordan e Cartwright. «Michael faceva in modo che Bill fosse messo alla prova, lo faceva con tutti, era il suo modo di fare. Io sapevo chi era Bill ed ero certo che alla lunga si sarebbe trovato bene con Michael. Mi ricordo di aver detto a Bill: “Vedrai che succederà, ti punzecchierà. Michael ti farà impazzire”. “Non fa niente” mi rispose».

Krause fu facile profeta: duelli da western erano alle porte. «Michael ed io avemmo un problema di comprensione,» avrebbe in seguito spiegato Cartwright «come il fatto che lui volesse fare determinate cose e che io gli stessi sempre fra i piedi. Mi ci è voluto un po’ ad abituarmici e ci è voluto un po’ a lui per abituarsi a me». Parole sagge, da vero Professore. I rapporti tra i due galletti del pollaio di Chicago incominciarono ad essere un po’ più facili quando Jordan si rese conto che Cartwright avrebbe potuto diventare il collante della difesa dei Bulls, guarda caso ciò che fino a quel momento era mancato loro nella corsa al titolo. 

«Non dimenticherò mai le battaglie che dovette combattere Willis Reed contro Kareem Abdul-Jabbar per raggiungere il titolo del 1970,» avrebbe in seguito ricordato Phil Jackson, all’epoca compagno di Reed a New York «le lotte che Willis dovette sostenere contro Wilt Chamberlain sia nel ’70 sia nel ’73 .

Noi, i Knicks, dovemmo affrontare quel gigante che diceva: “Dovrai passare dalle mie parti e dovrai passare sopra di me prima di vincere il campionato”. In un modo o nell’altro, quel tipo di sacrificio andava fatto. Ecco il contributo che Bill Cartwright ha portato ai Bulls come giocatore. Era lui quello che diceva: “Dovrete passare sopra di me”». Era lui, cioè, che avrebbe dovuto compiere «quel tipo di sacrificio», per usare le parole di Jackson. 

«Bill è una persona estremamente testarda,» continuava Phil «ed è convinto che si debba arrivare a lavorare veramente duro per ottenere ciò che si vuole nella vita. Lui ci ha dato quell’attributo, quell’approccio da “Io lavorerò veramente duro per ottenere quel risultato”.

Era ostinato, ma proprio di un accanimento ostinato”. Una delle cose che più soffrivamo come squadra era che Detroit aveva sempre trovato il modo di alzare il livello di animosità di un incontro. A certi livelli, dovevi contrastarli fisicamente se volevi rimanere in partita contro di loro. Se non volevi restare in partita, allora pace: loro andavano avanti e ti battevano. Ma se volevi competere, facevi meglio a fare qualcosa fisicamente per giocare al loro livello. Bill fronteggiò i Pistons.

La constatazione che Bill faceva era la seguente: “Questo non è il modo in cui noi vogliamo giocare, questo non è il modo in cui io voglio giocare. Ma se questo è l’unico modo con cui dobbiamo ‘prenderci cura’ di questi ragazzi, allora io non ho paura a farlo. Farò vedere a quelli di Detroit che tutto questo non è più accettabile. Non accetteremo che lo facciate a noi”. Non potete immaginare quanto si sentì sollevata gente come Scottie Pippen e Horace Grant, gente che era stata costantemente assediata e continuamente sfidata da avversari più “fisici” come Dennis Rodman e Rick Mahorn». 

E perfino Sua Maestà Jordan, accortosi di avere commesso un grosso errore, anni dopo avrebbe fatto marcia indietro. «Avevo torto riguardo allo scambio Charles Oakley-Bill Cartwright del 1988», fu la sua intempestiva (10 anni dopo…) ammissione di colpa. «Oakley era un solido rimbalzista e ci dava una “presenza” fisica contro squadre come Detroit. Era giovane, altruista e lavorava duro. Aveva tutte le qualità che si vorrebbero in un compagno di squadra. Cartwright era stato infortunato per anni ed era nella fase finale della sua carriera. Io a Charles volevo bene come un fratello, ed è così tuttora, e non sopportavo l’idea di vederlo ceduto. Mi sentivo come se stessimo gettando via troppi anni in cambio di uno più vecchio che non era neanche in piena efficienza. Non sapevo niente della personalità di Bill. Avrebbe resistito contro i Pistons? Ero convinto che avessimo bisogno del tipo di durezza che ci assicurava Charles perché stavamo ancora tentando di saltare l’ostacolo Detroit. Ma quello si rivelò uno scambio importante nell’ottica del nostro cammino di squadra. Bill non sapeva come adattarsi ad un giocatore come me e io non sapevo come adattarmi a lui. Avemmo i nostri bravi problemi all’inizio. Io dovevo imparare come e dove consegnare la palla a Bill. Ci volle un po’ prima che incominciassi ad apprezzare tutto quello che Bill ci dava e quanto potesse compensare la perdita di Charles». 

