CAPITOLO 25 - Ciao, Michaelangelo


“Michael, ora hai a disposizione le due cose più terribili al mondo: tutto il denaro e il tempo che vuoi.”
- B.J. Armstrong

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air"Jordan
© Rainbow Sports Books

“Ancora prima delle Olimpiadi del 1992 sapevo che la stagione successiva per me sarebbe stata l'ultima. Ne avevo già parlato con mio padre e lui era a conoscenza di quanto fossi mentalmente svuotato. Avevo bisogno di una pausa e ho preso in considerazione l'idea di lasciare subito dopo il nostro secondo titolo. La sola ragione per cui sono tornato era vincere il terzo campionato consecutivo, cosa che né Larry né Magic avevano fatto. 

Sono certo che nessuno lo sapesse, ma Dean Smith venne a Chicago per una partita di playoff del 1993. Avevamo parlato per tutta la stagione del fatto che avrei lasciato il basket. 

Fino a quel punto non mi aveva mai visto dal vivo giocare una partita NBA. Dopo una lunga chiacchierata in aprile, lui mi chiese se quella era la fine e io gli risposi: 'Sì, lo è'. Avevo bisogno di un cambiamento perché non avevo più le motivazioni che mi avevano portato fino a quel punto della mia carriera. Avrei parlato con Coach Smith tutte le altre settimane. 

Lo faccio tuttora. Parliamo della vita, della famiglia, di come andava con la squadra, di come mi sentivo mentalmente e fisicamente. Man mano che la stagione proseguiva sapevo che lui riusciva ad avvertire la mia voglia di lasciare. Non ha mai cercato di farmelo dire, voleva solo capire dove fossi con la testa e come ero arrivato a quella decisione. Mi disse: “È stata una grande corsa, hai raggiunto tanto e hai dovuto sopportare pressioni fortissime. Forse ti serve una pausa”. 

Lui ha sempre avuto quell'approccio. Non ha mai cercato di cambiare le idee di una persona. Anche quando volevo lasciare l'università, Dean non mi ha mai detto di restare nonostante il fatto che la mia partenza avrebbe avuto un certo impatto. Sapeva che ero mentalmente esausto. Avevamo vinto due titoli uno dietro l’altro, il mio tempo libero tra una stagione e l’altra era stato eliminato dalle Olimpiadi e la gente cominciava a bacchettarmi come persona. 

C'erano state anche un sacco di altre cose che stavano succedendo con la squadra che mi dicevano che era ora di cambiare. A tutti piaceva trovarsi in cima alla collina ma qualcuno incominciava a prendere delle scorciatoie. Era diventato un fardello talmente incredibile rispondere continuamente alle critiche, alle domande sul contratto di Horace e sopportare tutti quei tagli tra i giocatori. Non volevo nessun lungo addio e certamente non volevo una cerimonia lunga una stagione. Per l'inizio dei playoff 1993 avevo preso la mia decisione. Era il momento giusto. Lo sapevo io, lo sapeva mio padre e lo sapeva Dean. Nessun altro ne sapeva un accidente”.

Questo il Jordan-pensiero meno ufficiale, quello non da conferenza stampa, sui suoi propositi di ritiro, o meglio sui veri tempi della loro genesi. Per tutto il mondo, invece, ci sarebbero stati invece un palco, una data e un’ora istituzionali. 

Il 6 ottobre 1993 Jordan,  all'apice della carriera, annunciava, a soli trent’anni e con  ilun fisico più integro che mai, il suo ritiro dall’attività. In conferenza stampa, le sue parole suonavano metalliche, sembrava impossibile ma era tutto vero: “Ho perso le motivazioni, la voglia di dimostrare qualcosa. Quindi è giunto il momento di allontanarmi dal mondo del basket”. Le reazioni in tutto il mondo non possono qui essere riassunte e descritte in poche righe. In Romania la tv di Stato ha trasmesso uno special a lui dedicato. La radio israeliana ha trasmesso in diretta la sua conferenza stampa. 

