CAPITOLO 28 - "I'm back!" (1994-95)


"L'economia [degli Stati Uniti] ha prodotto 6.100.000 nuovi posti di lavoro da quando sono diventato Presidente. E se Michael Jordan tornerà con i Bulls, i nuovi posti di lavoro saranno 6.100.001."
- Bill Clinton

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books 


Addio, anzi, arrivederci Campione

Il primo novembre 1994 Michael aveva un appuntamento importante con la sua città. Tutta Windy City sapeva che, prima o poi, sarebbe giunto quel momento, ma non avrebbe mai pensato cos“ prima. Naturalmente non avrebbe voluto che arrivasse, o che, almeno, fosse il più poi possibile. 

Tutta la cerimonia, sebbene di omaggio, fu, per forza di cose, triste, ma lo fu ancora di più per Michael stesso perché avvenne nel nuovo impianto dei Chicago Bulls che lui aveva già imparato ad odiare fin da quando ne aveva viste sorgere le nude fondamenta, vale a dire nel nuovo Chicago Stadium, o, come sponsor impone, United Center. Da quando erano iniziati i lavori del nuovo Palazzo di Chicago, ubicato praticamente dall’altra parte della strada rispetto al vecchio (e unico!) Chicago Stadium, Jordan, recandosi allo Stadium per le partite, si rifiutava anche solo di girarsi per guardare dall’altra parte e vedere la nuova struttura nascere. Si potrà obiettare che fosse un po’ prevenuto, ma sarebbe in ogni caso difficile ragionare con i sentimenti. “Io non ci giocherò mai”, aveva profetizzato nel 1992, senza che nessuno lo calcolasse più di tanto, “nel momento in cui i Bulls lasceranno il Chicago Stadium, smetterò col basket”.
Sembrava fantabasket, invece era accaduto. 

Eppure, anche se solo per qualche attimo, i dirigenti ci avevano sperato. Durante l’estate Jordan aveva rilasciato un’intervista a George Vecsey del New York Post, numero uno della stampa cestistica USA, nella quale si potevano cogliere presagi di ritorno, poi subito smentiti dallo stesso Jordan con un’altra intervista e, soprattutto, dai fatti. 

Michael a Vecsey aveva confidato di essere deluso per la scarsa riconoscenza che alcuni compagni gli avevano dimostrato dopo i tanti anni durante i quali era stato lui a caricarsi sulle spalle l’intera squadra. “Non si contano le volte che ho dovuto coprire io le spalle a Scottie Pippen e a Horace Grant nel quarto periodo, quando puntualmente cominciavano a farsela sotto. Quante volte ho dovuto fare tutto da solo. Per me ci poteva anche stare. Ma mi dava fastidio, e ne dava anche a mio padre, sentire poi che si lamentavano, perché non godevano della giusta considerazione o perché non avevano sufficienti opportunità per tirare, o perché io ricevevo un trattamento privilegiato da parte di Phil Jackson. Ma non hanno la più pallida idea di quante e quali pressioni io ho dovuto subire fuori del campo per poi doverli pure trascinare sul parquet”. 

Certo, da queste dichiarazioni, solo chi vuol capire quello cheÉ vuole capire potrebbe dedurre propositi di rientro. All’epoca, per, c’erano degli scenari diversi che si stavano delineando dietro le quinte delle operazioni di mercato. Grant, che da tempo immemore minacciava di andarsene, lo aveva fatto (destinazione Orlando Magic) e Pippen era sul punto di imitarlo. Le intenzioni dei Bulls erano quelle di scambiarlo anche se poi non se ne fece nulla, ma proprio per questo, con i due lontano da Chicago, dai soliti bene informati vicino a Jordan, era trapelata una vocina che queste dichiarazioni potessero essere una sorta di paletta verde per il Gran Rientro. 

Come se non ci fosse stata abbastanza carne al fuoco, agli irriducibili, in occasione di una charity game organizzata da Scottie Pippen al Chicago Stadium, non era parso vero di sentire Jordan fare un’altra dichiarazione possibilista. Per chiarire il tutto, però, serve prima fare un passo indietro. Non a caso abbiamo parlato del Chicago Stadium: uno dei rammarichi di Michael era proprio quello di dover dare l’addio all’attività agonistica senza poter salutare degnamente, con un’ultima (naturalmente grande) partita, proprio il suo amatissimo impianto, il vecchio, anacronistico, maleodorante ma fascinoso Stadium. 

