CAPITOLO 24 - Three-mendous! (1992-93)
"Affrontare Phoenix e Charles Barkley nelle Finali del 1993 è stato come giocare contro il tuo fratellino sapendo che sei più dotato. Tuo fratello più piccolo potrà batterti una o due volte su sette, ma sai che alla fine sarà lui ad essere battuto. I Suns non sapevano come si fa per vincere. Sapevano come si lotta, ma non come si fa per vincere. C'è una bella differenza."
– Michael Jordan
"Lui vuole vincere. E se possibile dandoti pure un calcio in c..."
– Charles Barkley
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Jerry Krause aveva sperato con tutte le sue forze, e forse anche con qualcuna presa in prestito, che i suoi gioielli Jordan e Pippen declinassero il prestigioso invito di essere esposti alla luccicante (per il prestigio, per l’immagine, per la pubblicità) ma opacizzante (per lo stress psicofisico ininterrotto di due stagioni agonistiche in pratica contigue) vetrina planetaria delle Olimpiadi di Barcellona '92.
Anziché andare a rappresentare gli Stati Uniti sotto l’ingombrante mantello del Dream Team, il GM di Chicago avrebbe preferito che i due mammasantissima dello spogliatoio dei Bulls se ne stessero in vacanza a riposare. Krause, evidentemente, non era molto patriottico. Il Dynamic Duo che, in ogni caso, non era apparso particolarmente preoccupato dell’opinione di Krause al riguardo, aveva più (Scottie) o meno (Michael) volentieri deciso di accettare la convocazione della... NBA - ehm, della USA Basketball, la federbasket statunitense - e di passare quell’agosto facendo una passeggiata al dorato sole olimpico delle Ramblas.
Al loro ritorno, però, i due aureimedagliati, svuotati dall’esperienza e soprattutto da un intero anno di basket, si accorgono che qualcosa, nella loro squadra, è cambiato.
“Dal primo momento del training camp del 1992 mi accorsi che avevamo perso qualcosa”, riavvolge il nastro Michael, a sei anni di distanza. “La squadra non era più unita e Horace Grant era stato il primo a rompere quell’unità. Horace non riusciva ad accettare la sua posizione nella squadra. Scottie ed io eravamo passati direttamente dal nostro secondo titolo NBA alle Olimpiadi di Barcellona. La nostra finestra per riposarci e recuperare in vista della stagione 1992-93 si era chiusa rapidamente appena tornati dalla Spagna. Phil aveva capito come ci sentivamo e ci aveva permesso di allenarci solo una volta al giorno durante la prima settimana di ritiro. Horace, che aveva avuto un’intera estate libera, doveva allenarsi due volte al giorno con tutti gli altri e si ribellò. Era convinto che ci fossero due pesi e due misure e che si fosse guadagnato il diritto di essere trattato come Scottie e me. Al contempo, certa gente aveva incominciato a sussurrare all’orecchio di Horace. Lui è sempre stato uno che si fa influenzare, non un leader, quindi Horace stava a sentire quelli che gli dicevano quanto era forte e di come io ricevessi delle libertà e delle attenzioni particolari. Il mio rapporto con Horace non è stato più lo stesso. Lui voleva stare ad un certo livello e Phil non ce lo aveva messo, allora Horace se l’era presa a male e aveva incominciato a creare degli screzi all’interno della squadra. C’erano state delle cose che avevo detto in privato o sul pullman della squadra che erano state fatte trapelare ai media. Sono cose che succedono quando l’atmosfera della squadra diventa tesa. Tra di noi non eravamo amici all’epoca. Sul campo ognuno faceva il suo lavoro, ma al di fuori del basket, l’armonia che Phil aveva creato era andata in frantumi. C’erano ragazzi che vedevo parlottare con un giornalista e il giorno dopo usciva una citazione da una fonte anonima. Io sapevo con esattezza chi aveva detto e cosa, così come lo sapevano tutti gli altri della squadra. Come puoi giocare assieme a qualcuno quando hai paura di dirgli qualcosa in privato? Sentivo di aver superato quelle cose infantili e di non voler averne più niente a che fare. Phil sapeva cosa stava succedendo, ma lui aveva i suoi bravi problemi con B.J. Armstrong. B.J. faceva parte della nuova generazione di giocatori. Lui voleva che tutto il suo entourage sapesse che lui era capace di segnare 20 punti di media per sera. Ma il nostro sistema non permetteva a una point guard di segnare tanto. Il sistema era stato pensato e si era dimostrato efficace per i veterani. Tutto quello che avevamo bisogno che B.J. facesse era che entrasse in quintetto e si calasse nel ruolo. Ci serviva una point guard che ci facesse partire nel sistema perché il sistema stesso funzionasse. Per un po’ sono riuscito a smorzare molti degli attriti tra Phil e B.J. perché io riuscivo a parlare con B.J., che mi era pure simpatico. Ma lui guardava John Paxson e pensava: “Io sono più rapido, riesco a correre lungo la lane più velocemente”. Ciò che B.J. non vedeva era la saggezza di John. Sono abbastanza sicuro che, se glielo chiedeste oggi, B.J. si renderebbe conto che il sistema era perfetto pure per lui. Tutti noi dovevamo reprimere i nostri ego in favore del sistema. C’era un bene superiore, ma alcuni di quei ragazzi sembravano non afferrare il concetto”.