La verità, come confermato dalle due versioni incrociate, era una sola e sarebbe stato lo stesso Michael a riassumerla. «Io adoravo avere Charles in squadra, ma Bill fece la differenza». Questo non vuol significare che la colpa delle ripetute eliminazioni subite da Chicago ad opera dei Pistons appartenesse a “The Oak”, anzi, La Quercia ha avuto una grande carriera ed è stato probabilmente strasottovalutato da pubblico e osservatori, ma era un’ala forte, mentre Cartwright un centro e quel tipo di centro, non una figura dominante alla Ewing, alla Olajuwon, alla David Robinson, alla O’Neal, che inevitabilmente finiscono per catalizzare su di sé l’intero peso offensivo della squadra. Cartwright, insomma, era un caratterista del parquet, una spalla ideale per quello che, vestendo uno strano costume di scena col numero “23”, era l’attore protagonista. 

Ormai era tutto pronto: c’erano il talento (Jordan, Pippen), la sostanza (Grant), l’astuzia (Paxson) e la durezza (Cartwright), sia fisica sia mentale, e un buon manipolo di specialisti. Non restava che amalgamare gli ingredienti e un lungo banchetto di vittorie sarebbe incominciato. Con il tosto (in tutti i sensi) Cartwright ad assicurare la necessaria consistenza difensiva nel “mezzo”, nel corso della stagione 1990-91 Jordan e compagni maturarono in un blocco monolitico e determinato. Sebbene i loro progressi si rivelassero talvolta frustranti per la loro lentezza e irti di difficoltà, c’era qualcosa nell’aria che faceva presagire un diverso finale di (post)stagione, più lungo… 

Michael guidò di nuovo la classifica dei marcatori con una media di 31.5 punti per gara (da aggiungere ai 6 rimbalzi e 5 assist per uscita). Un’altra chiave di lettura per una simile crescita di rendimento veniva dal duemetri Pippen. Scottie era stato tormentato dalle critiche, gran parte delle quali causate da quella terribile emicrania avuta in Gara-7 delle Finali della Eastern Conference del 1990. 

Dotatissimo swing player , giocatore capace di giocare in almeno tre, per non dire quattro, ruoli, Pippen giocò con una determinazione senza precedenti durante la corsa al titolo del ’91 restando in campo ben 3.014 minuti, raccogliendo le considerevoli medie di (quasi) 18 punti, 7 rimbalzi e 6 assist a partita.

Nessuno aspettava con più ansia di Scottie Pippen la stagione ’90-91. Con la mai digerita bocciatura di Gara-7 a bruciargli dentro, “Da Pip” schiumava voglia di rivincita. «Ci ho pensato tutta l’estate» disse riferendosi a quel maledetto mal di testa «Non ho proprio potuto dare il massimo, la scorsa stagione».

E per questo tutti, indistintamente, lo avevano massacrato. Jordan per primo. Jackson assegnò all’iperversatile Pippen maggiori responsabilità investendolo come primo portatore di palla della squadra accanto ai più affidabili tiratori John Paxson e B. J. Armstrong che si dividevano lo spot di seconda guardia accanto a Jordan. Di fatto, quindi, i Bulls si ritrovavano a impostare la manovra con un’ala piccola di ruolo, anche se è vero che qualsiasi allenatore sano di mente avrebbe fatto carte false pur di avere una point guard, “impura” finché si vuole, come Pippen a gestirgli il traffico. 

Di solito era proprio Pippen a portare su palla e a dare inizio alla ormai metabolizzata triangle offense, interpretando, pur con tutte le differenze del caso dettate dal suo straordinario talento, una sorta di riedizione della point forward che Don Nelson, quando nei primi anni ’80 allenava i Milwaukee Bucks, aveva escogitato per Paul Pressey.