Ma in settembre, terminata la stagione del baseball, Jordan, come capita solo ai predestinati, aveva avuto la possibilità di appagare anche il suo ultimo piccolo sogno: giocare un’ultima partita nella sua arena. Giocando, e alla grande (52 punti), in quella amichevole di beneficenza, che sarebbe stata l’ultima partita immersa in quell’atmosfera maleodorante di birra e di popcorn, ma irresistibile, che solo il vecchio stadio poteva dargli, Jordan si era regalato un’ultima soddisfazione. E aveva anche dimostrato di essere ancora un cestista vero. Finito l’incontro, l’ultimo appuntamento di basket dello Stadium che qualche giorno dopo sarebbe stato demolito per lasciar spazio a un ulteriore parcheggio per il dirimpettaio United Center, Michael si era inchinato a baciare il parquet che l’aveva visto volare per nove indimenticabili stagioni. 

Commosso, davanti a taccuini e microfoni si era lasciato andare: “Con un paio di allenamenti specifici, potrei tornare a realizzare 32 punti a partita nella NBA in ogni momento”. Non l’avesse mai detto. La prima dichiarazione di cui sopra altro non era stata che uno sfogo, un po’ fuori posto ma comprensibile, di un atleta che si vedeva circondato da invidie e gelosie, poco apprezzato da chi, in primis, avrebbe dovuto essergli grato, mentre la seconda esprimeva tutto l’orgoglio di un campione che aveva imboccato, controvoglia e contromano, l’obbligatoria autostrada verso l’oblio. 

Jordan non avrebbe giocato più e, anche se nessuno voleva rassegnarsi all’ineluttabilità della cosa, da quel 1° novembre c’era una prova: dal soffitto dello United Center pendeva la sua maglia. Il suo numero 23 era stato ritirato dai Bulls con una toccante cerimonia. C’erano davvero tutti a rendergli omaggio: ex compagni di squadra e avversari (con in prima fila Ewing, suo antagonista in tante battaglie sin dai tempi dell’università), i suoi allenatori (Dean Smith a UNC, Bobby Knight alle Olimpiadi del 1984), ma anche un grandissimo del recente passato, Kareem Abdul-Jabbar, che lo aveva sempre stimato. Larry Bird e Magic Johnson, gli occupanti del famoso livello superiore a cui il giovane Jordan aveva sempre aspirato, non avevano potuto presenziare ma avevano comunque partecipato inviando un messaggio di felicitazioni videoregistrato. E poi, udite udite, anche il nuovo impianto, che Jordan appunto non amava per niente, cercò di farsi perdonare regalando e regalandosi il primo sold out. Il tutto esaurito non fu per assistere a un incontro dei Bulls ma per vedere Jordan e famigliola tirare la funicella che issava sul soffitto il rettangolo di stoffa recante il logo della franchigia, il numero 23 e la scritta “Michael Jordan 1984-1993”, il periodo da lui trascorso coi Bulls. Adesso, si girava davvero pagina. Dalle volte della nuova casa dei Tori di Chicago, assieme a quelle dei grandi Bulls del passato, pendeva la maglia del più grande giocatore d’ogni tempo e luogo. Michael Jordan non avrebbe più giocato. O almeno questo è ci che allora tutti, chi più chi meno, credemmo. 


I Bulls ne vincono 55 ma non l’anello 

Il 6 ottobre 1993 Michael Jordan aveva annunciato il suo ritiro dalla NBA. Jordan, il cui padre era stato assassinato sul ciglio di una strada del South Carolina in luglio, aveva dichiarato di aver raggiunto tutto quello che c’era da raggiungere nella pallacanestro e di aver perso la sua passione per lo sport. Egli era chiaramente anche nauseato dalle continue investigazioni che furono condotte sul suo conto: incominci infatti a circolare la voce che l’omicidio fosse in qualche modo collegato ai debiti di gioco di Jordan. 

Il ritiro di Jordan fece i titoli delle prime pagine delle testate di tutto il mondo. Infatti è così che sua madre lo venne a scoprire. Deloris Jordan era in vacanza in Kenya con amici e componenti dello staff dei Bulls quando, due giorni dopo l’annuncio, le fu mostrata la notizia sulla prima pagina di un quotidiano di Nairobi. 