Concetto ostico per Horace Grant, che si sentiva sottovalutato. L’ala forte determinante nella conquista dei due titoli appariva sempre più gelosa delle attenzioni riversate su Jordan e, seppure in misura di gran lunga minore, su Pippen.
E l’episodio del rifiuto del doppio allenamento quotidiano durante il ritiro precampionato ai primi d’ottobre, non è che l’ultima goccia. Ricadendo nel medesimo errore commesso esattamente un anno prima, quando si era lasciato mettere in bocca dalla stampa quelle parole sull’assenza di Jordan durante la visita della squadra alla Casa Bianca, anche stavolta il più ingenuo che in malafede Grant si lascia abbindolare aprendosi ai media. Si sfoga parlando appunto di “double standards”, due pesi e due misure, e di “trattamenti preferenziali” che venivano riservati alle due superstar.
Più avanti nella stagione, Grant sarà di nuovo protagonista di una polemica a distanza con Pippen, in quella occasione tacciato di arroganza. Uno strappo poi dimostratosi facilmente ricucibile per due che sin da rookie (1987-88) erano sempre stati amici, anche se non più così vicini come in passato. Dopo Jordan, Horace si era bruciato così anche Pippen: e la sua sorte appariva segnata.
Come non bastassero le divisioni (per non dire spaccature) interne della squadra, ci si erano messi pure gli infortuni.
I non più giovincelli Cartwright (35enne, un habitué dell’infermeria) e il 32-enne Paxson (32) avevano dovuto sottoporre le sempre più scricchiolanti ginocchia a interventi chirurgici, e Pippen si sarebbe trascinato per gran parte della stagione una caviglia malandata. Per Jordan, invece, i guai sarebbero arrivati da un arco plantare e da un polso.
B.J. Armstrong che, come riferito dallo stesso Jordan, a lungo aveva faticato ad assimilare il sistema dei Bulls, il reclamizzatissimo triple post offense, sembra finalmente a suo agio per rimpiazzare Paxson in quintetto.
Dovendo trovare il suo ritmo di gioco uscendo dalla panchina, il motore di Pax ci mette un po’ (troppo) a carburare e i media continuano a picchiare sul tasto delle difficoltà che l’avvicendamento fra i due ha portato. Nessun problema invece si viene a creare tra i due protagonisti della imprevista staffetta, perché, fra le due guardie, il venticinquenne Armstrong è più adatto per giocare nella pressure defense dei Bulls, e sarebbe stato proprio questo a fare la differenza nei playoff. In più, B.J. porta con sé anche la non disprezzabile dote di sapersela cavare da fuori: alla fine della stagione avrebbe infatti guidato la Lega nella graduatoria del tiro da tre colpendo con oltre il 45%, che proprio male non è.
Durante la regular season, tuttavia, Jackson spesso e volentieri la pressure defense l’abbandona per far rifiatare la squadra e preservarla dagli infortuni. Non sempre, però, la scelta si rivela azzeccata perché il ritmo talvolta troppo lento dei Bulls si ritorce loro contro. E a un certo punto, Jordan deve invitare i suoi a ripristinarla in fretta.
“Forse stiamo rischiando, e magari andrà a finire che ci giochiamo le gambe prima del tempo – dichiara – ma sono convinto che non dobbiamo cominciare a gestirci già da adesso. Quando proviamo a rallentare, diventiamo troppo prevedibili”.
Tutti questi guai, alla fine, non sembrano costituire un grosso intralcio alla carica dei Tori, anzi, come al solito, il loro unico vero avversario appare la routine, quel tran-tran di regular season che Jordan ha sempre definito noiosa “monotonia”.
Per la maggior parte delle squadre quella “monotonia”, come la chiamava Air, poteva significare diciamo 38 vittorie. Per i Bulls, significa invece un altro titolo divisionale, 57 vinte (quarta stagione consecutiva da almeno 50 vittorie) e per lo stesso Michael la settima corona consecutiva di capocannoniere, record che gli permette di raggiungere Wilt Chamberlain. L’8 gennaio, fra i 35 punti della vittoria (120-95) dei Bulls su Milwaukee, Michael raggiunge quota 20.000 in carriera, totale raggiunto in 620 partite.