Il Chicago Sun-Times titolava a tutta pagina: “Say It Ain't So, Mike” (Dicci che non è vero, Mike). mentre Sports Illustrated aveva in copertina, sullo sfondo, un'immagine di Michael di spalle che si stava allontanando, e il titolo, semplice ed efficace come sempre, che campeggiava a mezza pagina: “Why?” (Perché?). Mike tacque. Nell'ambiente le reazioni furono le più disparate. Phil Jackson, quello che più di tutti era stato il suo allenatore, la buttò sull’arte: “Gli appassionati di basket lasciano che Michelangelo se ne vada mentre è ancora un artista immenso”; l'amico di tante battaglie, Charles Barkley, castigato di brutto in Finale l'estate appena trascorsa, la prendeva invece come un fatto personale: “La cosa che più mi dispiace è che pensavamo di ritirarci insieme. E Shaquille O’Neal, l'uomo destinato (per ora solo dai vertici della NBA) a raccoglierne il testimone gli tributava il doveroso omaggio: “La Lega ne sentirà la mancanza e io sono onorato di aver giocato contro di lui”. 



Da quando i Bulls avevano vinto il loro terzo titolo consecutivo, nel giugno di quello stesso anno, la vita e l’intero mondo di Michael erano stati sconvolti, squassati. Irrecuperabilmente scosso dal tragico e assolutamente privo di senso assassinio di suo padre, avvenuto durante l'estate, Michael era stanco. Un giorno, all'inizio dell'autunno 1993, poco prima dell'apertura della nuova stagione NBA, Michael si era presentato al suo allenatore, che era (è) più che un semplice coach e gli aveva chiesto che cosa mai potesse ancora avere da dimostrare, da provare o da provarsi. “Chiesi a Phil Jackson: Che stimoli puoi darmi l'anno prossimo?”. Jackson, che certo aveva mangiato la foglia, lì per lì non rispose a tono. Ci pensò un po', farfugliò qualcosa poi ammise di non sapere che cosa rispondere. Una non risposta fu molto di più di una qualsiasi risposta per MJ, che disse semplicemente: “È tutto ci che avevo bisogno di sentire”. 

Ma la decisione, di fatto, era già stata presa e aveva radici lontane. Durante la stagione Michael ricevette una visita che avrebbe segnato il proseguo immediato della sua vita. "Mio padre venne da me e si fermò una settimana - raccontò in seguito MJ - Parlammo approfonditamente della mia possibilità di lasciare il basket”. Una bomba. Che per non esplose. Jordan si tenne tutto dentro, pass più o meno indenne in mezzo alle tempeste di quell’annata difficilissima, vinse il suo terzo Anello consecutivo e, tanto per ammazzare il tempo, piazzò un quarantello a partita nella serie finale (nuovo record NBA) e poi, finalmente, si fermò a riflettere: “Dopo aver vinto il campionato, mi sono seduto tranquillo a ripensare alla stagione passata, agli anni di basket, alla mia vita e a quella conversazione con mio padre. Ho pensato che fosse una buona occasione per ritirarmi e per dedicarmi ad altro. Mi ero goduto ogni singolo momento, ma sentivo che era stata l’ultima partita. Non lo sapeva nessuno, tranne mio padre e me”. 

"Un paio di settimane dopo la nostra terza vittoria in campionato - racconterà Michael cinque anni dopo - sapevo di essere arrivato in fondo. Jerry Reinsdorf e David Falk, a furia di parlare, mi convinsero a prendermi tutta l’estate per pensare a cosa volevo fare. Ma io sapevo che la morte di mio padre e tutto quello che ne era seguito, gli attacchi alla mia persona e alla mia famiglia, l’idea che io fossi a tutti i costi da condannare o che le scommesse avessero un ruolo importante nella mia vita contribuirono solamente a confermare ci che ormai sapevo da mesi: avevo bisogno di un break. Ai primi di settembre mi incontrai con Phil nel suo ufficio al Berto Center. Ci ero stato molte volte in passato e sapevo che non ci sarei stato tante altre volte in futuro. Non mi ci volle molto. Gli chiesi soltanto di darmi un motivo per continuare a giocare. Phil mi guardò per un secondo o due e poi incominci a parlarmi di che grande dono di Dio io fossi dotato e che avevo la responsabilità di impiegare quel dono a beneficio degli altri. Io risposi che capivo e condividevo il suo ragionamento. Ma a un certo punto, nel tempo, mi sarei dovuto ritirare comunque. Che differenza avrebbe fatto se quel momento sarebbe stato allora o di lì a due anni? Quel mio dono mi sarebbe stato tolto prima o poi, che mi piacesse o no. Sarebbero bastati l’età e il semplice trascorrere del tempo. Phil mi guardò e provò a buttare lì un altro paio di argomentazioni, ma in quel preciso momento seppi che cosa avrei fatto. Phil, semplicemente, non era riuscito a tirar fuori una buona ragione per farmi continuare a giocare. E neanch’io ne avevo una. Ne abbiamo parlato, abbiamo cercato di trovare nuovi stimoli insieme ma non siamo arrivati a niente”. 