Pippen rispose da par suo al “nuovo” incarico affidatogli da Jackson guidando la squadra negli assist e al contempo piazzandosi secondo nelle graduatorie per punti e per recuperi (dietro, ma va là, a Jordan) e in quella dei rimbalzi (dietro Grant). «Pippen ha compiuto il passaggio da ala al ruolo di point guard» dichiarò ai tempi Jackson. «È diventato un elemento che adesso ha in mano la palla tanto quanto Michael, ormai è divenuto una forza dominante». E, da quel “nuovo” Pippen, i Bulls sarebbero ripartiti. D’ora in poi il mal di testa sarebbe venuto a chi lo marcava. 

Altri fattori-chiave di quella squadra furono l’ala forte Grant (12.8 punti, 8.4 rimbalzi di media), la point guard Paxson (per lui 8.7 punti per gara, tutti messi a segno in sospensione e tirando con un ottimo 54.8% dal campo) e il centro Bill Cartwright (per lui 9.6 ppg da aggiungere alla sua solita, intrinseca durezza difensiva). 

Jackson fece anche un grande utilizzo della panchina, che comprendeva B.J. Armstrong, Craig Hodges, Will Perdue, Stacey King, Cliff Levingston , Scott Williams (una matricola free agent , uscita da North Carolina) e Dennis Hopson, che era arrivato da uno scambio con New Jersey, tutti pronti a dare il proprio contributo. 

Tutte le fatiche fatte fino a quel momento sfociarono in impressionanti dimostrazioni di forza sul campo. I Bulls persero le tre partite iniziali della stagione, quasi come se dovessero finire di oliare gli ultimi meccanismi, ne vinsero quattro in fila e si ritrovarono ripetutamente dentro e fuori dalla corsa al vertice. All’improvviso l’escalation: Chicago fu capace di compilare strisce vincenti di 11, 9, 7, 7 e 5 gare e di far propri ben 26 incontri casalinghi consecutivi.

La squadra dell’Illinois vinse sia con l’attacco sia con la difesa, passando dai 155 punti rifilati ai Phoenix Suns a una prestazione difensiva, in dicembre, al Chicago Stadium, che tenne i Cleveland Cavaliers a soli cinque punti in un quarto. Il 9 gennaio, in una vittoria a Philadelphia, Jordan segnò 40 punti e divenne, per rapidità, il secondo giocatore di sempre a realizzare 15.000 punti nella NBA, impresa centrata dopo sole 460 partite. Wilt Chamberlain, il primo in quella particolare graduatoria, aveva tagliato quel traguardo dopo appena 358 incontri.

In febbraio, il loro miglior mese di sempre, i Bulls marciarono con un impressionante 11-1 e il giorno 7, subito prima della pausa di metà stagione per l’All-Star Game, i Bulls sconfissero addirittura Detroit, 95-93, al Palace. Era la loro ultima fermata di un viaggio di cinque trasferte e il coronarla con una vittoria sugli odiati Pistons diede ai Bulls un’enorme iniezione di fiducia. Se mai ci fu una gara simbolo dell’avvenuto cambiamento, fu quella.

Al vecchio Stadium, il pubblico era solito presentare un’atmosferina che nessun avversario aveva voglia di affrontare. I Bulls vi persero per mano di Boston la terza partita della stagione, ma poi non avrebbero più subito sconfitte in casa fino a quando non fu Houston a fermarli, il 25 marzo, dopo un’incredibile striscia di 30 vittorie casalinghe consecutive. Il 21 aprile, in una vittoria che fece da preludio alle cose che sarebbero accadute, i Bulls sconfissero Detroit 108-100 e chiusero la regular season con 11 vittorie in più degli stessi Pistons nella classifica della Central Division.

I Tori vinsero anche la Eastern Conference con un record di 61-21, il migliore nella storia della franchigia, e Jordan, alla rispettabile media di 31.5 punti per gara, si meritò il suo quinto titolo filato di capocannoniere al quale si aggiunse, durante i playoff, la seconda nomina come MVP della Lega.

I Bulls, tuttavia, avevano già avuto precedenti (negative) esperienze inseguendo tutti questi specchietti per le allodole; gli unici premi che volevano – e che contavano – dovevano arrivare alla fine dei playoff, non durante. E questa volta, furono puntuali. 