Jordan aveva detto di voler mollare tutto e trascorrere il tempo con la sua famiglia, ma in realtà non si sarebbe ancora fermato. Dopo un paio di mesi egli annunci che voleva cimentarsi col baseball professionistico, uno sport che aveva sempre adorato. 

Firmò con i Chicago White Sox del patron Reinsdorf e si presentò al ritiro primaverile, dove alla fine si guadagnò un posto come esterno dei Birnìmingham Barons, squadra di minor league nella Classe AA. Jordan attirava sì enormi folle sia in casa sia in trasferta, è ma faticava a colpire le palle curve e, in 127 incontri, aveva battuto appena col 20.2 %. 

I Bulls, sbigottiti dall’annuncio di Jordan alla vigilia del training camp, non fecero altro che raccogliere i cocci. L’operaio Pete Myers, buon difensore, divenne titolare nello spot che in passato era occupato da Jordan, ma era sarebbe toccato a Pippen il duplice ruolo di leader e realizzatore, con Horace Grant e B.J. Armstrong ad assisterlo. Krause firm Steve Kerr, uno spot-up shooter simil-Paxson, con l’intenzione di spostarlo alla fine in quel ruolo preciso. Firmò anche il veterano 2.12 m Bill Wennington e più avanti cedette Stacey King a Minnesota per il 2.17 m Luc Longley nel tentativo di puntellare la prima linea dei Bulls. 

La mossa più importante di Krause nel roster fu la firma del versatile, 6’11’’ (2.08 m), Tony Kukoc, the Croatian Sensation, il miglior giocatore d’Europa. Sebbene fosse lungo e sottile come una sbarra, Kukoc sapeva palleggiare e passare come una guardia e tirare da fuori o entrare a canestro. Krause lo aveva agognato per anni - con molto dispiacere di Pippen, che riteneva che il suo contratto dovesse essere rinegoziato prima che i Bulls cercassero aiuto all’esterno dell’organizzazione - e finalmente lo ottenne. 

Mentre la franchigia ritirava la divisa numero 23 di Jordan, i Bulls privi di MJ iniziarono con una partenza lenta di 4-7 e gli avvoltoi incominciarono a volteggiare. Ma Chicago bilanci il conto in una dura trasferta di sette partite con una vittoria per 108-85 a Dallas per incominciare una striscia vincente di quattro incontri e, dopo una sconfitta al supplementare a Philadelphia, snocciolò dieci vittorie in fila per attestarsi sul 18-8 al 29 dicembre. Una striscia di sette vittorie in gennaio spinse i Bulls a 34-13 alla pausa per l’All-Star Game, monopolizzato dall’MVP Pippen. Anche Grant e Armstrong furono scelti dai tifosi come titolari tra gli All-Star, la prima volta di sempre che la franchigia avesse tre giocatori così apprezzati. Armstrong e Steve Kerr parteciparono entrambi alla gara del tiro da tre punti e Kukoc prese parte al primo All-Star Rookie Game di sempre. 

Chicago battagli con Atlanta per il comando della Central Division e New York per il miglior bilancio della Eastern Conference fino agli ultimi due mesi di stagione. Una tardiva striscia vincente di dieci gare consentì a Chicago di terminare sul 55-27, la sua quinta stagione consecutiva da almeno 50 vittorie, ma sarebbe terminata due vittorie dietro ad Atlanta e New York, che fecero registrare entrambe un record di 57-25. 

Pippen capeggiò i Bulls in punti (22 a partita), assist (5.6) e recuperi (2.93), mentre Grant era il primo della squadra nei rimbalzi (11). Anche Grant, Armstrong e Kukoc andarono in doppia cifra nelle realizzazioni. Pippen fece parte dei primi quintetti di All-NBA e difensivo, Grant del secondo quintetto difensivo e Kukoc del secondo quintetto delle matricole. 

I Bulls aprirono i playoff con un cappotto contro Cleveland per fissare ancora un’altra pepata resa dei conti contro New York. Dopo che Chicago ebbe buttato al vento un vantaggio di 15 punti e perso l’apertura 90-86, Jackson provò a scaricare l’alta tensione della sua squadra cancellando l’allenamento e portando i Bulls a fare un giro sul traghetto di Staten Island, ma la trovata non servì e New York si spianò la strada verso la vittoria (96-91) in Gara-2 che la portava a Chicago sopra di 2-0. 