L’unico più veloce, 499 gare, fu Wilt Chamberlain. “Sembra sempre che io debba arrivare a un passo da Wilt, il che è un privilegio, il commento di Jordan sul traguardo – ma non voglio dargli più di tanto peso fino a che non mi sarò ritirato. Ne sono felice, ma abbiamo ancora una lunga stagione davanti. Sono sicuro che invecchiando lo apprezzerò di più”.
Otto giorni dopo, sconfitta contro Orlando per 128-124 al supplementare, Jordan ne mette 64. Lo show contro i Magic è già la terza di quelle che a fine regular season saranno quattro sue esibizioni da oltre cinquanta punti. In due casi, però, Chicago perde. Pippen, mai banale, dopo la gara con Orlando dichiara pubblicamente che MJ si era preso troppi tiri.
Jordan però viene nominato di nuovo nel primo quintetto NBA First Team e sia lui sia Pippen in quello difensivo.
Nell’ultimo atto dei playoff, Jordan avrebbe stabilito un’impresa mai centrata da altri: il terzo premio di MVP delle Finali consecutivo.
A Jackson, invece, dicembre aveva portato la 200-esima vittoria in panchina, traguardo tagliato più in fretta di ogni altro coach NBA.
Nonostante questi obiettivi parziali, non pare una stagione memorabile. “I ragazzi non stavano bene – spiegava Jackson – la caviglia di Pippen con caviglia, la fascite plantare di Jordan, tutte cose che ci impedivano di trovare continuità. Non eravamo in grande condizione, così quando gli allenamenti sono diventati più duri e mirati, finivamo le partite in riserva”.
“Mi sono sempre piaciuti gli allenamenti – dice Jordan – e detesto saltarli. È come a una lezione di matematica: salti un giorno e ti senti come se ne avessi perse tante, devi fare del lavoro extra per recuperare quell’unico giorno che hai perso. Io sono sempre stato un practice player, io ci credo nell’allenamento”. È infatti leggendaria la competitività che Michael ha sempre messo anche nelle sedute apparentemente meno importanti. È in allenamento che Michael testa se un compagno ha abbastanza voglia di vincere da stare in squadra con lui. Ti sottomette, ti umilia, ti sbatte in faccia che lui è il migliore e a quel punto non hai molte scelte. O stai zitto, mandi giù e ti impegni alla morte per fargli vedere che si sbaglia, e allora lui ti rispetta. O non ci stai a farti mettere sotto e gli tieni testa e così facendo capisce che neanche tu ci stai a perdere, e ti stima. O ti annienta. Mentalmente, prima ancora che sul campo.
Ma la squadra in sé appariva cotta e non solo dal punto di vista fisico-atletico. “Erano stanchi”, ricorda il trainer dei Bulls Chip Schaefer, una sorta di sosia di Toni Kukoć su scala ridotta. “Michael e Scottie erano affaticati in quell’autunno del ‘92. La stagione era stata davvero lunghissima e l’intero anno era stato veramente duro per Michael. Sembrava come se ne capitassero una dietro l’altra. La stampa ce l’aveva con lui, per tutto l’anno ce n’era stata sempre una: non c’era tregua, fuori una sotto l’altra. Era un continuo: questo o quel libro o qualche altro incidente di percorso. Non si trattava mai di basket ma solo di cose personali che, a dire il vero, in tutto questo non avrebbero dovuto entrarci affatto. Si vedeva proprio che la cosa stava incominciando a stancarlo un po’. In certi momenti, privatamente, lo aveva manifestato lui stesso. Era talmente palese che si stava stancando... Stanco fisicamente, stanco mentalmente, di tutto quanto”.
Una stanchezza tutt’altro che passeggera. Schaefer osservava che “è strano, dando uno sguardo alla storia della NBA, notare come tante squadre abbiano avuto una sorta di saliscendi nei risultati (…) Per un insieme di fattori, sembrava come se dovesse essere per forza l’anno di New York. I Knicks parevano ormai aver pagato il loro dazio. In regular season, alla fine di novembre, i Knicks ci avevano assolutamente distrutto battendoci di 37 punti. Giocarono quella partita come se fosse stata Gara-7 di una serie di playoff. Noi sembravamo addormentati, per noi non contava niente e poi Michael si era procurato una distorsione al piede all’inizio dell’incontro. Vincemmo comunque 57 partite quell’anno, ma fummo lì lì per crollare”.