Chicago esordì nella postseason contro i Knicks, che nel primo incontro furono distrutti con lo scarto-record di 41 punti, 126-85. Sull’onda di quel successo, i Bulls finirono addirittura per “spazzarli” 3-0. Poi toccò a Charles Barkley e ai suoi Philadelphia Sixers cadere, per 4-1, fissando la sola rivincita che i Bulls realmente desiderassero: i Pistons, nelle Finali della Eastern Conference. 

I Bulls martellarono Detroit, che annaspava per via degli innumerevoli infortuni, in tre partite consecutive: i Pistons si lasciarono sfuggire i primi due incontri a Chicago, 94-83 e 105-97, poi, nonostante i quattro giorni di riposo e il ritorno sul loro campo di casa, subirono anche il pesante verdetto (113-107) di Gara-3. Jordan, alla vigilia di Gara-4, in programma il 27 maggio, aveva predetto un “cappotto” e Isiah Thomas, la guardia di Detroit con cui non correva buon sangue dal lontano All-Star Game dell’85, aveva giurato che non sarebbe accaduto. «Non succederà» fu il grido di guerra dell’infuriato Thomas. Successe, invece. Eccome.

La quarta partita, stranamente, si sarebbe rivelata fin dall’avvio un mismatch , con i Bulls a spegnere in fretta gli ardori dei focosi Pistons. Alla fine, il sonante 115-94 non diede adito a dubbi: i Bad Boys, questa volta, non solo erano stati finalmente eliminati ma erano stati addirittura surclassati. I Ragazzacci di "Motown" avevano perso non solo la partita e la serie ma anche la faccia. Forse perché non avevano digerito la profezia di Michael del giorno prima, pochi attimi prima della sirena finale, Capitan Thomas e il resto del quintetto dei Pistons, imbestialiti, si lasciarono andare ad un gesto davvero poco edificante: i giocatori, imbronciati, abbandonarono il campo passando davanti alla panchina dei Bulls senza la consueta stretta di mano di congratulazioni e prima che il tempo sul cronometro fosse scaduto.

L’affronto, catturato in diretta dalla televisione nazionale, oltre a fare arrabbiare (grosso eufemismo) Jordan e migliaia di tifosi di Chicago, spinse alle stelle la considerazione del pubblico nei confronti dei Bulls. Loro erano i Bravi Ragazzi, i Buoni che si erano aperti un varco nel territorio dei Cattivi, i Bad Boys appunto. La gente non chiedeva altro. 

«Io non provo altro che disprezzo e disgusto per l’intera struttura organizzativa dei Pistons» fu la piccatissima, ancorché comprensibile reazione del proprietario dei Bulls Jerry Reinsdorf. «Finalmente, David Stern ha ceduto alle pressioni e ha apportato quelle variazioni al regolamento che potranno mettere al bando il loro stile di gioco. Quello non era basket. Era criminalità, teppismo. Ecco una delle cose che ci ha reso così popolari. Noi eravamo i cavalieri senza macchia e senza paura; noi eravamo i buoni. Abbiamo battuto i Bad Boys 4-0 e loro, mettendo il broncio, hanno lasciato il campo furibondi, e in che modo, poi, l’hanno fatto! Io ricordo di aver sentito dire, all’epoca, che quello era stato il trionfo del bene sul male. Loro erano odiati da tutti perché avevano usato quello stile per sconfiggere i Celtics prima e i Lakers poi, quelle che per anni erano state le squadre più popolari della NBA». 

Lo stesso Reinsdorf, forse, si fece prendere un po’ la mano (ehm) quando si riferì al risultato finale come a «un trionfo del bene sul male», ma stavolta i Ragazzacci l’avevano fatta davvero grossa. Forse troppo. 

Intanto, con un bilancio finale di 63-19, erano stati i Portland Trail Blazers a dettare legge in regular season nella Western Conference, ma ancora una volta nei playoff erano sopravvissuti Magic Johnson e i suoi Lakers, che furono capaci di buttare fuori Portland nella finale della propria conference vincendo 4-2.

Per molti osservatori, le Finali del 1991 apparivano come una sfida da sogno: Jordan e i Bulls contro Magic e i Lakers. 