Gara-3 fu un classico che si risolse sul filo di lana e che finì fra le polemiche. Con 1.8 secondi da giocare e Chicago sotto di un punto, i Bulls chiamarono time-out e Phil Jackson disegnò l’ultimo schema in cui la palla sarebbe andata a Kukoc. Pippen, che aveva avuto una parte di secondo piano rispetto a Jordan per la sua intera carriera prima di entrare in questa stagione tutta sua, rimase stupefatto. Si sentì snobbato e si rifiutò di rientrare in partita. Allora Jackson lo lasci seduto in panchina e and avanti con lo schema come tracciato - e Kukoc rispose scaricando un tre-punti per la vittoria di 104-102 di Chicago. 

Jackson fece poi un notevole lavoro per disinnescare quella situazione tesa, confortando l’ego di Pippen senza perdere allo stesso tempo la faccia col resto della squadra. Come risultato, una rivitalizzata squadra dei Bulls vinse (95-83) Gara-4 per impattare la serie, realizzando un’eccezionale Gara-5 a New York che finì ancora in rissa. 

Come era stato per Gara-3, la partita non fu decisa fino ai secondi conclusivi. Questa volta era Chicago che guidava di un punto, quando i Knicks manovravano il pallone dalle parti della guardia Hubert Davis per un jumper dalla lunga. Il tiro di Davis and fuori bersaglio, ma l’arbitro Hue Hollins fischi un fallo su Pippen, che era saltato di fronte a Davis nel tentativo di stoppargli il tiro. I replay televisivi non mostrarono alcun evidente contatto e Darell Garretson, il Supervisor of Officials, ammise in seguito che era stata una chiamata errata, ma i Bulls non presentarono nessun ricorso perché era una chiamata a stretta discrezionalità dell’arbitro. Davis infilò entrambi i tiri liberi e New York se la cavò con una vittoria per 87-86 nella gara decisiva. 

Sebbene Chicago si fosse ripresa per andare a vincere (93-79) Gara-6 allo Stadium, i Knicks si aggiudicarono (87-77) Gara-7 al Madison Square Garden 7 ponendo così fine ad anni di frustrazioni subite per mano dei Bulls. 


Il re tentenna, ma poi torna 

“I’m Back!”, sono tornato. Queste sono state le parole di Michael, lapidario, essenziale ed efficace come sempre, in campo e fuori, che hanno fatto il giro del mondo nel momento in cui Air ha comunicato al globo che voleva ricominciare a fare quello che sapeva fare meglio e ci per cui era nato, giocare a basket. Con quelle due sole parole Jordan aveva posto fine alla sua assenza di quasi 18 mesi dalla pallacanestro professionistica e aveva dato inizio ad una nuova era per sé e per i suoi Chicago Bulls. Quell’anno e mezzo circa fu un intermezzo che vide Michael raccogliere la sfida, lanciatagli in primo luogo proprio da suo padre, di esaudire il sogno lungo una vita di giocare nel baseball professionistico, quel suo sogno nel cassetto di giocare nelle Major League, ma anche la sua popolarità toccare vette mai raggiunte. Cerchiamo adesso di ricostruire giorno per giorno il diario di bordo del lungo viaggio che ha portato Michael Jordan a tornare sui suoi passi. 

È giovedì 2 marzo quando Jordan lascia il camp dei White Sox, lo sciopero dei giocatori sembra protrarsi ad oltranza e a MJ non va proprio giù l’etichetta di replacement player che potrebbero appiccicargli addosso. Aveva o no giurato a se stesso che mai e poi mai in vita sua gli sarebbe capitato di stare a guardare gli altri giocare dopo il taglio-non taglio al secondo anno di liceo? 

Il giorno dopo Michael fa il suo rientro a casa - a casa, sì, insomma alla reggia che ha a Deerfield, a qualche chilometro dal Berto Center, il complesso dove si allenano i Bulls - e incomincia a meditare. 