Per due anni, i New York Knicks avevano visto le loro speranze di titolo infrangersi sull’impenetrabile muro dei Bulls, che li avevano superati in quelle estenuanti battaglie di postseason terminate in sette gare. A buona ragione, quindi, si può immaginare che avessero bisogno del vantaggio-campo per detronizzare Jordan e compagni. Dunque coach Pat Riley si dedicò con tutte le sue forze a condurre New York a 60 vittorie (miglior record nell’Est, il secondo della Lega dopo quello dei Suns a Ovest) e, con esse, alla conquista del vantaggio-campo nella Eastern Conference.
I Bulls, intanto, erano lentamente al secondo posto ed erano apparsi quasi distratti in vista dei playoff. Chi non si era distratto mai, come al solito, era stato MJ che, per la settima volta consecutiva (raggiunto Wilt Chamberlain), si era laureato capocannoniere, quest’anno con 32.6 ppg.
Michael, tanto per non smentirsi, ricevette anche gli onori di titolare all’All-Star Game e della nomina nel Primo quintetto difensivo, riconoscimenti meritati anche dal sempre più straordinario secondo violino, Pippen.
Grant, in ossequio al nick di terzo “Dobermann” affibbiatogli dallo staff tecnico, entrò lui pure nell’ideale All-Defensive Team, seppure solo nel secondo quintetto.
I Bulls, che avevano chiuso la prima parte di stagione (alla pausa per l’All-Star Game) sul 35-17 e finito poi l’annata a 57-25) ritrovarono in fretta il passo spazzando via in tre gare Atlanta nel primo turno, poi in quattro, ancora una volta, i Cleveland Cavaliers, ormai abituali vittime sacrificali e nell’occasione avversari in Semifinale di Conference.
Il 17 maggio, giorno di Gara-4, Jordan “mise il cappello” alla serie – come si dice là – con il tiro vincente nell’ultimo secondo. Quell’ennesimo episodio di tirannia jordaniana suggellò il dominio che Michael aveva esercitato per anni sui derelitti Cavs.
“Una volta iniziati i playoff – proseguiva Schaefer – Michael era riuscito ancora una volta a regalare spettacolo. Ma dovevamo affrontare di nuovo New York, non avevamo il vantaggio-campo e quindi non c’era tanto da essere ottimisti”.
Jordan disprezzava lo stile brutale di quei Knicks. “Questi giocano come i Pistons”, disse. Forse l’ormai antica frustrazione di New York li rendeva, se possibile, addirittura peggiori. In più Jackson e Riley non fecero grandi sforzi per nascondersi la propria reciproca antipatia.
In Gara-1, al Madison Square Garden, i Knicks martellarono Jordan costringendolo ad una prestazione da 10 su 27 al tiro e vinsero, 98-90. “Ho detto alla squadra che li avevo mollati”, aveva dichiarato Jordan subito dopo l’incontro.
Quella pubblica ammissione non fece un granché bene, perché la stessa cosa si ripeté in Gara-2. Jordan sbagliò 20 dei suoi 32 tiri e i Knicks vinsero nuovamente, 96-91. Dopo la gara, dalle parti di New York era tangibile la più pericolosa delle presunzioni. “Adesso i Bulls sono sotto di due partite e devono battere i Knicks quattro volte su cinque incontri se vorranno avere una chance di conquistare tre titoli in fila”, aveva cantato vittoria troppo presto Mike Lupica, columnist del New York Daily News.
Inoltre, una vera e propria esplosione da parte dei media si verificò in seguito alla pubblicazione di un articolo del New York Times in cui si riportava che Jordan era stato visto fare le ore piccole in un casinò di Atlantic City la notte prima di Gara-2 e si insinuava che forse quello non fosse esattamente il modo più adeguato di riposarsi in vista dell’appuntamento così importante in programma il giorno dopo. I titoli (dei giornali, non quelli già conquistati) spinsero subito Jackson e Krause a prenderne prontamente le difese. “Non c’è mai stato questo tipo di problema con Michael Jordan – dichiarò Krause – Lui ci tiene a vincere ed è uno dei più grandi vincenti di tutti i tempi”.
“Non ci serve il coprifuoco – aveva poi aggiunto Jackson – [I giocatori] sono adulti... E poi si devono fare anche altre cose nella vita o altrimenti la pressione diventa troppo forte”.
Con tutti questi (molto poco tecnici) argomenti ad aleggiare sugli eventi, la serie si trasferì a Chicago. “I Bulls erano tornati al Berto Center per allenarsi – ricorda Cheryl Ray, veterana radiocronista di Chicago – Non avevo mai visto così tanti media radunati per un singolo evento. Michael non fece in tempo a mettere piede fuori dalla training room, che gli dissi: “Michael, ci racconteresti che cosa è successo e come è venuta fuori questa storia?”. Lui lo stava facendo quando un tizio del notiziario di una stazione locale di Chicago iniziò ad attaccarlo in modo durissimo neanche si trattasse di un politico colpevole di chissà quale crimine. Chuck Gowdy di Channel 7 gli diceva cose tipo: ‘Lo fai prima di ogni partita? Hai il vizio del gioco?’. Continuava a martellarlo, e alla fine Michael non fece altro che stare zitto e andarsene. Non parlò fino alla prima partita [della serie finale] contro Phoenix”.