Manifest Destiny: Showtime vs. Jordanball 

Nel ’90, gli organizzatori se n’erano usciti con l’idea di una partita-esibizione di uno-contro-uno tra Magic e Michael da allestirsi per la pay-per-view television . Ma la NBA aveva posto il veto alla proposta – che avrebbe fruttato dei gran quattrini ai partecipanti – dopo che Isiah Thomas, il presidente dell’Associazione giocatori, si era opposto. I motivi? Quelli “giusti” potevano essere il creare un pericoloso precedente che potesse aprire la strada ad altre iniziative del genere; il senso di tutela nei confronti della categoria, soprattutto per le stelle meno luminose del firmamento della Lega; il diritto-dovere a non trasformare uno sport di squadra in un baraccone itinerante di esibizioni individuali, e così via. Il motivo “vero”? Quello lo aveva intuito MJ. 

Jordan, come è ovvio, si trovò in forte disaccordo sull’intervento di Thomas, secondo “Air” invidioso perché nessuno avrebbe pagato, e soprattutto quelle cifre, per vedere giocare lui. La guardia di Detroit non rilasciò alcuna dichiarazione in risposta ai commenti di Jordan. Quella disputa non fu altro che un’ulteriore spina conficcata nel fianco già da tempo ferito dei loro rapporti. Magic affermò che gli sarebbe piaciuto molto giocare quella sfida, ma anche che avrebbe declinato l’invito per non essere coinvolto nello screzio tra i due. «È affar loro», fu il suo lapidario commento. Johnson, in ogni modo, si divertì un po’ speculando su quell’uscita. Jack Nicholson, il supertifoso dei Lakers, asserì che se fosse stato uno scommettitore, avrebbe puntato i suoi soldi su Jordan, la prima star a livello individuale di tutta la pallacanestro, se opposto a Johnson, il non plus ultra del giocatore di squadra del basket pro. Johnson, comunque, non gli avrebbe concesso nulla. «Sono stato a giocare uno-contro-uno per tutta la vita», dichiarò orgoglioso Magic. «È così che mi guadagno da vivere». 

Alla richiesta di quale fosse il suo miglior movimento da uno-contro-uno, lo stesso Johnson rispose da par suo: «Io non ce l’ho un miglior movimento. Il mio miglior movimento è quello di vincere, e basta. Io ho sempre fatto quello che dovevo fare per vincere». 

Gli appassionati di basket di ogni dove erano delusi che quel fantastico match uno-contro-uno non si fosse tenuto, disse Magic. «Un sacco di gente voleva vederlo. Michael è veramente contrariato. La sua gente lo è. Tutti noi lo siamo. Era un qualcosa per cui tutti non vedevamo l’ora». Era vero, tutti volevano vederlo, anche se la sensazione da baraccone, da uomo che corre contro un cavallo o contro un veicolo a motore o cose del genere, in queste situazioni, è sempre molto difficile da scacciar via. 

Anche se le Finali del 1991 non sarebbero state una sfida di uno-contro-uno tra le due superstar, tuttavia avrebbero assicurato una grande opportunità per vedere i due campioni battagliare l’uno contro l’altro. Parecchi osservatori, tra i quali l’ex coach dei Lakers Pat Riley, immaginavano che l’esperienza dei Lakers li rendesse una puntata sicura. Dal 1980 Los Angeles era alla sua nona presenza nelle Finali, ed aveva cinque titoli che facevano bella mostra di sé. Questo, secondo i sostenitori delle teorie rileyiane, doveva certo contare qualcosa. 

«I Lakers hanno il vantaggio di avere più esperienza di noi » dichiarò Pippen all’apertura della serie al Chicago Stadium «ma anche noi ne abbiamo abbastanza per vincere». 

Fatto altrettanto importante, James Worthy dei Lakers aveva una caviglia malmessa per via di una slogatura, un problema che gli portava via parecchia della sua mobilità, un’arma pressoché irresistibile. Qualche addetto ai lavori era convinto, a ragione, che l’infortunio di Worthy sarebbe costato ai Lakers la serie. Altri credevano che senza Abdul-Jabbar, ritiratosi dopo la stagione 1989 e sostituito da Vlade Divac, Los Angeles semplicemente non fosse più così forte come squadra “da playoff”, una fase della stagione che notoriamente ha “regole” e modi di giocare a se stanti, soprattutto in the paint , nell’area “verniciata”. 