Passano cinque giorni e, mercoledì 8, MJ si presenta alla palestra dei Bulls: si allena con loro, ma non era certo la prima volta e alla cosa lì per lì non viene dato troppo peso. Ma qualcosa sta cambiando, perché, stando a quanto trapelerà soltanto il giorno dopo, Jordan avrebbe visionato assieme a Coach Jackson i video delle partite dei Tori giocate fino a quel momento. 

L’indomani, Jordan e Kukoc, tra i più mattinieri, si presentano al Berto Center. Entrambi per allenarsi. 

In quello stesso giorno sia Jerry Krause, il gm dei Bulls, sia Ron Schueler, il gm dei White Sox, smentiscono – seccamente, com’è di prammatica – che Jordan possa ritornare a giocare. A quel punto, anche se dalla franchigia e da Washington (dove ha il suo quartier generale il suo agente David Falk) tutto tace, pure i sassi hanno in mente la prossima mossa: una conferenza stampa in cui si annuncerà il contrario di quanto giurato dai due general manager. 

Venerdì 10 marzo, i Bulls affrontano i Cavaliers ma Jordan parte per Phoenix per tutto il fine settimana. Tra una manifestazione di beneficenza e l’altra, annuncia che col baseball è finita. 

Sabato 11, allo United Center sono ospiti i Lakers e nell’impianto c’è un fantasma che aleggia, è Lui. Anche i muri dell’arena sanno che MJ ha parlato col Grande Capo dei Tori, Jerry Reinsdorf, con particolare accoramento per le difficoltà della squadra e soprattutto dell’amicone Pippen. 

È domenica: quale giorno migliore per parlare di miracoli? Tale WMVP, una stazione radio locale della Windy City, annuncia che MJ comunicherà al mondo il suo ritorno al basket in occasione della gara del 24 marzo contro i Magic. Ma la notizia-bomba si rivelerà clamorosamente sbagliata. Per eccesso (cinque giorni). In edicola, invece, ci si spinge oltre: secondo l’edizione domenicale del Chicago Tribune, fonte storicamente vicina all’ambiente dei Bulls, Jordan sta addirittura negoziando per estendere il suo contratto (quello che ancora lo legava a Chicago sarebbe scaduto il 30 giugno 1996) fino al 1997, riformulandolo per consentire anche a Pippen di veder riconosciuti i propri anni di militanza in cui era stato incredibilmente sottopagato. A sostegno delle voci di corridoio, fattesi sempre più insistenti, pare che la Nike abbia spedito ai Bulls 40 paia di scarpe misura 13, secondo voi per chi erano? 

Lunedì 14. Inizia una nuova settimana, Jordan si allena ancora ma nessuna novità, almeno ufficiale. Phil Jackson per finge di scoprirsi: “Michael ha sempre fatto la cosa giusta, qualsiasi cosa farà lo sarà anche questa volta”, dichiara in quei giorni. 

Jordan, intanto, trascorreva un normale martedì di allenamento senza annunci alla stampa, nonostante il centinaio di giornalisti affamati presenti al Berto Center. Ormai però neanche Jackson riesce a far finta di nulla: “Siamo rimasti d’accordo di rincontrarci giovedì prossimo, poi, se lo desidererà, tornerà a essere uno dei membri della squadra”. 

Solo uno, è sicuro Coach? Nota a margine, le azioni delle compagnie in qualche maniera legate a Michael Jordan, hanno fatto registrare i seguenti rialzi: General Mills (l’azienda che produce i celeberrimi fiocchi d’avena Wheaties) +4.8%, McDonald’s +4.6%, Sara Lee +4.4%, Nike +3.3%, Quaker Oats +1.2% e potremmo continuare. 

Come annunciato da Jackson, Michael non si presenta alla sessione di tiro prevista per la mattinata di mercoledì. Lo stesso giorno Chicago batte sul suo campo gli Atlanta Hawks ma a qualche giocatore l’intera vicenda incomincia a pesare, qualcuno considera tutta la faccenda una distrazione; Ron Harper è sbottato: “Durante un allenamento gli ho detto: o ti decidi a tornare oppure te ne vai, perché qua ci stai solo mettendo in imbarazzo senza ragione”. Nel frattempo, alla città, di quel che succede sul parquet interessa poco: a tre chilometri da Downtown Chicago c’è chi ha montato un’insegna luminosa che recita “Welcome Back Michael”, mentre una radio cittadina rivela che il “Bentornato Michael” i tifosi potranno gridarlo venerdì 17. Altra notizia-bomba che si rivelerà clamorosamente sbagliata. Per difetto (un giorno). 