Jordan smise di parlare con i media e gli altri compagni ne seguirono l’esempio. Con Pippen a portare sulle proprie spalle il peso dell’intera squadra, i Bulls vinsero alla grande in Gara-3, allo Stadium, 103-83.
“Il momento in cui ho capito che avremmo vinto quella serie fu dopo Gara-3 – dice Schaefer – Dopo che li avevamo battuti abbastanza sonoramente e riportato la serie sul 2-1, Patrick Ewing fece un commento del genere: ‘Non dobbiamo vincere per forza qui a Chicago’. Appena lo sentii dire così, capii che avremmo vinto la serie. Se hai quella mentalità, perderai la partita e anche il vantaggio che avevi. Non puoi dare per certo che vincerai tutte le tue partite casalinghe. Appena pronunciate quelle parole, qualcosa mi disse che lui contava di vincere in tutti i loro incontri in casa, il che non sarebbe certamente successo. Fu Scottie a regalarci quella serie. Lui sembrava sempre avere quella particolare capacità, quando Michael poteva avere avuto un momento difficile, di compiere quel passo avanti per fare quello di cui avevamo bisogno”.
Jordan segnò 54 punti per condurre Chicago alla vittoria in Gara-4, 105-95, e fu una tripla doppia dello stesso Michael (29 punti, 10 rimbalzi e 14 assist) a dominare il foglio delle statistiche di Gara-5, quando Chicago si portò al comando della serie per 3-2. Ma furono le successive stoppate di Pippen, che fece ritornare al mittente i tentativi di Charles Smith di New York, verso la fine di quella stessa quinta partita a New York, a spegnere le residue speranze dei Knicks. Poi, quando i Bulls completarono il loro inseguimento in Gara-6, a Chicago, fu di nuovo Pippen, con un jumper dall’angolo e relativa triple, ad arrecare l’ultimo danno nella difesa dei Knicks, nella vittoria per 96-88 che apriva le porte della finale.
I Bulls non avevano mai perso la fiducia di approdare alle Finali NBA, ormai le loro terze consecutive. Questa volta, l’Avversario sarebbe stato Charles Barkley, ora con i Phoenix Suns. Dopo parecchi anni problematici e ricchi più di frustrazioni che di soddisfazioni a Philadelphia, Barkley era stato ceduto ai Suns prima della stagione 1992-93 e, come se fosse rinato, si era guadagnato gli onori di MVP del campionato guidando i Soli a 62 vittorie e al meritato viaggio alle Finali.
Sarebbe stata una serie memorabile, non tanto per il basket praticato, quanto per via delle attività extra-agonistiche, che includevano (per qualche impiccione) interessanti fuoriprogramma come le capatine fatte, fra una partita e l’altra, da Barkley e da Madonna in un ristorante di Phoenix.
Nel duello per il titolo, invece, per Jordan, Barkley era l’avversario più calzante. Si trattava dei due amici: Charles contro Michael. Testa (pelata) contro testa (pelata). Commercial della Nike contro commercial della Nike.
Nello spot Jordan meditava ad alta voce: “E se fossi solo un giocatore di basket?”, mentre Barkley, nel suo spot, dichiarava: “Non sono un role model”. Era la sfida perfetta. Quell’atteggiamento non fece altro che aggiungersi soltanto alla controversia della immagine pubblica di Sir Charles. Alcuni critici lo vedevano come un altro lautamente retribuito performer che scantona dalle sue responsabilità. Altri, nonostante tutto, comprendevano che l’affermazione di Barkley andava intesa come un richiamo che gli atleti professionisti sono solamente immagini dei media e che la vera responsabilità di infondere valori nei giovani appartiene alla famiglia. Barkley lo spiegò ampiamente, ma la cosa non fece ricredere i suoi critici.
Come si sarebbe poi rivelato, sia lui sia Jordan erano giocatori, entrambi role model, cioè esempi da imitare, la cui determinazione era quella di esibire a un’audience di portata mondiale, come quella delle Finali NBA del 1993, vera fiducia, vera energia.
Arrivati insieme nella lega, nell’autunno del 1984, negli anni erano diventati amici. Ma mentre Barkley non si era certo curato dell’immagine nelle sue prime stagioni NBA, il più circospetto Jordan, invece, si era sempre mosso con cautela, dicendo e facendo sempre le cose aziendalmente corrette, e costruendosi, nel frattempo, una squadra vincente.