Phil Jackson avrebbe capito. Michael se ne era già andato da un pezzo e il bello è che lui non riusciva a sentirsi triste perché sapeva che se un giocatore non c’è con la testa è meglio che smetta. Questo per un qualsiasi giocatore, figuriamoci per il giocatore. Che senso avrebbe avuto, per Michael, la persona, e per Jordan, il giocatore, presentarsi ai nastri di partenza della stagione 1993/94 sentendosi come si sentiva? Michael non sarebbe stato più Jordan. “Michael era convinto che, essendo demotivato, senza più quella voglia di giocare a basket e non divertendosi più come prima, avrebbe perso il suo talento” aveva intuito Phil. 

“Lascio perché non ho più nulla da dimostrare e ormai lo stress è più forte di qualsiasi motivazione”, erano state le parole di commiato di Michael. 

Ma perché Jordan avvertiva di non aver più nulla per cui battersi sul parquet? È vero, aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, ma non aveva forse sempre sostenuto lui per primo che la sfida delle sfide era restare in cima alla collina, una volta raggiunta? Non era abbastanza stimolante? La verità era un’altra. Anzi, le verità erano altre. 

Riavvolgiamo per un momento il nastro degli ultimi mesi non solo della carriera cestistica di Michael Jordan ma dell’intera sua vita. Michael era stanco. Aveva vinto e convinto, certo, ma ormai il suo stesso personaggio gli era scappato di mano, la sua fama era giunta a un punto tale da soffocarlo essa stessa. Il libro The Jordan Rules, scritto dal giornalista del Chicago Tribune Sam Smith, checché ne avessero detto i personaggi più o meno coinvolti, aveva creato fratture insanabili nello spogliatoio e gli aveva schizzato addosso delle macchie di fango che, sulla sua immagine sempre inamidata come le sue camicie, risaltavano anche di più. La stampa lo assediava anche se andava al bagno, in seguito ai suoi presunti, mai accertati completamente ma da lui stesso definiti “errori”, ovvero i guai con il gioco, per esempio le scappatelle ai casino di Atlantic City (come in quella famosa sera prima di una partita di playoff a New York) o di Las Vegas. Nel libro Michael & Me. Our Gambling Addiction: My Cry For Help! (Io & Michael. Il nostro vizio del gioco, il mio grido d’aiuto), che fece tanto clamore durante le Finali NBA '93, si raccontava di come un personaggio equivoco e suo ex amico, tale Richard Esquinas, avanzasse da MJ paurose cifre accumulate per debiti di gioco (pare 1,25 milioni di dollari in un anno!). Secondo quanto riportato nel volume, Michael, scommettendo sulle singole buche dei percorsi da golf e continuando a perdere, nel tentativo di rifarsi accumulava passivi sempre maggiori. In seguito, Jordan avrebbe smentito l’entità di quelle cifre ma non negò che il gioco d’azzardo e le scommesse in genere fossero una sua grande passione. “Non ho il vizio del gioco e con i miei soldi faccio quello che mi pare” dichiarò. Michael poi si disse pentito di quelle parole, ma la frittata era fatta. 

La NBA nel frattempo decideva di far scattare le indagini, sia per salvaguardare la propria integrità ed immagine, sempre importantissime nella terra del business, ma anche per capire se davvero Michael avesse la patologica dipendenza che hanno le persone malate di gioco d’azzardo. 