Arriva il fatidico appuntamento del giovedì. Jordan si presenta regolarmente al Berto Center, si allena con gli ex (ma per quanto?) compagni ma non trapela niente perché tra queste mura avrebbe problemi anche il mitico KGB dei tempi della Cortina di Ferro. L’unico fatto del giorno è che Russ Granik, l’uomo di fiducia di David Stern, lascia intendere che, se il problema sono i tempi della burocrazia, la soluzione è facile: per avere il via libera e far scendere in campo un giocatore, basta mandare un fax negli uffici della lega entro un’ora dal tip-off della partita. 

Venerdì 17 è il giorno di Chicago-Milwaukee, vincono i Bulls ma di Jordan non si sa nulla. 

Sabato 18 marzo 1995 è un giorno destinato ad entrare nella storia dello sport, non soltanto americano: una breaking-news, la nostra edizione straordinaria, dell’emittente televisiva che del basket fa il proprio cavallo di battaglia, la NBC, irrompe nel palinsesto dei programmi del mattino con il deflagrante annuncio di Peter Vecsey, la penna cestistica più velenosa, temuta e ascoltata d’America, dell’ormai certo ritorno in campo di Jordan in occasione della gara che Chicago avrebbe disputato, in diretta televisiva mondiale, a mezzogiorno dell’indomani a Indianapolis contro i locali Indiana Pacers. Bum. La bomba (stavolta vera) era esplosa e, come sempre accade, la gente comune sarebbe stata l’ultima a saperlo. L’annuncio ufficiale, infatti, sarebbe stato dato solo durante la giornata: “I’m back!”, sono tornato, furono le due-parole-due che pronunci Jordan. Non si era sprecato. 


Jordan torna? E chi dorme più… 

A 21 mesi dall’ultima partita giocata (e vinta), gara-sei della Finale 1993 coi Phoenix Suns, Michael tornava sul parquet e la cosa avrebbe, come è ovvio, provocato un terremoto. Inutile qui parlare dell’immediata Jordan-mania che si scatenò tra i tifosi, soffermiamoci piuttosto per un momento sulle reazioni degli addetti ai lavori, che non avrebbero potuto più dormire sonni tranquilli. “Adesso dovrò di nuovo ricominciare a prendere dei sonniferi per dormire la notte”, scherzava, ma non troppo, John Starks, una delle guardie abitualmente massacrate da MJ, rivale storico al quale per il tipico duro newyorchese ha perlomeno sempre venduta cara la pelle. Ma la folcloristica dichiarazione di Starks deve necessariamente essere stata rilasciata prima che His Airness andasse a trovarlo sul parquet del mitico Madison Square Garden, perché altrimenti, di sonniferi, il buon John ne avrebbe dovuti ingerire un barattolo da un chilo. Rischiando grosso. Stesso discorso per il suo presidente, Dave Checketts che, incautamente, si sbilanci affermando: “Sarà ancora più bello vincere battendo Jordan perché senza di lui non sarebbe stata la stessa cosa”. Ma sentite che cosa successe quel 28 marzo al Garden (negli USA, nessuno lo chiama Madison), ovviamente, per l’occasione, tutto esaurito, direttamente dalla voce del protagonista, il profanatore del sacro tempio del basket che ora portava un nuovo numero, quel 45 che secondo lui “porta male”. “La prima volta in cui tutto funzionò alla perfezione – rievoca Michael – fu nella mia quinta partita dal rientro, contro i Knicks a New York. Gli calai un double nickel. In quel periodo stavo ancora completando la preparazione fisica per giocare a baseball. Le due squadre erano ricchissime di talento e la mia gara, fino a quel punto, era stata a fasi alterne. Sapete che fisicamente non ero pronto per giocare perché non riuscivo a svolgere il mio compito con continuità. Quei ragazzi non mi avevano visto per un bel po’ così penso che si fossero dimenticati di come giocassi. Avevano lasciato John Starks a marcarmi uno-contro-uno e non raddoppiavano mai. Io ero più grosso di John e avrei potuto girargli attorno e tirargli sopra la testa per tutta la sera. Loro mi avevano lasciato entrare nella “zone”. Sono convinto che il fatto di giocare al Madison Square Garden abbia avuto molto a che fare con la mia prestazione. Ho sempre voluto giocare bene a New York perché è la Mecca del basket”. 