Alle volte, quando risse occasionali o le mal consigliate dichiarazioni pubbliche di Barkley sfociavano in polemiche, Jordan aveva persino cercato di spiegare le intenzioni dell’amico a giornalisti e inviati: il messaggio era che, nonostante Charles dovesse magari anche pensare prima di aprir bocca, restava il fatto che lo stesso Barkley fosse comunque schietto, genuino e un durissimo lottatore.
Per queste difese e per l’amicizia di Jordan, Barkley si mostrava grato. Per qualcuno pure troppo per batterlo nella serie per il titolo del 1993.
In seguito anche Pippen lo avrebbe rimproverato di, testuale, “leccare il c. a Michael”, un’accusa che fece infuriare Sir Charles.
Anche fra Magic Johnson e Isiah Thomas, negli anni Ottanta, era nata un’amicizia simile, ma il rapporto si era deteriorato quando Lakers e Pistons si incontrarono nelle Finali del 1988 e del 1989. Era impossibile, ammise poi Johnson, che quella così intensa competizione potesse non frapporsi alla loro amicizia. Barkley invece aveva scelto di restare amico di Jordan.
I Suns avevano vinto 62 partite e avevano il vantaggio campo nella loro nuova di zecca America West Arena. I Bulls, comunque, da parte loro, erano sicuri dei propri mezzi. Avevano sempre fatto bene contro le squadre di Philadelphia di Barkley. La difesa di Pippen e Grant lo avrebbe nuovamente ingabbiato e B.J. Armstrong aveva la rapidità necessaria per stare al passo con la point guard di Phoenix Kevin Johnson.
Questi piani alla fine funzionarono, ma nel breve periodo c’era più di una turbolenza in vista: un certo Richard Esquinas, un “uomo d’affari” di San Diego, si fece avanti con un libro asserendo che Jordan gli doveva 1.2 milioni di dollari per le altissime somme perse nelle scommesse su partite di golf.
In un’intervista registrata su nastro trasmessa dalla NBA all’intervallo di Gara-1 delle Finali, Jordan rispose ammettendo che aveva perso somme sostanziose con Esquinas ma in nessun modo vicine alle cifre riportate. Gli interrogativi se tali distrazioni fossero d’impaccio per i Bulls furono messe da parte alla svelta quando Chicago si aggiudicò la prima partita, 100-92. Jordan ne segnò 31, Pippen ne fece 27, mentre la difesa dei Bulls infastidì Barkley a tal punto da tenerlo a un misero 9 su 25 al tiro.
“Io non credo che nessuno fosse spaventato o si fosse innervosito”, disse la guardia di Phoenix Kevin Johnson. Ma in realtà, i Suns sembravano parecchio nervosi. E sprofondarono ancora di più nei guai in Gara-2. Barkley e Jordan segnarono entrambi 42 punti, ma la difesa dei Bulls si strinse attorno a Kevin Johnson e la guardia di Phoenix Dan Majerle per prendere il comando della serie per 2-0, 111-108. L’assistente dei Bulls specializzato nella difesa Johnny Bach aveva consigliato uno schema difensivo, attuato da Armstrong, che aveva costretto Johnson a parlare da solo seduto in panchina per gran parte del quarto periodo.
In modo del tutto imprevisto, Phoenix adesso si ritrovava ad affrontare tre partite a Chicago e la prospettiva di un cappotto. I Suns risposero raschiando il fondo del barile andando a trovare una vittoria, per 129-121, dopo un triplo supplementare, in Gara-3. Questa volta KJ aveva giocato un record delle Finali NBA di 62 minuti e segnato 25 punti con 7 rimbalzi e 9 assist. Majerle ne aveva realizzati 28 e Barkley 24.
“Pensavo che non sarebbe mai finita”; disse subito dopo Phil Jackson.
Avvertendo la sensazione di vulnerabilità nella sua squadra, Jordan si presentò alla grande in Gara-4, segnando 55 punti e pilotando i Bulls a una vittoria per 108-98 e al vantaggio di 3-1 nella serie. I Suns avevano ancora una volta concesso a Jordan di veleggiare nel mezzo consentendogli comode conclusioni in schiacciata o in appoggio al tabellone. Phoenix era sotto solo di due alla fine, se non fosse stato per la pressione di Armstrong e un ritardato recupero chiave.
Il totale punti di Jordan eguagliava quello di Rick Barry di Golden State per il secondo posto nella graduatoria all-time di una partita. Il primato era detenuto da Elgin Baylor, che ne aveva segnati 61 in una gara contro Boston nel 1962.
