CAPITOLO 23 - American Dream Team (Barcellona 1992)
"Giocare contro il Dream Team del 1992 era come stare sullo stesso palcoscenico dei Beatles. Sembrava che gran parte delle squadre non si considerassero delle avversarie, ma parte dello show. Era come se a un grande musicista venisse chiesto di fare da spalla a John, Paul, George e Ringo. Uno che lo marcava, per tutta la partita continuava a chiedere se dopo la gara poteva avere la canotta di Magic. Per loro era un sogno diventato realtà il solo stare sullo stesso parquet con i più grandi giocatori del mondo."
– Russ Granik, commissioner delegato NBA e vicepresidente USA Basketball
"Siamo sicuri di vincere la medaglia, si tratta solo di andarla a prendere"
– Michael Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Vengo anch'io! No, Thomas, no
Barcellona 1992 fu una delle edizioni dei Giochi Olimpici che verranno per sempre ricordate, un po’ come non si può dimenticare Roma 1960, forse ormai troppo stucchevolmente etichettata come l’ultima olimpiade a dimensione umana, ma di certo l’ultima con un che di romantico, di ingenuamente pulito; o Città del Messico 1968, per tutto quello che successe, sui campi di gara, sul podio e in piazza (delle Tre Culture); o quella macchiata di sangue a Monaco nel 1972. Se quelle furono edizioni indimenticabili per situazioni o episodi ben precisi che accaddero prima o durante i Giochi, quella spagnola sarebbe stata un’edizione che avrebbe fatto epoca, ovviamente per ben altri motivi, fin da quando la FIBA, in accordo con la NBA e il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, decise di aprire le porte delle partecipazioni anche ai professionisti dichiarati e non più solo a quelli di fatto e basta.
La USA Basketball, la federazione americana di pallacanestro che ha inglobato la NBA (il cui peso politico è però preponderante), all’annuncio ufficiale (1989) dell’apertura ai pro decise di allestire una sorta di super formazione che, oltre a vincere, cosa peraltro mai messa in discussione, potesse anche fare opera di proselitismo di consumatori del prodotto-basket americano in generale, e NBA in particolare.
La campagna, a metà fra la crociata di tutela delle chances di vittorie nazionali e la trovata promozionale volta ad aumentare gli introiti, che aveva portato alla vigorosa sterzata verso la volontà di schierare una formazione di professionisti, oltre a scopi puramente lucrativi, aveva comunque alla base una sua certa giustificazione cestistico-patriottica: dopo il brusco risveglio subìto nella precedente uscita olimpica a Seul 1988, con il clamoroso flop di quella che sarebbe stata l’ultima selezione di universitari a partecipare ai Giochi, gli americani volevano ricominciare a sognare, riprendendo le vecchie e sane abitudini di una volta. Insomma, volevano tornare a vincere. E per farlo, ormai i ragazzini, per quanto fenomenali, non bastavano più. Ci volevano i migliori.
L’ultima spedizione USA al torneo di basket dei cinque cerchi, infatti, era stata un autentico naufragio: quella squadra, guidata in panca dal santone John Thompson, il coach di Georgetown, che pure poteva mettere in campo gente del calibro di David Robinson e Mitch Richmond, future stelle assolute nella NBA, ma anche ottimi giocatori come Danny Manning, un fenomeno al college ma sempre rotto nei pro’, Dan Majerle, Hersey Hawkins e Stacey “Plastic Man” Augmon, o degnissimi mestieranti come J.R. Reid o Willie Anderson, non poté far altro che osservare l’allora Unione Sovietica vincere l’Oro. Il messaggio fu chiaro, era giunto il momento di cambiare.
La campagna, a metà fra la crociata di tutela delle chances di vittorie nazionali e la trovata promozionale volta ad aumentare gli introiti, che aveva portato alla vigorosa sterzata verso la volontà di schierare una formazione di professionisti, oltre a scopi puramente lucrativi, aveva comunque alla base una sua certa giustificazione cestistico-patriottica: dopo il brusco risveglio subìto nella precedente uscita olimpica a Seul 1988, con il clamoroso flop di quella che sarebbe stata l’ultima selezione di universitari a partecipare ai Giochi, gli americani volevano ricominciare a sognare, riprendendo le vecchie e sane abitudini di una volta. Insomma, volevano tornare a vincere. E per farlo, ormai i ragazzini, per quanto fenomenali, non bastavano più. Ci volevano i migliori.
L’ultima spedizione USA al torneo di basket dei cinque cerchi, infatti, era stata un autentico naufragio: quella squadra, guidata in panca dal santone John Thompson, il coach di Georgetown, che pure poteva mettere in campo gente del calibro di David Robinson e Mitch Richmond, future stelle assolute nella NBA, ma anche ottimi giocatori come Danny Manning, un fenomeno al college ma sempre rotto nei pro’, Dan Majerle, Hersey Hawkins e Stacey “Plastic Man” Augmon, o degnissimi mestieranti come J.R. Reid o Willie Anderson, non poté far altro che osservare l’allora Unione Sovietica vincere l’Oro. Il messaggio fu chiaro, era giunto il momento di cambiare.
Vista l’incredibile collezione di pesci grossi che, in qualunque maniera si fosse pescato, sarebbe sopravvissuta alla rete delle selezioni, quella squadra, che pure non era ancora stata definita nei suoi membri, fu subito chiamata Dream Team, la Squadra dei Sogni.
Quella stessa squadra, un giorno, sarebbe entrata nella Storia, quella con la esse maiuscola, ma fino a quel momento era soltanto incominciata la “più grande storia mai raccontata”, come fu definito dai media quel lungo e intricato labirinto di più o meno loschi giochetti politici, sotterfugi, ripicche, invidie e gelosie in cui dovette muoversi il comitato di selezione incaricato di diramare le convocazioni. Contrariamente alle nostre abitudini, secondo le quali, per esempio, le vitali convocazioni della Nazionale di calcio sono fatte dal commissario tecnico in una più o meno completa autonomia – Lega Calcio (leggasi grandi club), Federazione e sponsor vari permettendo – e gli altri, compresi i padroni del vapore, si limitano a discuterci sopra, in America il compito di selezionatore non spetta al coach ma ad un apposito comitato incaricato. Naturalmente i pareri dell’allenatore e dei suoi assistenti sono tenuti in considerazione, però non vengono ritenuti vincolanti. Una volta ascoltati i consigli dei tecnici, il comitato decide autonomamente, o meglio: decide, facendo sventolare la propria bandiera verso dove spira il vento più forte.
Quella stessa squadra, un giorno, sarebbe entrata nella Storia, quella con la esse maiuscola, ma fino a quel momento era soltanto incominciata la “più grande storia mai raccontata”, come fu definito dai media quel lungo e intricato labirinto di più o meno loschi giochetti politici, sotterfugi, ripicche, invidie e gelosie in cui dovette muoversi il comitato di selezione incaricato di diramare le convocazioni. Contrariamente alle nostre abitudini, secondo le quali, per esempio, le vitali convocazioni della Nazionale di calcio sono fatte dal commissario tecnico in una più o meno completa autonomia – Lega Calcio (leggasi grandi club), Federazione e sponsor vari permettendo – e gli altri, compresi i padroni del vapore, si limitano a discuterci sopra, in America il compito di selezionatore non spetta al coach ma ad un apposito comitato incaricato. Naturalmente i pareri dell’allenatore e dei suoi assistenti sono tenuti in considerazione, però non vengono ritenuti vincolanti. Una volta ascoltati i consigli dei tecnici, il comitato decide autonomamente, o meglio: decide, facendo sventolare la propria bandiera verso dove spira il vento più forte.
Per quella che sarebbe stata la prima edizione dei Giochi Estivi aperta anche ai pro del basket, Barcellona 1992, c’era un’attesa febbrile e tutti i grandi nomi della NBA avrebbero fatto carte false per parteciparvi, sia per il prestigio di far parte di una formazione dall’irripetibile concentrazione di talento, sia per la possibilità di godere da vicino del rilassante panorama color verde-dollaro dei fiumi di denaro che scorrono sempre in occasione di simili manifestazioni. Anche i lattanti avevano capito che, nell’anno del Dream Team, quel fiume sarebbe diventato un mare, un oceano. Le immagini delle Olimpiadi entrano nelle case di tutto il mondo, una copertura mondiale talmente capillare che neanche le Finali NBA in diretta in mondovisione possono sognarsi di dare: figuratevi l’esposizione planetaria che hanno gli atleti che vi partecipano e immaginate per un momento che cosa significhi per un giocatore della NBA monetizzare, anche solo in minima parte, la popolarità e la notorietà che otterrebbe in seguito ad una propria presenza in una vetrina di questo tipo. E se poi gioca anche da fenomeno, allora si mette a posto economicamente fino alla sua settima discendenza.