Michael fu di parola, con buona pace del suo malcapitato marcatore - “Leggevo Starks come un libro aperto. Era alla mia mercè, e tutti i Knicks con 55 punti, ma, come se non bastasse, innescò anche Wennington per il canestro vincente attirando su di sé la difesa di New York per poi smazzare un perfetto assist per “Billone” che, smarcato, poteva schiacciare in libertà. 113-111 per i Bulls e tutti a casa. Dopo aver salutato, nella sua seconda partita dopo il ritorno, il Boston Garden regalando a quel leggendario teatro, prossimo alla demolizione, un’ultima recita da 27 punti, nella vittoria per 124-107 (miglior realizzatore della sua squadra pur con un brutto 9 su 17 al tiro), era stata la volta dell’altro Garden. E meno male (per gli avversari) che i Garden erano finiti. 

Dopo la partita al MSG, tutti compresero che Jordan era tornato. Pat Riley, all’ultima stagione con i Knicks che allenava dal ‘91, in conferenza stampa, passandosi la mano sulla fronte quasi per raccapezzarsi dopo l’uragano, disse: “Michael aveva dato un assaggio già contro Atlanta ed è esploso proprio qui a New York”. 

Spike Lee, che si gode ogni volta che può il posto a bordocampo da 1000 dollari a partita, quel 55 se lo ricorderà per sempre. “I miei ricordi di Michael sono tanti – dirà nel 1998 – come quei drammatici tiri che infilò contro Cleveland per estrometterli dai playoff. Più di tutti, comunque, non dimenticherò mai quando lui rientrò dal ritiro, nel 1995 e, alla sua sola quinta partita dal ritorno, segnò un double-nickel, 55 punti, contro i miei Knicks proprio qui, al Garden”. Il Re era tornato e per gridarlo aveva scelto la sua reggia preferita, The Main Arena. 


Superman è tornato, ma troppo tardi 

Il management dei Bulls, durante la offseason, aveva cambiato molti nomi ormai divenuti familiari nella Città del Vento. Secondo qualche maligno, anche troppo familiari, sottintendendo che, forse, qualcuno era diventato troppo vecchio, nella migliore delle ipotesi, o troppo poco affamato, nella peggiore, per ricominciare a vincere. 

Il nuovo Chicago Stadium, subito battezzato, per motivi pubblicitari, United Center, non avrebbe più visto, per esempio, l’ormai storica figura di Johnny Bach come assistente allenatore deputato alla difesa. Krause, infatti, lo aveva rimpiazzato ritenendolo troppo vicino ai media e indicandolo più o meno velatamente, assieme a Horace Grant, uno dei più grossi buchi dello spogliatoio dei Bulls dal quale erano usciti pericolosi spifferi che avevano portato al famigerato The Jordan Rules, il libro di Sam Smith. Il rimpiazzo di Bach, scelto naturalmente da Krause, era l’ex coach di Boston e Minnesota, Jimmy Rodgers. 

Grant, divenuto free agent, s’era accasato proprio nella squadra che avrebbe eliminato i Bulls (tremenda vendetta) nelle Semifinali della Eastern Conference. Cartwright (che poi ci avrebbe ripensato firmando per Seattle) e Paxson, altri due protagonisti del Three-Peat, si erano ritirati; Scott Williams, altro free agent, era andato ai Sixers. Erano, quelli dell’estate prima del campionato ‘94-95, i tempi dell’affare già fatto e poi sfumato dello scambio (con i Sonics) Pippen-Kemp, un elemento in più di disturbo nella già poco pacifica atmosfera che c’era in quella polveriera chiamata Chicago Bulls. 

La stagione che andava a incominciare aveva quindi un roster così formato: Toni Kukoć, B.J. Armstrong, lo scontento Scottie Pippen, Steve Kerr, Ron Harper, Pete Myers e al centro il cosiddetto mostro a tre teste, una sorta di cerbero dell’area colorata che risponde ai nomi di Will Perdue, Luc Longley e Bill Wennington. 