I Bulls erano sopra 3-1 in vista della cruciale Gara-5 da disputarsi sul proprio campo. Tuttavia, essi stranamente sembravano barcollare proprio quando erano ormai a un passo dal compimento dell’impresa. Jordan giurò ai suoi compagni che non li avrebbe riaccompagnati a Phoenix se non fossero riusciti a conquistare il campionato allo Stadium nonostante le difficoltà. I Bulls balbettarono e i Suns si tennero occupati con la difesa. I canestri facili di Jordan erano scomparsi con tutta Phoenix a convergere nella lane. La matricola dei Suns Richard Dumas segnò 25 punti. “Era solo questione di infilarsi nei varchi – spiegò – E ce n’erano parecchi”.
Con Johnson a segnare 25 punti e Sir Charles a metterne 24, i Suns ottennero la vittoria (108-98) di cui avevano disperato bisogno, per far ritornare la serie sul loro campo casalingo. Subito dopo, Barkley pronosticò il titolo ai Suns. “È solo che io credo nel destino”, disse.
Qualcuno aveva sollevato delle ipotesi secondo le quali, se i Bulls avessero vinto Gara-5 a Chicago, la città sarebbe stata devastata dai disordini dei festeggiamenti che avevano rovinato le precedenti vittorie in campionato della squadra. Per paura di questo, molti commercianti avevano sprangato i loro negozi.
“Abbiamo fatto un favore alla città – disse Barkley nel lasciare Chicago – Potete ritirare su tutte le serrande dei negozi, adesso. Andremo a Phoenix”.
I Bulls stavano così combattendo la sensazione di essersi lasciati sfuggire la migliore delle occasioni.
“Michael sembra sempre avere l’esatta percezione di ciò di cui la squadra ha bisogno – raccontò Tom Dore, commentatore dei Bulls – Avevano appena perso. Michael però salì a bordo dell’aereo diretto a Phoenix e disse: ‘Ciao, Campioni del mondo’. Si fumò un sigaro lungo quanto un palmo e già festeggiava perché sapeva che ormai la serie era finita. Sapeva, andando a Phoenix, che avrebbero vinto. Non c’era alcun dubbio per lui e credo fosse questo che alla squadra serviva. [Quei Bulls] avevano davvero quell’arroganza. Non era un vuoto atteggiarsi, è che si sentivano proprio come se andassero a vincere”.
Barkley aveva affermato che il “destino apparteneva ai Suns”, ma nel corso dei primi tre quarti di Gara-6 sembrava fossero i giocatori di Phoenix ad avvertire, più di ogni altra cosa, la pressione.
Nel frattempo, la batteria di guardie dei Bulls, Jordan, Armstrong, Paxson e la riserva raramente impiegata (soprattutto nei playoff) Trent Tucker incendiarono la retìna con nove triple nel corso dei primi tre periodi trincerare Chicago dietro a un vantaggio di 87-79.
Da lì, in ogni modo, ci fu la svolta dei Bulls per non cedere alla pressione. Sbagliarono nove tiri ed ebbero due palle perse le prime 11 volte che presero palla nella quarta frazione. I Suns chiusero sotto di un punto, poi si risollevarono fino a prendere un vantaggio di 98-94 a 90 secondi dal termine. Quindi Jordan tirò giù un rimbalzo difensivo e andò a segnare in coast-to-coast, come solo lui sa fare, in mezzo al traffico dell’altra estremità appoggiando da sotto. Si era sul 98-96, a 38 secondi dalla fine. I tiri di Majerle avevano aiutato Phoenix a rientrare nella serie, ma sul loro successivo e ultimo possesso proprio Thunder Dan lasciò partire un orribile airball.
I Bulls avevano un’altra chance a 14.1 secondi dalla conclusione. Dopo un time-out, Jordan cambiò gioco pescando dall’altra parte Armstrong, poi riottenne indietro la sfera e la passò in avanti a Pippen. Il pallone si pensava dovesse tornare indietro al Superman di Chicago per l’ultimo tiro, ma Pippen vide che Jordan era coperto e puntò la corsia centrale, dove c’era ad attenderlo il centro dei Suns Mark West e finse la penetrazione a canestro.
Solissimo, nei pressi della linea di fondo, c’era Grant, che fino a quel momento aveva segnato un solo punto nell’incontro e qualche attimo prima aveva avuto una buona opportunità ma l’aveva buttata al vento tirando un airball tale da far finire la palla quasi oltre il tabellone. La cosa doveva aver minato la fiducia che Da Pip riponeva sull’asciuttezza delle polveri offensive del compagno in quella particolare serata al punto di averlo fatto pentire di aver ridato la palla a Grant. Ma ormai Pippen gli aveva girato la palla e non poteva fare altro che spalancare gli occhioni per fargli capire che non era proprio il caso. Accortosi dell’espressione di terrore stampata sull’eloquente faccia di Scottie, il perspicace Horace abbandonò la poco saggia opzione del tiro eseguito in prima persona per un più opportuno scarico esterno a John Paxson, solo soletto nella desolata landa dei tre punti, proprio lungo la direttrice dello spigolo dell’area colorata.