Gara-1, tuttavia, sembrò rispecchiare il pronostico di Riley. I Lakers vinsero 93-91 con una tripla del centro Sam Perkins a 14” dal termine. I Bulls servirono Jordan, ma il suo jumper cinque metri, a 4 secondi dalla fine, che sembrò quasi entrare a canestro, poi invece ne rimbalzò fuori. Sembrava che anche Jordan fosse umano, dopo tutto, e che l’esperienza dei Lakers potesse davvero fare la differenza. I Bulls, tuttavia, non avevano la minima intenzione di pensare in maniera tradizionale e spazzarono via i Lakers in Gara-2, 107-86. I cinque titolari di Chicago tirarono meglio del 73 percento dal campo, con Paxson che segnò 16 punti trasformando un “pulitissimo” otto su otto. «Ma Paxson non sbaglia mai?» si domandò l’incredulo Sam Perkins dei Lakers. 

Paxson rispose con un’alzata di spalle alle domande dei giornalisti e dichiarò che il suo compito era proprio quello di segnare i jumper smarcati. «Quando trovo il mio ritmo, mi sento come se sapessi di metterli dentro tutti». Anche lo stesso Jordan aveva colpito duro con un ottimo 15 su 18 dal campo per un totale di 33 punti. Seppur sconfitti, però, i Lakers non erano dispiaciuti più di tanto perché erano riusciti a strappare una vittoria al Chicago Stadium ed erano diretti verso casa per tre partite consecutive al Forum. La pressione, adesso, era tutta su Chicago.

I Bulls raccolsero la sfida in Gara-3. Jordan infilò un jumper a 3.4 secondi dallo scadere, mandando così l’incontro al supplementare. Lì, i Bulls scapparono via con otto punti filati cogliendo una vittoria per 104-96 ed il vantaggio di 2-1 nella serie. Jordan era su di giri, ma si rifiutava di soffermarsi su quello che per lui era solo un successo di tappa. I Lakers avevano un mucchio di esperienza nelle rimonte, dichiarò. Eppure l’esperienza si dimostrò moneta non sufficiente per battere le giovani leve dei Bulls e la loro feroce determinazione.

Per Gara-4, l’arma di Chicago sarebbe stata la difesa. I Bulls infastidirono tanto i Lakers da farli tirare col 37 percento dal campo. Chicago vinse, 97-82, e il totale punti dei Lakers fu il loro più basso da quando, nel 1954, era stato adottato il cronometro per il tiro. I gialloviola riuscirono ad accumulare un totale di 30 punti nel corso del secondo e del terzo quarto. Perkins, simbolo di tanta impotenza offensiva, aveva messo dentro solo uno dei suoi 15 tiri dal campo. 

«Non ho mai neanche sognato che sarebbe potuto succedere questo», dichiarò Magic. Ma i Bulls sì. Improvvisamente, si erano ritrovati al limite dell’inverosimile. «Non deve sorprendere il modo in cui difendevano» avrebbe dichiarato dopo la gara il coach dei Lakers Mike Dunleavy. «Loro sono molto atletici e intelligenti».  E anche molto “caldi”. 

Alla vigilia di Gara-5, l’11 giugno, Jordan riconobbe pubblicamente il debito che l’intera squadra, ma soprattutto lui in prima persona, aveva verso Bill Cartwright. «Lui ci ha dato una sponda lì in mezzo» si cosparse il capo di cenere “Air”. «È stato una solida presenza per noi... Questo ragazzo si è rivelato come uno dei fattori più importanti per questa società e ha sorpreso molti di quelli che stavano già qui e che ora giocano con lui». 

Venuto a conoscenza dei commenti di Jordan, l’ex “Medical Bill” replicò: «Queste cose non sono importanti per me. Io ho sempre pensato che quello che si dà si riceve. Quello che conta veramente per me è vincere il campionato». 

«Eravamo andati sopra 3-1 ed avevamo avuto una lunga sosta, da domenica a mercoledì, prima di Gara-5», ricorda il magazziniere John Ligmanowski. «Quei tre giorni sembravano eterni. Prima ancora che vincessimo, Michael era salito sul pullman e aveva detto: “Ehi, come ci si sente da campioni del mondo? Lui lo sapeva. La sua era una gran bella sensazione, ma noi non ne potevamo più di aspettare, non vedevamo l’ora di toglierci il pensiero». 