La febbre per la possibile convocazione aveva contagiato in pratica tutti gli atleti di spicco della NBA di quel periodo, tranne uno: Michael Jordan. Per lui, un’eventuale partecipazione alle Olimpiadi sarebbe stata solo una scocciatura in più. I Giochi erano in programma durante l’estate e His Airness aveva come principale preoccupazione quella di staccare la spina, di riposarsi mentalmente, prima ancora che fisicamente, dopo una lunghissima, massacrante stagione com’è quella dei pro, e in particolare com’era stata, per lui, quella del 1991-92. Più volte MJ avrebbe dichiarato di non avere intenzione di partecipare alla rassegna olimpica, solo che lo smemorato Michael si era dimenticato di accennare anche agli altri motivi che si celavano dietro il semplice bisogno di riposo. Jordan, come abbiamo visto, alle Olimpiadi c’era già stato, a Los Angeles, nel 1984, e le aveva non solo vinte ma letteralmente dominate, conquistando la medaglia d’oro (con la tara, piccola se vogliamo, ma presente, dell’assenza dei paesi del blocco comunista, che in quell’edizione avevano reso la pariglia al boicottaggio americano di Mosca 1980) ed aggiudicandosi la corona di capocannoniere. “Io avevo già vinto una medaglia d’oro ai Giochi del 1984 – ha ricordato Jordan quattordici anni dopo la sua prima partecipazione olimpica – così il mio primo pensiero è stato quello di permettere a qualcun altro di avere la stessa opportunità. Ma la possibilità di trascorrere del tempo con Larry Bird, Magic Johnson, Charles Barkley e alcuni degli altri ragazzi mi affascinava”.
A dire la verità non sembrava poi tanto, perlomeno a giudicare da un’intervista rilasciata al Chicago Tribune nell’estate del 1991.
In quell’occasione, infatti, il fresco vincitore del suo primo anello NBA aveva fatto capire che non si sarebbe prestato all’infimo giochetto del ricatto e delle pressioni, sostenendo, a ragione, di voler essere lui a prendere la decisione di partecipare o no. Un Jordan particolarmente seccato aveva poi aggiunto di non aver per niente gradito i subdoli discorsetti che qualcuno, non si sa quanto velatamente, gli aveva fatto giungere all’orecchio riguardo ad una sua presunta doverosa dimostrazione di autentico patriottismo che gli sarebbe derivata dall’accettare l’invito a far parte della selezione USA. Michael aveva risposto per le rime ribadendo di amare il suo Paese e di non credere di dover dimostrare di essere un vero americano decidendo di andare alle Olimpiadi. Quello, lui, l’aveva già fatto, in quell’occasione aveva anche vinto l’Oro e oltre a non voler togliere quella possibilità ad un altro voleva godersi l’estate con la sua famiglia. Ineccepibile. O quasi, visto che, oltre al mero fatto tecnico, c’era di mezzo l’eccezionale operazione-marketing del Dream Team. Difficilmente Michael sarebbe stato così libero di decidere come avrebbe voluto. E come sarebbe stato giusto.
I media, intanto, non gli avrebbero dato tregua. “Jordan non regnerà in Spagna - La superstar dei Bulls salterà l’olimpiade”, titolò all’epoca un quotidiano giocando sul fatto che il re del basket si rifiutava di estendere il proprio regno in uno degli ultimi Paesi ancora retti da un monarca, Juan Carlos II.
Dal punto di vista sportivo, Michael era già appagato e per quel che concerne il resto, il suo nome non aveva certo bisogno di ulteriori vetrine: già ricchissimo, per lui le entrate che sarebbero derivate da una sua eventuale partecipazione alla rassegna spagnola sarebbero state comunque briciole e, per quanto riguarda la sua popolarità, beh, lui caso mai aveva il problema opposto, doveva cercare di rifuggire i riflettori piuttosto che andare a cercarseli.
Michael viveva già da un bel po’ all’interno di una prigione dorata, d’oro finissimo ma pur sempre una prigione, e, anche se ancora non poteva saperlo, la pur enorme pressione che stava già sopportando non sarebbe stata nulla in confronto a quella che egli avrebbe dovuto affrontare nel giro di poco più di un anno.
Ma c’era ancora un ultimo motivo, non necessariamente quello di minor importanza, che impediva a Jordan di vedere di buon occhio una sua eventuale risposta affermativa alla (inevitabile) convocazione, vale a dire la probabilissima presenza in squadra del suo acerrimo nemico Isiah Thomas. Abbiamo già anticipato che tra i due non correva buon sangue fin dal lontano episodio del boicottaggio tecnico subito da Michael ed orchestrato in primo luogo da Thomas, nell’ormai arcinoto All-Star Game del 1985, l’anno da matricola di Michael, quando il leader dei Pistons fece in modo che i propri compagni della formazione dell’Est non passassero la palla a Jordan per fargli fare una brutta figura che gli fosse, come dire, di lezione. Altra benzina sul fuoco mai spento dell’astio che ardeva tra i due l’aveva poi gettata lo stesso Isiah, negli ultimi secondi di Gara-4 delle Finali della Eastern Conference del 1991, quando fu lui a guidare, pochi prima della sirena, l’uscita dal campo di tutti e cinque i giocatori di Detroit, per evitare così di rendere omaggio ai Bulls vittoriosi. Dopo quel gesto, notevolmente antisportivo ma di cui Thomas in seguito si dichiarò pentito, anche le già scarsissime (in verità nulle) possibilità di un’eventuale rappacificazione tra i due cessarono di esistere. Ora non rimane che aggiornare quali fossero i rapporti tra Thomas e Jordan al momento delle convocazioni olimpiche, ma l’operazione è di piuttosto rapida evasione: non c’è da aggiungere niente, assolutamente niente. I rapporti non sussistevano affatto. David Falk, il procuratore di Jordan, in un’occasione arrivò a sostenere che “I rapporti tra i due sono freddi da quando Michael era un rookie. I giocatori del Dream Team dovranno vivere a gomito a gomito per 37 giorni, un po’ troppi per tenere così vicini Michael e Isiah”.
Ma forse, non rivelando perché il nome di Thomas sia saltato fuori così all’improvviso, abbiamo corso troppo. Innanzi tutto va subito messo in chiaro che Isiah, che poi potrà piacere o no per quel suo sorrisetto da bravo ragazzo dietro il quale si cela un’anima, secondo molti, non proprio candida di bucato, all’epoca era la miglior point guard pura dell’intera NBA. Che sapesse anche segnare in prima persona, e tanto, considerando il ruolo, è solo un di più. Pertanto era perfettamente logica, anzi doverosa, la sua inclusione nella lista dei convocati, tanto più se si tiene presente che il comitato responsabile di mettere insieme la squadra aveva prescelto, come selezionatore, proprio l’allenatore di Detroit, il suo Chuck Daly. Eppure, strano a dirsi, Thomas non era stato inserito da uncle Chuck, zio Chuck, com’era chiamato Daly per la non verdissima età, nella sua prima lista della spesa. Vale a dire l’elenco, stilato in ordine d’importanza, dei sette giocatori che lui riteneva fondamentali per la spedizione spagnola. Quello che si presumeva dovesse più sponsorizzare Isiah era stato il primo ad accantonarlo. A questo proposito va fatta una precisazione: le qualità chiave che dovevano ispirare le scelte sarebbero state l’ecletticità e la duttilità dei giocatori convocati, questo perché, una volta fatta la squadra, qualunque cosa fosse successa durante il torneo (infortuni o squalifiche), non si sarebbe potuto procedere a ritocchi. Servivano dunque elementi in grado di occupare almeno due (meglio se tre) ruoli e di adattarsi a giocare anche in posizioni che non fossero strettamente le loro. Fatte salve alcune esigenze tattiche, come per esempio la necessaria convocazione dell’imprescindibile coppia di centri costituita da Patrick Ewing e David Robinson, entrambi alla loro seconda olimpiade, che stava dominando la Lega in quel periodo, Coach Daly aveva proceduto nel compilare un secondo elenco nel quale aveva messo sei o sette giocatori per ogni ruolo. Tra la sorpresa di molti, in quella lista d’indispensabili, non figuravano né Thomas (che come point guard era solo la seconda scelta alle spalle di Magic Johnson e davanti a John Stockton e Kevin Johnson) né Larry Bird. Ma se la mancata chiamata di quest’ultimo ci poteva anche stare per l’ovvio motivo che Larry Legend era ormai a fine carriera e con la schiena in pratica a pezzi, per l’esclusione del primo, il clamore fu grande sia perché Isiah era ancora al top sia perché la lista era stata compilata proprio dal suo generale, quello che lo aveva guidato in tante battaglie - è proprio il caso di dirlo - durante le gloriose campagne condotte dalle truppe dei Pistons. Per di più, lo stesso Thomas era uno di quelli che più fortemente volevano partecipare alla manifestazione e, a riprova di questo, c’è da notare che con lui gli incaricati del comitato avevano già incominciato alcuni colloqui esplorativi, seppure soltanto informali, nei loro sondaggi per valutare le disponibilità dei vari atleti papabili. Sui perché e i percome era stata compilata quella lista c’era però sotto qualcosa, anzi qualcuno.