A completare la rosa c’erano poi i due giovani Dickey Simpkins (dal cui aspetto tutto si poteva evincere tranne che fosse un ragazzino) e Corie Blount, che avrebbero provato, con scarsi risultati, a vestirsi dei panni di quel grande rimbalzista che era l’ala forte Grant. Visto l’andazzo, nello spot di power forward coach Jackson avrebbe spesso schierato Toni Kukoc che, sul tavolo tattico, poteva almeno gettare le carte dei punti e dei passaggi al bacio. Come potete vedere, l’edizione dei Chicago Bulls 1994-95 non dava certo l’impressione di essere una corazzata inaffondabile. 

Michael sarebbe rientrato in squadra il 19 marzo nella sconfitta (103-96) che i Bulls patirono a Indianapolis e che fece capire chiaramente che ci sarebbe voluto un po’ per tirarlo a lucido. Quel po’, per, si rivelò inaspettatamente breve perché già a partire dal match successivo, contro i Celtics, nel tempio del Boston Garden, condusse Chicago al successo (124-107) in virtù dei suoi 27 punti (miglior marcatore dei Bulls) raggranellati con un 9/17 dal campo. Nel quinto incontro successivo al suo ritorno alle competizioni, la famosa serata che abbiamo già descritto, quella del Doublenickel (55 punti), nell’altro celeberrimo Garden, il Madison di New York, dove, il 28 marzo, Jordan (suo il passaggio decisivo per la schiacciata vincente, 113-111, dello smarcatissimo Bill Wennington) strapp un’altra importante vittoria, sui Knicks. 

Con Jordan di nuovo in quintetto, i Bulls compilarono un record di 13-4 e realizzarono due strisce vincenti di sei gare ciascuna che permisero loro di chiudere la stagione sul 47-35, un record che garantiva una buona, se non eccezionale, posizione nella griglia dei playoff. MJ, nelle sue 17 partite di regular season, aveva tenuto una media di 26.9 punti a sera, mentre Pippen aveva guidato la squadra in tutte le categorie (stoppate escluse)! Scottie aveva totalizzato di media 21.4 punti, 8.1 rimbalzi, 5.2 assist e quasi tre (2.98) recuperi a partita. Come quasi ovvia conseguenza, Pippen era stato nominato nel Primo Quintetto Difensivo NBA e titolare nell’All Star Game di metà stagione. 

I Bulls incominciarono i playoff superando abbastanza agevolmente (3-1) nel primo turno Charlotte, ma poi non ci fu nulla da fare con Orlando. I Magic, che avevano visto l’arrivo di un assetato di vendetta Horace Grant nello spot di ala forte, avevano, con il centro dominante Shaquille O’Neal e il talento purissimo di Penny Hardaway, uno starting line up di prim’ordine e difatti sarebbero arrivati in finale (poi persa 4-0 con gli Houston Rockets). Gara-1 fu appannaggio della squadra della Florida, 94-91, e verrà per sempre ricordata per la palla persa (tocco di Anderson e recupero di Penny) da Jordan, sul quale per tutta la partita difese alla morte un ispiratissimo Nick Anderson. 

Nemmeno il ritorno di MJ all’amato numero 23 (evento verificatosi per Gara-2) avrebbe spostato l’inerzia della serie: dopo che Chicago era andata a vincere (104-94) ad Orlando impattando la serie sull’1-1, le due squadre si erano spartite le successive due gare nella Windy City, quindi i Magic fecero loro la decisiva Gara-5 (103-95) e poi chiusero sul 4-2 la serie vincendo (108-102) allo United Center, con Grant portato sulle spalle in trionfo dai compagni di squadra proprio davanti ai suoi ex tifosi, al suo ex (?) nemico, che pure si era rimesso la sua antica divisa. 

La stagione dei Bulls si era chiusa lì. Michael era rientrato nella sua franchigia ed era naturale che ci volesse del tempo a lui per abituarsi ai nuovi compagni e a questi per abituarsi a lui; Jordan non era proprio un pezzo facilissimo, né, tanto meno, di secondaria importanza, da inserire in quella delicatissima macchina che è una squadra. 

Quel tempo, però, non c’era stato. E quella palla persa per mano di Nick Anderson in quella Gara-1 delle Semifinali della Eastern è il sunto di un intero campionato. Il Michael vero, quello col 23, lo si sarebbe visto solo l’anno dopo. 

CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan

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