Come aveva predetto Jordan, i Bulls fecero perno sul loro attacco per aggiudicarsi il titolo in quella Gara-5, conclusasi poi 108-101. Pippen, flagellato l’anno prima, fu l’high scorer dei suoi con 32 punti e Paxson, sul filo di lana, assestò l’ultimo colpo agli agonizzanti Lakers, infilando cinque canestri negli ultimi quattro minuti, per chiudere a quota 20 e sigillare la vittoria. Non c’era da stupirsi visto che ormai c’era uno “schema” fisso quale quello di Michael che fingeva la penetrazione, attirava su di sé la difesa e poi “scaricava” fuori la palla a Paxson, che, liberissimo, infilava con regolarità disarmante. 

Nel finimondo del Forum, susseguente alla vittoria per 108-101 dei Bulls, il supertifoso eccellente dei Lakers, l’attore Jack Nicholson, abbracciò Phil Jackson per felicitarsi e Magic Johnson andò a snidare Jordan per offrirgli le proprie congratulazioni. «Ho visto le lacrime nei suoi occhi», riferì Johnson. «Gli ho detto: “Hai dimostrato che si erano sbagliati tutti. Tu sei tanto vincente quanto grande individualmente». Parole suffragate dai fatti: Michael era stato votato all’unanimità MVP delle Finali, e come avrebbe potuto essere altrimenti? 

Mentre passava a forza in mezzo alla folla verso gli spogliatoi, Jordan piangeva apertamente. «Non ho mai perso la speranza» disse Michael faticando a trattenere la commozione al fianco di suo padre James e di sua moglie Juanita. «Sono felicissimo per la mia famiglia, per questa squadra e per questa franchigia. È qualcosa per cui ho lavorato sette anni e ringrazio Dio per il talento e l’opportunità che mi ha dato».

E mentre stringeva a sé il Larry O’Brien Trophy , che non aveva più lasciato neanche per un istante, con la voce rotta dal pianto dichiarò all’inviato della NBC: «Questo è il giorno più bello!». Era stato un lungo viaggio, ma Michael era arrivato dove voleva: in cima al mondo. Per Jordan, le lacrime scorrevano ormai liberamente. «Non sono mai stato così emozionato in pubblico» farfugliò fra i singhiozzi. «Quando arrivai qui, incominciammo da zero. Avevo giurato che avremmo fatto i playoff tutti gli anni e ogni anno ci avvicinavamo sempre di più. Ho sempre avuto fiducia che avrei ottenuto questo Anello, un giorno». 

Sia Jackson sia Jordan furono d’accordo che la chiave dell’incontro era stato John Paxson, puntualissimo nell’infilare i tiri da smarcato. «Ecco perché l’ho sempre voluto nelle mie squadre e perché ho voluto che restasse», dichiarò un Jordan quanto mai prodigo di elogi. 

«Era stato drammatico, come una guerra lampo» fu il commento di Jordan. «Dopo, c’era stata solo tanta gioia. C’era Michael che teneva in mano il trofeo e piangeva. Per me, era doppiamente speciale perché il Forum era dove avevo vinto il campionato da giocatore quasi vent’anni prima, nel 1973. Quello era lo stesso spogliatoio dove i Knicks avevano festeggiato. Con i Bulls, ciò che lo rese speciale fu il modo in cui lo vincemmo, spartendoci le nostre prime due partite in casa per poi “spazzarne” tre in trasferta. Fu davvero speciale». 

I Bulls fecero ritorno a Chicago e celebrarono la loro vittoria in campionato a Grant Park, davanti ad una folla stimata tra le 500.000 e il milione di persone. «Abbiamo incominciato dal fondo», dichiarò Jordan alla massa in delirio, «ed è stato un duro lavoro compiere il nostro cammino verso il vertice. Ma ce l’abbiamo fatta». 

Jordan e i Bulls avevano incominciato il loro cammino assieme nel 1984, contando solo su una fervente conventicola di circa 6000 “fedeli”. Strada facendo, il loro “verbo” aveva raggiunto milioni di tifosi, tutti conquistati da quel magnifico spettacolo itinerante denominato “Air Show”. E ora, finalmente, era giunto il momento di passare alla cassa. 