La rinuncia di Michael Jordan, naturalmente, sarebbe stata fatale per l’epopea del Dream Team, non tanto per la squadra in sé, che in ogni caso sarebbe stata di livello tecnico talmente superiore sul resto del globo da poter fare tranquillamente a meno di Jordan, quanto per tutto quello che, in base alla sua scelta di andare o no, poteva essere messo in gioco: l’immensa popolarità, tutto l’indotto, l’impatto sui media. In una sola espressione, l’intero messaggio promozionale, vale a dire il fattore scatenante di tutta l’operazione che, in buona parte, sarebbe derivato dalla sua presenza e che, mancando lui, ne sarebbe uscito, per forza di cose, irrimediabilmente ridimensionato. E questo era un rischio che il comitato (leggasi NBA) non poteva correre. Michael Jordan doveva esserci. Se il fatto di poter avere Michael in squadra fosse stato anche solo minimamente condizionato dalla necessità di privarsi di Thomas, da che parte credete si sarebbe schierato il comitato?
Prima di rinunciare ad un giocatore come il leader di Detroit, però, lo stesso ente incaricato per la selezione degli atleti avrebbe tentato la classica mossa della disperazione. C’era un’ultima cartuccia da sparare, Magic Johnson. Earvin era amico di entrambi i duellanti, ma in modo molto diverso: con Michael era diventato amico da non molto tempo, “Lui ed io abbiamo stabilito un ottimo rapporto dopo i primi tre o quattro anni più difficili”, dichiarò Jordan una volta, mentre il legame d’amicizia che in passato aveva unito Earvin e Isiah era davvero forte.
O così era stato per lo meno fino a quando i due non si erano incontrati in due Finali NBA consecutive, nell’88 (vittoria di Los Angeles su Detroit, 4-3) e nell’89 (viceversa, 4-0), i cui incandescenti andamenti avevano lasciato più di qualche ruggine nell’animo dei due, scorie difficili da smaltire e che li avevano un po’ allontanati. Se poi ci aggiungiamo il fatto che Magic aveva anche instaurato buoni rapporti con Michael, si capisce come mai l’atmosfera tra Magic stesso e Isiah fosse ormai piuttosto freddina.
Eppure il comitato contava sulle qualità di mediatore di Johnson sia perché, proprio per la sua posizione, era il cuscinetto ideale, e forse l’unico possibile, sia perché a quei tempi era la figura di giocatore più ascoltata e influente, anche se quella del 1991-92 sarebbe stata la stagione del suo ritiro (annunciato, come visto nel capitolo sul secondo titolo dei Bulls, il 7 novembre 1991, in seguito alla scoperta d’essere risultato positivo al test HIV). Magic sarebbe tornato in campo solo per disputare l’All-Star Game edizione 1992, diritto acquisito a tutti gli effetti sul campo perché, con un gesto molto bello, la gente lo aveva comunque votato affinché partecipasse sia a quella partita di cui poi fu anche l’MVP, sia, in estate, appunto alle Olimpiadi.
Michael Jordan, troppo furbo per agire diversamente, nel frattempo aveva sempre evitato di dichiarare ufficialmente che non sarebbe andato a Barcellona, anche se tutti davano, se non proprio per scontato, almeno per più che probabile, il suo forfait. Quindi, sempre ufficialmente, il problema Thomas s“/Jordan no (o viceversa, a seconda dei colori del tifo) non sussisteva.
Magic, tecnicamente, avrebbe avuto tutto il tempo e il terreno per intervenire e cercare di appianare gli eventuali dissapori tra il numero 23 dei Bulls e il numero 11 dei Pistons, ma non ne aveva la volontà. E non tanto per evitare di immischiarsi, come aveva fatto nella precedente diatriba tra MJ e Isiah, risalente alla stagione ‘90/91, relativa a quella famosa sfida di uno-contro-uno proposta allo stesso Johnson e a Jordan e sulla quale Thomas, in qualità di presidente dell’Associazione Giocatori, aveva posto il veto. Là Magic non era voluto entrarci. Qui invece non aveva voluto prodigarsi perché ce l’aveva con Isiah. Il piccolo Zeke, infatti, a sentire la campana dell’ex Laker, l’aveva fatta grossa: Magic era certo che fosse stato proprio il suo ex grande amico a lasciar trapelare le voci (non si sa ancora se fondate) su come Johnson avesse contratto il virus HIV. Thomas – era la convinzione di Magic – avrebbe spifferato a un giornalista che lo stesso Earvin sarebbe rimasto contagiato per aver avuto rapporti anche omosessuali, oltre che con donne diverse, com’era risaputo. Non si può però certo sostenere che fu Johnson a mettere Thomas e Jordan uno contro l’altro, semplicemente si astenne dal compiere un qualsiasi passo che avrebbe favorito, se non una (improbabile) rappacificazione, quanto meno un riavvicinamento.
Rod Thorn, ex general manager dei Bulls dal 1978 al 1985, ora vicepresidente operativo NBA, all’epoca aveva tra i suoi compiti quello di mettersi in contatto con i giocatori per conoscere la loro eventuale disponibilità, questa volta definitiva, ad andare a Barcellona. Thorn, braccio destro del Commissioner NBA David Stern, fece la temuta telefonata a Jordan e con (non solo suo) grande conforto si sentì rispondere di sì da His Airness riguardo alla sua partecipazione, e, per di più, senza che questi gli ponesse particolari vincoli (ovverosia l’esclusione dell’odiato Thomas dalla rosa dei convocati).
Dopo aver tirato un primo lunghissimo sospirone di sollievo, però, adesso Thorn doveva chiarire un ultimo, significativo dettaglio. Era vero che Jordan non aveva fatto alcun cenno a Thomas, ma era altrettanto vero che la cosa poteva dare adito ad ambigue interpretazioni: se Thorn avesse scelto anche Isiah, come avrebbe reagito Jordan? Valeva la pena inimicarselo? Aveva senso aggiungere un simile potenziale esplosivo a uno spogliatoio già carico dalla dinamite di tutti quegli enormi ego, che sarebbero stati riuniti in quella squadra così ricca di superstar? Nello stilare il primo elenco di otto giocatori, neanche a dirlo, il pur fortissimo Isiah non fu minimamente tenuto in considerazione. Ma ora il roster andava completato in fretta perché il tempo stringeva e in formazione, per il momento, c’era ancora una sola vera point guard di ruolo, Earvin ÒMagicÓ Johnson. La corsa per il posto di secondo playmaker vedeva protagonista, oltre a Isiah, lo straordinario John Stockton, a sua volta strameritevole di partire addirittura in quintetto in cabina di regia, figuriamoci di partecipare.
All’interno del comitato si creò una spaccatura: da una parte Jack McCloskey che, in virtù della sua carica di GM dei Pistons, non poteva che tirare la volata al suo pupillo Thomas; dall’altra, il resto del comitato. Troppo timoroso di infastidire re Jordan, il collegio dei saggi decise (mica tanto) salomonicamente che tutto sarebbe filato più liscio se sua maestà non fosse stato in alcun modo disturbato: Thomas, le Olimpiadi del ‘92, le avrebbe viste in tivù. Tutto questo accadeva a circa sei mesi dall’ultima data utile per la comunicazione della lista ufficiale dei convocati, così facendo il comitato aveva creduto di essere sempre in tempo aÉ pararsi il fondoschiena qualora fossero avvenuti degli sviluppi tali da consentire all’ultimo momento l’inserimento indolore di Thomas nel gruppo.
Purtroppo, però, il fragile progetto si sfasciò sul nascere perché immenso fu il polverone sollevato dalle polemiche (comunque inevitabili, a prescindere dalle mosse del comitato) che seguirono l’annuncio delle convocazioni.
Per tutta risposta alla bocciatura di Isiah (l’ultimo biglietto per la Spagna, quello che avrebbe dovuto essere il suo, lo staccò Clyde Drexler, altra superstar di prima grandezza), lo stesso McCloskey rassegnò al comitato le proprie dimissioni; il buon Daly che, in procinto di mollare i Pistons non si era sbattuto più di tanto, ebbe parole di circostanza; Magic redasse uno di quei comunicati stampa che sanno tanto di barzelletta in cui faceva notare di essere triste per la mancata convocazione di Thomas.
In quelle poche righe, però, Earvin, forse per colpa di una strana dimenticanza, aveva mancato di riportare che non aveva fatto assolutamente nulla per ricomporre la frattura tra i due grandi litiganti. Mentre Jordan, dal canto suo, si limitò a smentire ufficialmente di aver avuto alcun ruolo nella vicenda.
E anche se formalmente era vero che lui non aveva posto veti, quel suo malizioso sorrisetto di ben celata soddisfazione, che partiva da un orecchio e gli arrivava all’altro, qualcosa tradiva. Dopo aver escluso Thomas, spalleggiato, oltre che dal non intervento di Magic, anche da Scottie Pippen e Charles Barkley, e per giunta senza muovere un dito, Jordan aveva vinto la sua personale Campagna di Spagna ancora prima di partire.