E poi, unica cosa veramente importante, la tragedia umana che aveva squassato, com’è naturale, il cuore e la mente di Michael va considerata come la ragione fondamentale del suo ritiro. Un paio di balordi gli avevano barbaramente ammazzato il padre. E per cosa, poi? Per derubarlo di quello che aveva e magari portargli via l’auto, quella stessa macchina, una Lexus 400, sul cui sedile anteriore papà James si era addormentato, parcheggiata in una piazzola di sosta lungo la Interstate 95, un’autostrada del South Carolina, poco distante dal parcheggio di un motel, per riposarsi un po’ mentre faceva ritorno verso casa, nel North Carolina. I due rapinatori si erano spaventati, e, presi dal panico, avevano commesso l’irreparabile: prima gli avevano sparato e poi lo avevano derubato. Solo dopo l’omicidio si accorsero di aver ucciso un certo James Jordan, il genitore di Michael Jordan. 

Qualcuno arrivò addirittura a sostenere che l’omicidio fosse frutto di un complotto, una sorta di vendetta (diretta, più che trasversale) per non meglio precisati “debiti di gioco”. Pure speculazioni su ipotesi del tutto infondate. 

Un’altra voce che si sparse allora fu che Jordan, ritirandosi, avrebbe evitato la sicura, imminente squalifica che gli avrebbe comminato la NBA, una volta terminate le proprie indagini sulle presunte scommesse di Jordan sul golf. Puntuale come un tuono dopo il fulmine, la smentita della Lega: prima tramite comunicato stampa ufficiale in cui si attestava che “La NBA si considera soddisfatta di quanto emerso [dalle indagini], Jordan non ha violato nessuna regola e la Lega non può certo impedire ai propri giocatori di andare al casinò”.Poi, direttamente per voce del suo Commissioner, David Stern, il quale assicurava che “La NBA ha proseguito le sue indagini e ha accertato che non c’è stato niente di sospetto”. 

Ma, oltre al fatto che Jordan aveva già dimostrato tutto il dimostrabile per un giocatore di basket, va ricordata la sempre più insostenibile pressione che gravava su di lui e che ormai non lo faceva essere più una persona. MJ davvero non ce la faceva più. L’uomo Michael non poteva più vivere così. Nessuno potrebbe farlo. Aveva bisogno di staccare, ma non nel solito senso di mollare tutto per un po’ per poi, poco dopo, ricominciare a sentire la mancanza di tutto, anche dello stress. Lui aveva davvero bisogno di tornare ad avere una vita. Di sicuro non normale, trattandosi di Michael Jordan, ma comunque un’esistenza che gli consentisse almeno di essere vissuta. Michael era stanco. 


Il riposo (attivo) del guerriero 

MJ si ritira dal basket, ma il solo pensare che la sua nuova condizione lo avrebbe visto sedersi e tirare il fiato dopo tutto quello che era successo, significa non aver capito niente di lui, come persona ma soprattutto come competitore implacabile. Mentre passano i primi mesi con Jordan fuori dal mondo del basket, la vita continua e i Bulls rimangono ai piani alti, se non proprio ai vertici, della Eastern Conference. Scottie Pippen – ora lontano dalla a volte scomoda ombra di Michael – si spinge più in là parlando di possibile quarto titolo in fila. È il momento in cui Pat Riley si cautela, arrivando primo nella corsa al deposito dello slogan più azzeccato. Stavolta tocca al “Four-ward”, slogan che il tecnico più bravo e ingellato dell’intera NBA conia (per i Bulls) e brevetta (per sé). 

È il momento in cui Michael Jordan si concede cose semplici ma che magari a lui, prigioniero in una gabbia dorata, non erano state fino a quel momento consentite: avere una vita al di fuori del basket, una vita da Michael come persona. “Potevo fare finalmente quello che volevo e non solo quello che dovevo – racconterà MJ di quel periodo di astinenza dal parquet – Iniziai a sciare, divenni più avventuroso, mi detti alle moto, a tutta una serie di cose che non avevo mai fatto ma che avevo sempre sperato di provare”. 

Ma se si era ritirato anche per sfuggire ai riflettori ormai fattisi insopportabili, allora l’obiettivo era stato fallito. 

La sua popolarità, infatti, anziché diminuire, sembrava sempre più in ascesa. 

Nel suo ristorante non si accettavano più prenotazioni, tanto era sempre esaurito (!); i milioni di dollari annui lo lanciavano in cima alla classifica degli (ex?) sportivi più ricchi del mondo; il suo libro appena uscito, Rare Air, una biografia autorizzata forse un po’ troppo stucchevolmente celebrativa, che andava (e va) letteralmente a ruba; erano tutti indici dello stesso fenomeno: Michael Jordan tirava anche se aveva smesso di giocare e, per esempio, il solo fatto che Michael si trovasse per le vacanze di Natale ad Aspen, la nota località sciistica del Colorado, costituiva già di per sé una notizia. 