Michael era pronto per salire sul gradino più alto della scala NBA, non solo come membro e capitano della squadra campione ma anche come grande di tutti i tempi nel senso più pieno dell’espressione: non solo “grande” e basta ma anche “vincente”, che è comunque un qualcosa di diverso sebbene a volte la linea che funge da confine tra i due concetti sia così sottile, quasi invisibile. «Avevo già vinto titoli di capocannoniere e premi di Miglior giocatore,» avrebbe ricordato Jordan sette anni dopo quel primo Anello «ma l’unico modo che avevo per entrare nella categoria dei Larry Bird e dei Magic Johnson era quello di vincere dei campionati. Ecco perché quel nostro primo campionato fu ancora un po’ più dolce. Non c’era verso che arrivassi a far parte della loro cerchia senza vincere un campionato quando almeno uno di loro era ancora all’apice. Magic e Larry erano stati i re degli anni ’80 in termini di vittorie in campionato.

Nel 1991, la sfida era proprio lì di fronte a me. Magic era considerato il non plus ultra del perfetto giocatore di squadra, colui che rendeva migliori tutti quelli che gli stavano attorno. Io non ero visto come un giocatore che migliorava tutti gli altri e sapevo che non lo sarei stato fino a che a non avessimo vinto un titolo. Patrick Ewing, Charles Barkley, Karl Malone e John Stockton? Non volevo che Magic si ritirasse prima che noi vincessimo un campionato proprio come loro non volevano che mi ritirassi io prima che riuscissero a vincerne uno. Volevano superare me proprio come io volevo superare Magic. Battere Magic aggiunse credibilità a quel primo titolo. Barkley, Malone, Ewing e Stockton non volevano che le loro [eventuali] vittorie in campionato fossero offuscate dalla mia assenza. Guardate Houston. I Rockets vinsero due titoli uno dietro l’altro e devono ancora stare a sentire gente che discute sul fatto che forse non avrebbero mai vinto niente se io avessi giocato. Non è bello, ma è così che funziona. E non è diverso per me. Ecco perché fu così importante superare l’esame di Magic e dei Lakers per il nostro primo campionato. Superando i Lakers nessuno avrebbe potuto dire nulla. Se entrambi [Magic e Bird, N.d.A.] se ne fossero andati prima che incominciassimo a vincere campionati sono certo che ci sarebbero state delle chiacchiere su come non fossi stato capace di battere Magic e Larry nel loro prime. Forse non dopo che avevamo vinto sei campionati, ma a quei tempi? Sì».

Difficile dargli torto, ma il fato aveva fatto in modo che Michael avesse la possibilità di misurarsi con Magic, un regalo che Jordan aveva particolarmente gradito. La sfida nella sfida aveva visto solo vincitori: nelle cinque gare disputate, Jordan aveva giocato 8 minuti in meno di Magic (220 contro 228); Michael aveva tirato nettamente meglio avendo il 55.5% (63/113) dal campo contro il 43.1% (25/58) di Earvin, ma all’asso dei Bulls era andata peggio dalla lunetta, dove il suo pur ottimo 84.8% (28/33) era stato superato dal 95% (41/39) del quasi infallibile Johnson; oltre ovviamente agli assist (62 a 37), Magic aveva prevalso anche a rimbalzo (40 a 33) ma Jordan si era rifatto nelle categorie dei recuperi (14 contro 6) e delle stoppate (7 a 0); i punti (156 a 93) non ingannino, perché le medie, tenuto conto dei ruoli e delle caratteristiche molto diverse dei due giocatori, erano state molto alte (31.2, con un high di 36 per “Air” e 18.6 con un high di 22 per l’ex “Buck”). Che duello… 

Un altro importante regalo il destino lo aveva riservato invece a tutti noi un centinaio esatto di anni prima: nel 1891, James Naismith aveva stabilito l’altezza del bersaglio a 10 piedi (un piede è 30.84 cm, ecco spiegato perché il canestro è alla “magica” quota di… 3.05 m) e ora, un secolo dopo, nel 1991, l’avvincente sfida rimaneva la stessa: infilare un pallone in un canestro. Ma il cesto non era più quello di pesche.

Michael Jordan ed i Chicago Bulls, neocampioni NBA, erano stati capaci di elevare le possibilità di quel semplice gioco al di là di ogni immaginazione. Quel semplice gioco che era nato per far fare movimento agli studenti durante le rigide giornate invernali del Massachusetts era diventato, grazie alle incredibili doti di quegli straordinari interpreti, una forma d’arte. 

Il re aveva finalmente raggiunto la cima della collina. Ora si trattava di non scendere. Per difenderla.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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