La Squadra dei Sogni
Negli spogliatoi dello United Center, appena terminata quella Gara-6 che aveva dato ai suoi Bulls il secondo titolo NBA consecutivo, dopo tutto quello che aveva passato durante l’annata, MJ scherzava davanti alle telecamere dicendo: “Giochiamo a golf ogni giorno. Se Chuck Daly mi fa giocare più di dieci minuti [a partita], mi ritiro”.
“La mia più grossa preoccupazione – si era lamentata la superstar, che al ritorno da Barcellona avrebbe chiuso due anni di basket giocati ininterrottamente –, come ho sempre detto, è: Avrò il tempo per rilassarmi? Per qualche ragione è accaduto lo stesso e mi sono trovato a far parte di questa squadra”. Un grande entusiasmo, non c’è che dire. Anche se poi lo stesso MJ aveva cercato di metterci una pezza affermando che “era stata una stagione lunghissima. Per me era durata undici mesi, ero psicologicamente stremato. Ma far parte del Dream Team è un’occasione che capita una sola volta nella vita, quindi era facile affrontare qualche sforzo in più”.
Che Jordan, di fare quella gran sfacchinata dei Giochi, non ne avesse una gran voglia, non ci voleva uno psicologo per capirlo. Ma tant’è: ormai la NBA, la USA Basketball e, buoni ultimi, la Nike e gli altri suoi sponsor personali lo avevano convinto della straordinaria eccezionalità dell’evento Dream Team, e dunque di una vetrina planetaria, quindi Air, in Spagna, quell’estate ci sarebbe andato. Ma più per scovare nuovi percorsi di golf che per battere il resto del mondo cestistico.
I compagni di viaggio di MJ in quella che sembrava più una vacanza di lusso (i giocatori sono partiti con le famiglie al seguito), condita magari da una campagna promozionale su scala mondiale, che una trasferta per una manifestazione sportiva, erano i più grandi campioni mai messi assieme in un’unica formazione nella storia dello sport. Charles Barkley, Larry Bird, Clyde Drexler, Patrick Ewing, Karl Malone, Chris Mullin, Scottie Pippen, David Robinson, John Stockton. Questi non sono soltanto i nomi - rigorosamente in ordine alfabetico - dei dieci più grandi giocatori professionisti che, assieme all’escluso Isiah Thomas, hanno fatto la storia della NBA degli anni ‘80 e ‘90, sono anche quelli che hanno costituito il più forte gruppo di cestisti mai assemblato. Questo gruppo era stato pomposamente presentato come la Squadra dei Sogni ma, per una volta e per tali superstar, la proverbiale boria americana, sembrava perfino troppo misurata.
Agli undici fuoriclasse della National Basketball Association era stato aggiunto, per i soliti motivi d’immagine, politici e di quant’altro di poco pulito vi sovvenga per circostanze simili, un giocatore di college, quel Christian Laettner, un’ala forte di 2.09 m, senior, uscito da Duke, dove si era appena messo in tasca il titolo NCAA il premio di Giocatore dell’anno di college. Ma il bello e vincente, almeno all’università, Christian, però non era che l’ultimo nato della cucciolata: il Big Dog, il Cane adulto del branco, si era autoproclamato, infatti, lo sfortunato, immenso Magic, la cui presenza alle Olimpiadi aveva suscitato smodata commozione in tutto il mondo. Johnson considerava tutti gli altri, Jordan compreso, come dei cuccioli cui badare e a MJ non pareva vero di vestire i sommessi panni che quel comodissimo e per lui nuovo ruolo di secondo piano comportava: “Rimanendo in secondo piano ho partecipato solo per divertirmi, dichiarò Michael a cose fatte. “Ricordo che subito dopo il mio arrivo Chuck Daly mi ha detto: ‘Vuoi essere il capitano della squadra?. Abbiamo già Larry e Magic, vuoi essere il terzo capitano?’. Ho risposto di no. Sono le loro prime Olimpiadi, per me no, anche se loro sono più vecchi di me. E poi, è una responsabilità tremenda il cercare di tenere tutti quegli ego sotto controllo”.
Un esempio di quella tremenda responsabilità che qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto assumersi fu trovato da Ahmad Rashad, celebre ex campione di football americano, ora inviato della NBC e amico personale di Michael. Presentatosi al ritiro di preparazione dei dreamteamers con la troupe del suo canale, Rashad aveva chiesto a MJ e a Patrick Ewing chi, in mezzo a quella parata di stelle, avrebbe preso l’ultimo tiro dell’incontro nel caso in cui questo fosse stato decisivo per le sorti della gara. La risposta dei due, americanissima, fu un “me”, io, esclamato all’unisono dallo stesso duo protagonista (divertito) del simpatico siparietto. Tutto molto televisivo. Parlando di un ipotetico, improbabile caso di tiro decisivo, abbiamo fin troppo saggiamente usato il condizionale. In realtà, come avremo modo di verificare tra breve, la probabilità che tale rischio si potesse correre era molto vicina a quella dell’evento che gli statistici definiscono impossibile, zero. Ewing e Jordan, ormai da dieci anni rivali e compagni, prima al college poi alle Olimpiadi del 1984, poi nella NBA e ora alle Olimpiadi 1992, però avevano solo scherzato.
Un po’ come avevano fatto i dreamteamers in tutto il periodo di preparazione al Torneo Preolimpico di Portland, fase tenutasi a La Jolla, in California, nello splendido angolo di mondo che il Creatore ha riservato agli abitanti di quella magnifica cittadina dalle parti di San Diego, fu improntato all’insegna dell’allegria e della più sane delle competitività. In occasione delle foto ufficiali con le divise del Dream Team nuove di zecca, per la copertina della rivista di prestigio mondiale Newsweek, fu sistemato un improvvisato podio, ovvio simbolo di quello olimpico, sul cui gradino centrale (il più basso e in avanti) era salito naturalmente Jordan, il numero uno, e su quelli appena dietro, alla sua sinistra Bird e alla sua destra Magic, a seconda dei gusti, numeri due e tre della Lega. I tre assi, non riuscendo a star seri, si prendevano in giro l’un l’altro. “Non si può andare troppo vicino a Michael, è fallo!” lo stuzzicava Magic. “Non commetti fallo da un anno e mezzo, che cosa ne sai tu? Non sei mai uscito per falli in vita tua. Sei mai uscito per falli?”, replicava Air sotto un divertito Bird.
Essendo appena terminata la serie finale del campionato NBA, Coach Daly pensò bene di non pigiare troppo forte sul pedale dell’acceleratore e predispose allenamenti tarati ad hoc. Senza forzare il livello di tensione e non dispensando carichi di lavoro eccessivi, l’head coach olimpico aveva centrato l’operazione tecnicamente più difficile dell’intera spedizione: non stare sull’anima ai senatori della squadra, che, in questo caso, tolto il collegiale Laettner, erano 11 dei suoi 12 componenti. Il resto, la necessaria ferocia negli allenamenti, l’avrebbero messa infatti proprio le stelle, che si sarebbero sfidate ad inauditi livelli di intensità. Jordan, per esempio, aveva appena finito di umiliare Drexler nella serie Finale che aveva dato ai Bulls la vittoria nel campionato NBA 1991-92. Ebbene, Michael era ancora talmente carico da quel successo su Clyde che durante uno scrimmage in cui si era un po’ lasciato andare nel provocarlo per la scoppola da questi appena presa e in ulteriori dimostrazioni di forza sul campo, che gli stessi compagni e avversari di partitella dovettero intervenire per riportarlo alla realtà.
A riprova dell’incredibile livello delle competizioni - stiamo sempre parlando di una fase di raduno che precedeva il torneo Preolimpico, non quello Olimpico - basti pensare che una delle partite amichevoli organizzate come preparazione vedeva in programma la sfida con una selezione mista di talenti del college.
Preso l’appuntamento sottogamba, il Dream Team si ritrovò sconfitto (52-58) da ragazzini che presto sarebbero diventati grossi nomi NBA quali Anfernee “Penny” Hardaway, Allan Houston, Jamal Mashburn e l’ex Fab Five di Michigan Chris Webber. Questi talentuosissimi universitari commisero però un grosso errore: dopo aver inaspettatamente e incredibilmente vinto contro gente che fino al giorno prima avevano visto tutt’al più in tivù, festeggiarono in un modo un po’ eccessivo e forse troppo da esponenti della X-generation, uno stile non troppo amato dai veterani della Lega, Jordan in primis. Morale: il giorno successivo, il Dream Team, accecato da una trance agonistica già degna delle Olimpiadi, surclassò i presuntuosetti ragazzi-prodigio di ben 56 punti.
Il Principato di Michael
Si partì poi per l’Europa e il luogo, la bellissima e ultrasofisticata Montecarlo, non poteva non colpire gli americani, da sempre vittime del loro (unico) complesso di inferiorità per tutto ciò che ha un qualcosa di francese.