Col passare dei mesi, il golf, storico passatempo (altamente pubblicizzato) di Jordan, incomincia a stancarlo e così Mike ritorna al passato, a quel baseball che tanto lo aveva fatto sognare da bambino. A sentire i suoi amici d’infanzia il suo sogno è sempre stato di diventare un giocatore professionista del diamante e forse questa potrebbe essere la volta buona. Michael ha in testa un’idea meravigliosa: tentare di giocare una carta nel baseball. Diventare un giocatore di major-league. 

MJ, che intanto trascorre buona parte delle sue 24 ore di tempo libero allenandosi al Comiskey Park. O, in caso di neve o pioggia, nei suoi sotterranei. In un locale apposito provando la battuta contro il lanciatore meccanico, si rivolge a Jerry Reinsdorf e gli chiede una chance, la possibilità di provare a far parte della rosa. 

Il proprietario nicchia ma non dice né sì né no: “Se Michael vuole provare non gli diremo di no – si sbilancia Reinsdorf anticipando addirittura la decisione ufficiale di Jordan – Lo lasceremo tentare. Se al mondo c’è uno che possa cambiare sport, questo è lui”. 

A quel punto, le intenzioni dell’ormai ex stella dei Bulls sono smascherate: “È vero, il baseball mi attira parecchio – ammette Michael – E se i White Sox non mi diranno di no, mi presenterò al ritiro primaverile. Ma voglio precisare che non giocherò nelle leghe minori, lo farò soltanto in major-league”. 

Alla gente per i conti non tornano. Ma come, si chiedono gli appassionati di basket traditi dal suo addio, Jordan lascia la pallacanestro perché non sopporta la pressione esasperata e poi va a cercarsi i riflettori tentando l’avventura del baseball? C’è qualcosa che non quadra in effetti, e la supplica dello stesso Jordan non convince appieno. “Spero di essere considerato in un modo diverso – aveva dichiarato Michael – Non potrò certo essere una star del baseball, ma sarò solo uno dei tanti e dopo una prima fase di curiosità spero di poter essere lasciato tranquillo come un qualsiasi altro giocatore di baseball. 

Poi, quasi a volerci mettere una pezza, aggiunge: “Nella NBA siamo sempre in viaggio, mentre nel baseball, quando si va in trasferta, si rimane nello stesso posto per cinque, sei giorni e ci si può portare anche la famiglia, cosa che non mi dispiacerebbe fare”. 

Ma, se ai tifosi di Chicago in particolare e del basket in generale poteva non andare a genio la scelta di Michael Jordan, figuratevi come dovevano averla presa i componenti dello staff tecnico dei White Sox: allenatori e giocatori, se non piangevano, certo non ridevano. Quelli che invece non riuscivano a trattenere la propria soddisfazione erano i cassieri della franchigia: con Jordan possibile elemento del roster, la cuccagna era appena iniziata e gli incassi sarebbero schizzati alle stelle. 

Anche se non si può dimenticare che negli USA è prassi abbastanza diffusa stare con un piede in due sneaker, nel senso che Jordan non sarebbe stato né il primo nell’ultimo a cimentarsi in due sport, ci si chiedeva se tutto questo fosse giusto. Ci si domandava come potesse un cestista – il più grande, beninteso, ma solo un cestista – a 31 anni, con qualche allenamento alle spalle e un black-out nel baseball di oltre quindici anni, riprendere in mano, come niente fosse, mazza e guantone e andare a giocare. Non per competere tra scapoli e ammogliati il sabato pomeriggio, ma per andare a giocare in Major-League, la lega professionistica americana, la migliore del mondo! Ci sembra di sognare, svegliateci. 

é vero, ci siamo dimenticati: Jordan di recente si era esibito pubblicamente all’All-Star Game del baseball organizzato a Baltimore e, in una di quelle gare tra personaggi famosi, aveva vinto – umiliando in maniera imbarazzante gli altri partecipanti – la gara di battuta con gli altri cosiddetti VIP, non proprio un provino attendibile delle qualità di MJ sul diamante. Ma tant’è. Si comincia. 

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