“Uno dei posti più belli è stato Montecarlo”, ricorda Michael di quel periodo di rifinitura della preparazione. “Siamo andati là per allenarci, ma avevamo anche del tempo per lo svago. E questo, per me, significa solo una cosa sola. Il golf. Michael, tra quegli scenari stupendi, aveva solo l’imbarazzo della scelta: quale green preferire per andare a giocare quella che ormai era qualcosa di più di un semplice mezzo per distrarsi e rilassarsi. “Ci sono andato con Chuck Daly, Rod Thorn e gli altri con i quali gioco”, ha detto Jordan di quei percorsi, fatti, tra gli altri, anche con Doctor J e l’assistente allenatore P.J. Carlesimo. “Non c’erano carrelli elettrici, dovevamo spostarci a piedi su e giù per le colline. A tratti era molto faticoso ma era comunque un’evasione”.
Messe via però mazze e palline, il livello di competizione, anche in quelle partitelle a poche settimane dal via dei Giochi, era alto come nel periodo trascorso a La Jolla, anzi, se possibile, l’elettricità cresceva con l’approssimarsi dell’esordio olimpico. Michael, in mezzo a guerrieri che avevano dentro di sé il suo stesso (be’, quasi) fuoco competitivo, si divertiva un mondo. “Ho partecipato alle Olimpiadi – disse ripensando al periodo monegasco – anche per constatare di persona come si allenano gli altri, per vedere se affrontano gli allenamenti con la stessa serietà delle partite. Ogni seduta è stata molto intensa. Quando una squadra perdeva il primo tempo di una partitella, era motivata ad impegnarsi di più per vincere il secondo”.
In una di queste partitelle in famiglia, si scatenò una tale battaglia fra i due quintetti che i pochi fortunati che poterono vederla ne riportarono narrazioni entusiastiche. “Volavano tanti insulti in campo – tornava sull’episodio Jordan – Magic ne diceva più di tutti. Voleva far sapere che era tornato, faceva il gradasso e si caricava al massimo. Barkley provocava gli avversari, Clyde faceva lo stesso, perfino Magic e io lo facevamo. ‘Io ho vinto cinque campionati, noi facevamo così’, bla-bla-bla… ‘Ora c’è un nuovo re sulla piazza’ – si era sentito rispondere per le rime il “Big Dog” dall’insolente e divertito young puppie Michael, che si riferiva a se stesso – ‘Ti sei ritirato, se vuoi tornare a giocare questo è il trattamento che ti puoi aspettare’. Comunque fossero andate le Olimpiadi, nulla avrebbe potuto eguagliare quello che era successo a Montecarlo. È stato il periodo più divertente”. In quella partitella pare che Michael si fosse divertito a tal punto da segnare, in un particolare momento dello scrimmage, sedici punti consecutivi.
Trattandosi di un allenamento, non ci furono né tabellini né videocassette: dobbiamo attenerci a quanto riportato dagli astanti. Ma cifre o non cifre, basta ricordare l’espressione regalata da Barkley alla punzecchiatura arrivata puntuale da Mike e riportata nel suo secondo homevideo, Air Time: “Charles, ti è piaciuta la lezione che ti abbiamo dato?”. Barkley si disseta, scuote la testa ma non risponde, anche lui senza parole.
Arriva finalmente il momento di partire per Barcellona e, in patria, qualche critico particolarmente tagliente si lascia andare a dotte elucubrazioni secondo le quali, in buona sostanza, i dreamteamers avrebbero fatto bene a darsi una calmata, a essere più disciplinati e a non lasciarsi andare, in panchina, a indisponenti ostentazioni di eccessiva sicurezza di sé. Il troppo entusiasmo dovuto alla facilità degli incontri – si sosteneva in qualche pezzo – avrebbe potuto urtare la suscettibilità degli inviati di tutto il mondo che vi avrebbero visto l’ennesima esibizione dell’immagine di Ugly American che gli statunitensi si sforzano di sciorinare in tutte le competizioni agonistiche di livello internazionale. L’atteggiamento mentale che i dreamteamers avrebbero tenuto nell’imminente Campagna di Spagna si può intuire dalle parole di re Jordan. “Eravamo ansiosi di dimostrare che la nazionale degli Stati Uniti era in grado di soddisfare le aspettative di tutti e di assolvere il proprio compito. Eravamo come dodici Clint Eastwood: prima dell’inizio della partita stringevamo la mano agli avversari, ma, dopo la palla a due, la pace era finita. Non si trattava di vincere ma di vedere con che punteggio avremmo vinto, e di sapere di quanto eravamo più forti. Non c’era tensione né ansia, mi alzavo e andavo a giocare a golf e a basket. Mi sono divertito. Ho avuto la possibilità di fare amicizia con alcuni ragazzi della squadra. Una notte siamo rimasti in piedi fino alle tre o le quattro del mattino. Eravamo io, Larry e Magic. Ci siamo messi a parlare delle partite passate, dei tempi passati, e abbiamo chiacchierato per ore. é stato molto divertente e ho conosciuto meglio l’aspetto umano di quei due giocatori. Questa è una delle ragioni per cui ho voluto far parte della squadra. Conoscere gli altri come persone, non solo come giocatori”.
La corsa all’oro
Neanche il tempo di finire di leggere gli articoli della stampa connazionale sulla prosopopea della propria rappresentativa, che a coach Daly deve essere preso un mezzo colpo. Pronti-via e il solito Barkley, guarda caso etichettato come The Ugly American, nella gara d’esordio, il 26 luglio, si produsse in un’inutile quanto vigliacca gomitata a un giocatore angolano. Fu un gesto talmente stupido da commentarsi da sé. Michael, che di Charles è forse l’unico amico nella NBA, ne spiegava così l’incomprensibile atteggiamento: “Charles è uno dei migliori amici nell’ambiente e in molti si chiedono il perché.
Lo chiamano il brutto americano per via dell’aspetto aggressivo e del suo fare prepotente. A volte gli americani sono così, quando giocano contro altri Paesi. Siamo talmente orgogliosi che vogliamo dominare”.
E che abbiano dominato, sul campo, non si può certo negare. Il risultato della gara, ovviamente scontato, fu di 116-48: lo scarto di 68 punti fece letteralmente impressione. Il Dream Team aveva tirato col 68 percento e, ad un certo punto, nel primo tempo, aveva realizzato un parziale di 46-1É Jordan aveva giocato 18’ e segnato appena 10 punti tirando con un modesto 5/10 dal campo (0/2 da tre), senza andare in lunetta, aveva catturato 2 rimbalzi difensivi e smazzato 2 assist, con due falli commessi. Barkley era stato il miglior marcatore della squadra con 24 punti mentre Magic aveva servito 10 assist. Un imprudente signore della delegazione angolana aveva commesso l’imperdonabile ingenuità di sostenere che nella NBA in pratica non si difendeva. Ebbene, i membri della Squadra da Sogno gli fecero capire di aver detto una cosa (ehm) inesatta effettuando 30 (!) recuperi e tenendo i poveri angolani a un eloquente 25% dal campo.
Il giorno 27 Chuck Daly fu severissimo: “Ho permesso a Michael di giocare solo nove buche oggi perché volevo che fosse pronto per la partita di stasera contro la Croazia, formazione che in tanti danno come sicura sul podioÈ. A saperlo, Chuck Daly gliene avrebbe fatte tirare 18 di buche, così, forse, Jordan avrebbe preso meglio la mira: per MJ, nei 28’ in cui è stato in campo, 21 punti, ma con un (per lui) scandaloso 9/22 (2/5 da tre) al tiro, 1/3 dalla linea, 2 rimbalzi equamente distribuiti nelle due estremità del campo, 3 assist e 3 falli personali.
Gli USA avevano ancora una volta maramaldeggiato (103-70).
L’occasione dell’incontro con i croati era stata colta dai “Dobermann” – come gli allenatori dei Bulls avevano soprannominato, per l’asfissiante difesa, Pippen e Jordan (con l’aggiunta di Horace Grant) – per sottoporre a un probante test Toni Kukoć, loro futuro compagno a Chicago.
Quelli erano i tempi in cui Jerry Krause, il GM della franchigia dell’Illinois, si era follemente innamorato della straordinaria tecnica dell’allora trevigiano e della suaÉ apertura alare. “M’immagino, un giorno, quei tre là in difesa [Jordan, Pippen e Kukoć, nda] con le braccia aperte che coprono, in larghezza, tutto il campo. E, poi, una volta rubata palla, il contropiede: Jordan con al fianco Pippen e Kukoć…”.
Krause andava già in brodo di giuggiole: una point forward di 2.07, molto completa e veloce, dai fondamentali straordinari che sapeva passare, tirare (da due come da tre) e penetrare, soprattutto tagliando da destra verso sinistra, sfruttando l’arto superiore mancino, che gli permetteva numeri a sensazione. The Croatian Sensation, appunto, l’altro suo prossimo soprannome, quello che lo avrebbe accolto in America. Chi non l’avrebbe accolto benissimo sarebbe stato Pippen.
Niente di personale, ma il povero Scottie, nonostante tutto quello che da ani stava dimostrando (e vincendo) sul campo, si vedeva sempre posposto dal management il rinnovo del contratto, e intanto Krause inseguiva (con gli zeri di Reinsdorf) uno come ’sto Kukoć, che nella NBA ancora doveva metterci piede. Logico che la cosa stesse appena appena sullo stomaco a “Da Pip”, che, voleva almeno esaminare di che pasta (non solo tecnica) fosse fatto il croato.
Responso del test: per Kukoć solo 4 punti e 2/11 al tiro. “Non ho mai visto una difesa del genere, prima d’ora. Fin dal primo momento, Scottie mi è stato sempre appiccicato”, ha detto a gara conclusa il croato.
Due giorni dopo la sfida con la Croazia (l’unica squadra per la quale il Dream Team si era curato di fare una seduta al videotape per studiarne i giochi), il 29 luglio, toccava alla Germania dei vari Schrempf (già nella NBA) e Blab (presente anche a Los Angeles ‘84), ma ancora normale amministrazione (più di quanto lo stesso Daly si aspettasse) per i dreamteamers: 111-68, e tutti in albergo.
I croati, almeno per un po’, erano stati in partita; i tedeschi, invece, sembrava si fossero fermati al parcheggio del palazzo dello sport. Per la buona difesa USA, c’era stato subito un ampio break americano (28-8 dopo i primi 12’) e si era arrivati all’intervallo già sul 58-23. Poi, buio pesto. Jordan (15 punti nei 24’ di impiego) migliorava la sua produttività nelle conclusioni, 7/8 da due (ma male da tre, 0/2, e dalla lunetta, 1/4), raccoglieva un solo rimbalzo (offensivo) ma, viste le indisponibilità di Stockton (impossibilitato a giocare sin dalla seconda gara del torneo di preparazione denominato Tournament of the Americas) e di Magic per l’infortunio a un ginocchio rimediato con la Croazia, era riuscito a vestirsi dei panni della point guard pura andando a smazzare 12 assist. MJ chiudeva l’incontro con appena un fallo e, soprattutto, senza perdere un pallone che fosse uno. Contro i teutonici, da ricordare la grande prestazione di Bird che aveva fornito prova delle sue grandi doti di passatore, accumulando anche 19 punti.
Il 31 luglio Jordan e le altre stelle di quel Sogno fattosi squadra incontrano il Brasile. La vigilia era stata movimentata, se così si poteva dire (ma non si poteva) dall’intervista rilasciata da Charles Barkley al quotidiano USA Today. “Non vediamo l’ora di affrontarli”, aveva detto l’Americano “brutto e cattivo”. “Risale tutto ai tempi [del Preolimpico] di Portland, quando avevano dichiarato che sarebbero stati il nostro incubo peggiore. Avevano sostenuto che non li avremmo presi sul serio, che eravamo troppo impegnati a giocare a golf e stupidaggini simili. Be’, lo vedremo venerdì. Vedremo chi sarà e di chi sarà l’incubo peggiore. Io non vedo l’ora. Si trovano nei guai, e credo che lo sappiano anche loroÈ. Per far capire, al di là delle bellicose, ma assolutamente nel suo stile, dichiarazioni di Chuck Barkley, quanto fosse agitata la comitiva del Dream Team, sarà sufficiente riportare come i Nostri avessero trascorso il giorno prima della gara. Per preparare l’incontro coi carioca, gran parte dei giocatori, assieme agli assistenti allenatori Lenny Wilkens e Mike Krzyzewski, si recarono a fare il tifo per la nazionale americana femminile, nella vittoria (111-55) ottenuta contro la Cecoslovacchia. I brasiliani erano parsi inizialmente concentrati e presenti, poi, mollati gli ormeggi, era venuto giù il diluvio: gli Stati Uniti erano passati molto rapidamente dal 17-15 al 34-21, poi erano scappati via. Il punteggio di 127-83 (mai una squadra olimpica aveva segnato tanto) non rende abbastanza giustizia della sensazione di dominio espressa sul parquet. Come ha detto Coach Daly, “Se il Brasile fosse stato competitivo un po’ più a lungo, avremmo potuto segnarne 150”.
Paradossalmente, l’aver tirato i remi in barca prima del tempo li aveva solo fatti naufragare (44 punti di scarto) anziché annegare.
Barkley, neanche a dirlo, aveva fatto seguire alle parole i fatti, giocando un’altra partitissima: aveva segnato 30 punti (12/14 dal campo) e giocato una grandissima difesa sullo spauracchio Oscar Schmidt (capocannoniere del campionato italiano l’anno prima a 38 di media) limitandolo a un misero 8/25.
Il cecchino Oscar, inoltre, aveva ottenuto molti dei suoi 24 punti a contesa ampiamente decisa. Jordan (15 punti, con 5/10 al tiro, 1/3 da tre; 4/5 dalla linea; 2 rimbalzi difensivi e 7 assist), leggermente influenzato nelle immediate ore prima dell’incontro (non eravamo certo agli eroismi di Gara-5 delle Finali contro Utah di cinque anni dopo), aveva suo malgrado accentuato le (relative) deficienze nel reparto degli esterni-dietro che avevano caratterizzato l’inizio di competizione del Dream Team: con Magic e The Stock rotti e Jordan debilitato, Chuck Daly era stato costretto a impiegare in regìa Pippen per più minuti del normale (27), facendolo coadiuvare da sporadiche apparizioni nel ruolo di play da Chris Mullin e da Clyde Drexler, due che con la palla non ci litigavano di certo. Forse, e lo diciamo sottovoce, quasi con la paura che ci senta Michael, se ci fosse stato Isiah.
Finalmente, per la gara contro la Spagna, Magic e Stockton avevano espresso il loro desiderio di poter giocare almeno cinque minuti, e questo, per la prima volta dalla gara iniziale di Portland, rendeva disponibili tutti e dodici gli effettivi della Più Grande Squadra Mai Assemblata. Povera Spagna. Naturalmente, in quell’appuntamento del 2 agosto, per Uncle Chuck c’era anche il rovescio della medaglia, il che voleva dire problemi di distribuzione di minuti perché Daly chiaramente non poteva dare ai componenti del roster i minuti che avrebbero voluto.
Il coach allora aveva deciso di regolarsi così: avrebbe inserito Stockton nella rotazione del primo tempo, e Magic in quella del secondo; cos“ facendo avrebbe consentito ad entrambi un giusto riscaldamento per prevenire al massimo ogni eventuale rischio di ricadute. Gli americani vincevano 122-81, dopo aver atteso appena una decina di minuti prima di accendere le polveri. E tra i marcatori c’era stato finalmente il gradito esordio (naturalmente con una tripla) di Stockton, ormai tornato a tutti gli effetti a pieno servizio. Michael, contro gli iberici, era stato normale: nei suoi 22’ in campo, aveva segnato 11 punti (5/16 da due e 1/3 da tre e nessun libero), preso 3 rimbalzi (di cui 2 in attacco) e regalato 5 assist con l’aggiunta del solito fallo commesso.
Il bilancio della prima fase era di 5-0, gli USA erano al primo posto del raggruppamento A e gli unici a punteggio pieno, adesso aspettavano di conoscere gli avversari che avrebbero massacrato nei Quarti di finale. Sarebbero stati i portoricani.
L’unico incidente che era occorso nella, come potete immaginare, tutt’altro che agitata vigilia, era stato quello della doppia scarpa destra di Drexler. Come sempre acutissimo, Charles Barkley si consegnò all’immortalità di genere commentando: “Lo so che voi a Portland siete un po’ tonti, ma neanche Jerome Kersey sarebbe venuto all’allenamento con due scarpe destre”.
Per fortuna che il sempre previdente Larry Bird ne aveva un paio di riserva. Questi americani, alle Olimpiadi, devono avere proprio la testa fra le nuvole; nel 1984, prima della finale contro la Spagna, Jordan si era scordato la divisa blu; nel 1992, prima dei quarti, Drexler si scorda la scarpa sinistra... Mah! Per quanto riguarda il basket vero e proprio, invece, contro Portorico, che aveva battuto bene la Comunità degli Stati Indipendenti (come si chiamavano all’epoca le ex repubbliche dell’URSS) e che il Dream Team aveva già incontrato durante la preparazione a Portland, la musica non sarebbe cambiata: 38 punti di scarto (115-77, con un Michael pessimo nelle realizzazioni: 4 punti con 1/11 al tiro, 0/2 da tre, 2/2 ai personali, 2 rimbalzi in difesa e 1 in attacco, 4 assist, con 2 falli), curiosamente lo stesso margine che gli USA gli aveva inflitto al Preolimpico, sempre a Rose City. Scegliendo un quintetto abbastanza strano che vedeva Magic e Stockton (due point guard purissime) nel backcourt, Pippen e Mullin a scambiarsi gli spot delle ali e l’ala forte pura Laettner nelle insolite vesti di centro, che aveva utilizzato a primo tempo inoltrato per ovviare a problemi di falli, Daly riteneva di poter sfruttare le buone doti di palleggiatori e tiratori per continuare ad aprirsi la strada fino al reingresso delle truppe d’assalto che avrebbero chiuso la questione, se mai fosse stata aperta da quando era stato espletato il tip-off. Il Dream team aveva incominciato a prendersi tiri smarcati e non aveva più smesso: 67-40 all’intervallo. Portorico abbozzò un timido tentativo di zona-matchup che non aveva permesso agli americani di correre, ma la bastonatura era arrivata lo stesso, seppure per altre vie. In quel martedì sera, però, il vero MJ non s’era visto. “Ieri sera ero nel pallone, non riuscivo a segnare”, aveva dichiarato Michael il giorno dopo, consapevole della sua serata no. Il mercoledì mattina era stato dato libero da coach Chuck Daly, perché la squadra non aveva potuta far ritorno in hotel prima dell’una e, tra cena e ora d’aria, gli atleti più reclamizzati di sempre non sarebbero andati a dormire prima delle tre. “Una fatica inutile”, aveva detto Daly di un eventuale allenamento mattutino. E così il coach e il gruppo si sarebbero rivisti nella serata per una morbida sessione di tiro. Jordan approfitta della (tarda) mattinata libera per andare a godersi lo stadio olimpico: il mitico, bellissimo Stadio Montjuic di Barcellona.
“Lo Stadio Olimpico: è magico, tutti i più grandi atleti ci sono passati”, dice Michael in quello spezzone che andrà poi a far parte della sua VHS Air Time. “Standoci di persona ho potuto verificare [per modo di dire: l’impianto era vuoto, N.d.A.] le condizioni in cui si gareggia, capire la pressione alla quale anche loro erano stati sottoposti. Pensate a Edwin Moses: ha vinto 122 gare consecutive; Bob Beamon: ha saltato quasi nove metri. Non so se sarei riuscito a partecipare ai Giochi in quella atmosfera. Per me è importante fare parte di una squadra, ma nell’atletica non c’è squadra, ci sei solo tu contro i migliori del mondo. é enorme la pressione che devi affrontare. Pochi hanno l’occasione di partecipare alle Olimpiadi e io sono felice di essere tra questi. Quanti vorrebbero avere una medaglia d’oro? Credo sia importante avere qualcosa da tenere caro e sono certo che i miei figli lo apprezzeranno molto, un giorno”.
È tempo di semifinale. Sulla propria strada, il 6 agosto, il bulldozer Dream Team trova un sassolino tosto ma pur sempre troppo piccolo per uno schiacciasassi simile: la Lituania del duo da NBA Arvydas Sabonis (poi ai Portland Trail Blazers), il 2.19 m che aveva guidato la selezione sovietica per almeno un decennio, probabilmente il centro extra-NBA più famoso al mondo, e Sarunas Marciulionis (ai tempi ai Golden State Warriors), ma anche Kurtinaitis e Karnisovas.
Oltre ai due mostri sacri, i lituani avevano una batteria di buoni tiratori e per questo gli USA avrebbero impostato la gara su una difesa durissima, in modo da forzare gli avversari a conclusioni mal selezionate. Il punteggio di 127-76 (51 punti di scarto in una semifinale olimpica!) lasciava pochi dubbi sull’efficacia della tenuta difensiva degli States. Michael si era finalmente svegliato: in 22’ ben 21 punti (miglior marcatore della squadra), con 9/18 al tiro (nessun tiro da tre), 100%dalla linea (3/3), 3 rimbalzi (in difesa), 4 assist e 2 falli commessi. Jordan aveva tenuto bene a freno Marciulionis che, nonostante i suoi ottimi 20 punti finali, era stato limitato da Air a un modesto 6/17 al tiro e, dato ancor più significativo, era stato indotto alla bella cifra di 7 palle perse. Indovinate per colpa di chi. Il lituano, inoltre, era andato in lunetta solo sei volte, ed erano molto poche per i suoi standard.
Michael in mattinata aveva giocato a golf e completato un percorso di 27 buche, e aveva dormito bene. Queste, secondo Daly, le chiavi della sua buona prestazione.
Gli USA, che avevano preparato la gara con uno shootaround (la sessione di tiro) di soli quarantacinque ma intensissimi minuti, avevano all’ala un Pippen versione-piovra capace quasi da solo, in difesa, di dare via al parziale di 11-0 che aveva già ammazzato la Lituania ancor prima di iniziare la gara. Poi Pippen si era fatto male ad una mano e gli era subentrato Mullin che forse avrebbe inscenato la sua miglior recita di quei giochi, perlomeno sul piano difensivo.
Dopo la convincente prova di Jordan e compagni contro i lituani, prestazione definita dal coach la loro “miglior gara a tutto campo della manifestazione”, lo staff tecnico decise di concedere un’altra giornata di riposo e di preparare la finale con la Croazia con una semplice riunione di tiro in programma il mattino successivo. “Se la medaglia d’oro non è un incentivo sufficiente per sabato - aveva giustamente detto Daly - allora non so cosa possa esserlo. C’è una ragione per cui siamo tutti qua e per la quale abbiamo sacrificato gran parte dell’estate”. Le parole di Zio Chuck erano d’Oro colato.
Il coach avrebbe però preferito incontrare la CSI anziché di nuovo la Croazia perché riteneva che il dover riaffrontare una compagine già strabattuta (di 33) durante la prima fase, fosse un elemento che poteva indurre un leggero calo di concentrazione. Daly si era stupito nell’aver visto fallire gli ex-sovietici in ben cinque uno-contro-uno consecutivi negli ultimi momenti della semifinale contro i croati e si attendeva allora un Kukoć molto diverso da quello del primo incontro e un Drazen Petrovic finalmente all’altezza della sua fama.
Il tecnico, espertissimo, avrebbe avuto ragione perché Kukoć (16 punti e 9 assist, sfiorata la doppia doppia) e Petrović (24+5) avrebbero giocato bene, idem “Dinone” Radja (23 punti e 6 rimbalzi), ma con un Dream team cos“ era notte fonda per tutti. Era vero che per un momento (al decimo minuto di gara) i più forti cestisti d’Europa, incredibilmente, si erano trovati a condurre (25-23), togliendosi una gran bella soddisfazione (era la prima volta, in tutto il cammino olimpico, in cui gli Stati Uniti si erano trovati a dover inseguire), ma era stato l’attimo fuggente di un’illusione impossibile.
Quando i dreamteamers avrebbero deciso di accelerare, si sarebbe vista solo una gran fumata, sottoforma di un parziale di 27-13 in sette minuti (che avrebbe portato a +14 gli USA, 56-42, all’intervallo), che, una volta diradatasi, avrebbe lasciato vedere ai croati solo una sfumatura di colore argentato. Quella della medaglia che si dà al secondo salito sul podio, un podio che aveva solo i due posti d’onore: il primo era già stato assegnato nel 1989 quando il CIO aveva tolto ogni patetico veto ai pro. 117-85, 32 punti rifilati anche alla finalista dopo i 33 che i croati avevano buscato nella seconda gara del torneo.
Come accaduto a Los Angeles otto anni prima, anche a Barcellona 1992 lo staff tecnico aveva cercato di motivare i giocatori americani giunti in finale con il famigerato torto subito a Monaco ‘72. E come era avvenuto allora (messaggio lasciato da MJ a Knight) era accaduto un contrattempo. Alla vigilia dell’atto conclusivo della manifestazione, coach Daly aveva ricevuto da Dick Ebersol, il boss della NBC, un appunto secondo cui, alla troupe televisiva incaricata di seguire l’evento, era stato inviato la sera prima, via corriere aereo, un nastro con un montaggio di 12 minuti delle ultime (eufemismo) concitate fasi della gara che aveva deciso l’Oro in quella, per molti versi, mai dimenticata edizione tedesca dei Giochi. Daly e il suo assistente P.J. Carlesimo avevano fatto in tempo a guardare la VHS nel videoregistratore portatile dello stesso Carlesimo e avevano deciso che valesse la pena di farlo vedere anche alla truppa. Per una ragione o per l’altra, però, i dreamteamers non riuscirono a vederlo durante l’allenamento di rifinitura delle 19:30 limitandosi a visionare dei filmati sulla Croazia preparati da Pete Skorich dei Detroit Pistons, che, assieme a P.J., aveva curato tutto lo scouting al videotape per l’intera olimpiade. Daly si era portato però il video della NBC fin dentro gli spogliatoi e là, finalmente, era riuscito a mostrarlo ai suoi. E in quello slancio di profonda passione (e di retorico nazionalismo) il Dream Team aveva conquistato la medaglia d’oro. Che per nessun motivo al mondo avrebbe potuto perdere. L’onore (si spera cestistico) della nazione era salvo: adesso, ci voleva la bandiera. Ma prima, un passo indietro.
La bandiera a stelle e striscette
Avrete capito come l’intera operazione del Dream Team, oltre che una straordinaria realtà tecnica fosse anche, se non soprattutto, un’immane operazione commerciale e, detta papale papale, in gioco c’erano interessi multimiliardari.
La questione di cui si parla qui è: Reebok o Nike? Tenete conto che si tratta di un’esposizione televisiva di valore semplicemente incommensurabile, la cosa quindi va ben oltre un mero marchietto sul colletto o sul petto della tuta di una squadra.
“Lungo il cammino delle Olimpiadi di Barcellona 1992 – riassume Jordan – c’erano stati alcuni problemi di carattere commerciale che riguardavano un certo numero di noi per quanto concerneva la presenza del marchio sulle tute della Federazione. Mi fu assicurato che tutto sarebbe stato risolto prima che incominciassero le partite, così firmai per giocare. Quella era la prima volta che ai giocatori di basket professionisti degli Stati Uniti era consentito di giocare alle Olimpiadi e la NBA aveva cercato di fare le cose per bene creando il Dream Team. Io avevo già vinto una medaglia d’oro ai Giochi del 1984, così il mio primo pensiero era stato quello di permettere a qualcun altro di avere la stessa chance. Ma l’opportunità di trascorrere del tempo con Larry Bird, Magic Johnson, Charles Barkley e alcuni degli altri membri della squadra mi affascinava. Sapevamo che le partite in sé non sarebbero state così difficili. L’unico altro problema riguardava i miei rapporti con la Nike e la sponsorizzazione della USA Basketball da parte della Reebok. Ero consapevole che non avrei potuto fare marcia indietro dalle Olimpiadi dopo che avevo acconsentito ad andarci perché questo sarebbe stato considerato profondamente anti-americano. Mi ero impegnato a giocare per il mio Paese e non avrei potuto anteporre la questione di un logo ai miei doveri. Tuttavia, non sapevo ancora come avrei affrontato la cerimonia di premiazione, ma di certo non ci sarei andato indossando un prodotto della Reebok. Quando giunse il momento di andare a ricevere la medaglia d’oro, ci comunicarono che, a chi si fosse rifiutato di vestire la tuta, non sarebbe stato consentito di salire sul palco. Alla fine, circa 20 minuti prima della consegna delle medaglie, mi venne un’idea. Charles Barkley, Scottie Pippen e io decidemmo di andare sugli spalti e di raccogliere delle bandiere americane. Chi può discutere la bandiera? Ne prendemmo solo quattro, ma ciascuno di noi ne appoggiò una sopra il logo”.
La questione di cui si parla qui è: Reebok o Nike? Tenete conto che si tratta di un’esposizione televisiva di valore semplicemente incommensurabile, la cosa quindi va ben oltre un mero marchietto sul colletto o sul petto della tuta di una squadra.
“Lungo il cammino delle Olimpiadi di Barcellona 1992 – riassume Jordan – c’erano stati alcuni problemi di carattere commerciale che riguardavano un certo numero di noi per quanto concerneva la presenza del marchio sulle tute della Federazione. Mi fu assicurato che tutto sarebbe stato risolto prima che incominciassero le partite, così firmai per giocare. Quella era la prima volta che ai giocatori di basket professionisti degli Stati Uniti era consentito di giocare alle Olimpiadi e la NBA aveva cercato di fare le cose per bene creando il Dream Team. Io avevo già vinto una medaglia d’oro ai Giochi del 1984, così il mio primo pensiero era stato quello di permettere a qualcun altro di avere la stessa chance. Ma l’opportunità di trascorrere del tempo con Larry Bird, Magic Johnson, Charles Barkley e alcuni degli altri membri della squadra mi affascinava. Sapevamo che le partite in sé non sarebbero state così difficili. L’unico altro problema riguardava i miei rapporti con la Nike e la sponsorizzazione della USA Basketball da parte della Reebok. Ero consapevole che non avrei potuto fare marcia indietro dalle Olimpiadi dopo che avevo acconsentito ad andarci perché questo sarebbe stato considerato profondamente anti-americano. Mi ero impegnato a giocare per il mio Paese e non avrei potuto anteporre la questione di un logo ai miei doveri. Tuttavia, non sapevo ancora come avrei affrontato la cerimonia di premiazione, ma di certo non ci sarei andato indossando un prodotto della Reebok. Quando giunse il momento di andare a ricevere la medaglia d’oro, ci comunicarono che, a chi si fosse rifiutato di vestire la tuta, non sarebbe stato consentito di salire sul palco. Alla fine, circa 20 minuti prima della consegna delle medaglie, mi venne un’idea. Charles Barkley, Scottie Pippen e io decidemmo di andare sugli spalti e di raccogliere delle bandiere americane. Chi può discutere la bandiera? Ne prendemmo solo quattro, ma ciascuno di noi ne appoggiò una sopra il logo”.
Il paragone con Clint Eastwood (che chissà quanto avrà gradito di essere tirato così in ballo per simili motivi) tornò fuori non per la durezza in campo dei giocatori americani, ma per fini esclusivamente economici e d’immagine, che è poi la stessa cosa. La dichiarazione di Jordan, che pose fine alla mortificante (per tutti i protagonisti) rappresentazione, fu questa: “Qualcuno avrà imparato che se si scelgono dodici Clint Eastwood per fare un certo lavoretto, poi quel Qualcuno non può stare a sottilizzare sul calibro dell’arma che useranno”.
Ma oltre a quelle sulla bandiera c’erano state anche altre critiche rivolte al Dream Team riguardo quello che per qualcuno era stato un fenomeno in tutto e per tutto eccessivo. Ai dreamteamers era stato rimproverato il fatto di aver scelto un lussuosissimo albergo al posto dello spartano Villaggio Olimpico; di aver mobilitato un immane schieramento di forze dell’ordine per scortarli e altre amenità assortite.
Il Dream Team aveva vissuto sì in maniera esagerata e giocato in modo sin troppo sfacciatamente ugly, non mostrando pietà né remissione per nessuno. Ma è per questo che lo si era voluto, no? Altrimenti non avrebbe richiamato folle oceaniche e mosso altrettanto oceaniche ondate di miliardi (di dollari).
Altrettanta ferocia critica non era stata però rivolta alla magnificenza delle suite dei più lussuosi hotel che avevano accolto la più grande squadra mai assemblata. Una opulenza sbattuta in faccia alla (relativa) modestia degli alloggi del Villaggio Olimpico.
Alcuni puristi della ultima ora avevano visto nell’ammissione del Dream Team alle competizioni con i Cinque Cerchi l’estrema unzione del moribondo ideale olimpico del dilettantismo, dello sport per amore e non per denaro. Ma vorremmo chiedere a questi Signori del Nulla in che mondo avevano vissuto fino a prima dell’edizione catalana dei Giochi.
Anche in patria avevano sottolineato il fatto che i carichi di gloria Bird e Magic avessero partecipato gratis, sorvolando però cosa significasse in termini di pubblicità e, quindi, di dollaroni. Anche se non è certo per soldi o fama che Magic e Bird, a quell'età e con il loro status, avevano accettato di partecipare all'olimpiade. Volevano solo esserci, e vincerla. Questione di DNA.
Anche in patria avevano sottolineato il fatto che i carichi di gloria Bird e Magic avessero partecipato gratis, sorvolando però cosa significasse in termini di pubblicità e, quindi, di dollaroni. Anche se non è certo per soldi o fama che Magic e Bird, a quell'età e con il loro status, avevano accettato di partecipare all'olimpiade. Volevano solo esserci, e vincerla. Questione di DNA.
Per quanto riguarda poi le sparate di Barkley, autoproclamatosi un Nineties Nigga, un “fratello degli anni Novanta”, che si vantava di infischiarsene di certe regole non scritte dello sport, erano perfettamente inserite nel meccanismo di quello stesso personaggio che la gente voleva. E nella stessa maniera in cui il richiamo globale di Jordan non sarebbe tale se Jordan non fosse… Jordan. E pazienza se gli americani, quando scendono in campo nei confronti internazionali, danno l’idea di comportarsi come quando sono vestiti in mimetica: i Gendarmi del Mondo.
Ma ormai era tutto finito, i dreamteamers tornavano alle loro sfide NBA, sufficienti, a chi le concludeva da vincitore, per farlo sentire Campione del Mondo perché tanto il primo basket del mondo era là. Quello del resto del pianeta era un altro sport, più orizzontale e giocato a velocità (e fantasia) umana.
Era tempo di bilanci, allora. “Il periodo passato a Barcellona è stato più spettacolare di quanto avessi immaginato”, ha detto Michael al momento di salutare la bellissima capitale catalana che però, purtroppo, lui, sempre braccato, come accadrà cinque anni dopo per il McDonald’s Open di Parigi, non aveva potuto visitare. “Ma c’erano polizia e scorte dappertutto, c’erano elicotteri che ci seguivano. Qualche volta, quando uscivamo dall’albergo per andare alla partita, c’erano duemila persone lungo la strada che portava fino allo stadio. Eravamo il cuore delle Olimpiadi, il Dream Team che tutti volevano vedere. Che fossimo in pullman, a piedi o con qualunque mezzo. Volevano vedere la squadra di cui si era tanto parlato, la più pubblicizzata di sempre". La Squadra dei Sogni.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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