“Capii che sarebbe andata dentro non appena Pax la lasciò partire”, disse Jordan riferendosi a quell’oggetto sferico arancione che tutti noi adoriamo tanto.
La tripla di Paxson e la stoppata chiave di Grant rifilata sull’ultimo tiro di Johnson scoccato pochi attimi dopo consegnarono ai Bulls il loro terzo campionato consecutivo.
“È l’istinto – disse subito dopo Paxson di quel tiro – Prendi la palla e tiri. L’ho fatto centinaia di migliaia di volte nella mia vita. Horace mi ha fatto un bel passaggio”.
I giornalisti conversero immediatamente su Jordan per chiedere se avesse intenzione di ritirarsi. “No – li rassicurò – il mio amore per questo gioco è ancora forte”. Eppure il tempo avrebbe rivelato che c’era qualcosa di più che una semplice questione di cuore.
“Era come un sogno che si avverava – ricorda Paxson – Come quando da ragazzino, davanti al vialetto di casa, si faceva il tiro per vincere chissà quale campionato. Comunque la si voglia mettere giù, una partita di pallacanestro è ancora tutta in quel tiro. Ma io credo che questo permetta a un sacco di gente di rapportarsi a quell’esperienza che anche loro hanno vissuto, perché ci sono tanti bambini e adulti che ci costruiscono la vita intera su quelle loro fantasie espresse nel cortile dietro casa. Tutto questo fece dell’ultimo dei nostri tre campionati vinti un qualcosa di speciale. È davvero un bel modo di siglare un Threepeat, mettendo dentro un tiro da tre punti.
Non sono sicuro di come quella vittoria sia stata recepita dall’esterno, ma tra di noi essa andava a ripagarci di tutti gli sforzi ed il duro lavoro che ci avevamo messo dentro. Era la conferma del nostro credere di poter vincere, e con essa ti arriva una fiducia che si trasmette anche nella tua vita personale oltre che nella tua vita professionale. L’ho notato in molti dei miei compagni dopo che avevamo vinto il primo titolo e che continuavamo a vincere. Era come se, al di fuori di Michael e Scottie, che erano già delle stelle affermate, anche gli altri ragazzi fossero sbocciati. Era la consacrazione. Tutti diventammo più famosi ed apprezzati come giocatori. Per tanto, tantissimo tempo, c’era stato solo Michael Jordan. Potranno mai gli altri supportarlo e aiutarlo a vincere? Avevamo dimostrato a tutto il mondo del basket che potevamo”.
Solo due squadre nella storia NBA avevano vinto almeno tre campionati in fila: i Minneapolis Lakers, con George Mikan, dal 1952 al ‘54, e i Boston Celtics, dal 1959 al 1966. Vincere di nuovo il titolo nel 1992-93 aveva proiettato direttamente i Bulls in quella ristretta e nobile cerchia e aveva assicurato loro un posto fra le più grandi squadre della storia del basket. Jordan intanto aveva stravinto il confronto con Barkley, terza vittima illustre dopo Magic (1991) e Drexler (1992), anche sul piano delle cifre. Per chi ci crede, esse non mentono: nelle 6 gare giocate, i due dioscuri sono stati in campo quasi per gli stessi minuti (i 274 di MJ contro i 277 di Sir Charles), a conferma della imprescindibilità che aveva, per le rispettive squadre, la loro presenza sul parquet; dal campo hanno tirato con il 50.8% (101/199) Mike e con il 47.6% (60/126) Chuck; mentre dalla linea 69.4% (34/49) di Jordan è battuto dal 75% (42/56) di Barkley; per il resto (rimbalzi, ovviamente, esclusi: 58-71 per l’ala di Phoenix), fu un dominio del Ventitré: assist (38 a 33), stoppate (10 a 7) e perfino stoppate (4 contro 3). I punti? 246 in totale (41 di media nella serie di Finale!) e un high di 55 per Jordan, 164 (27.3 ppg) e un massimo di 42 per Barkley.
Addio James
Ma, per Michael, la gioia per il terzo titolo NBA consecutivo durò poco. Suo padre, partito in auto il 22 luglio da Charlotte, North Carolina, alla volta di Burgan, una località nelle vicinanze di Wilmington dove, l’indomani, avrebbe presenziato alle esequie di un ex collega, scomparve. Le prolungate assenze di James Jordan non era una novità, ogni tanto era abituato a staccare la spina senza farsi sentire per giorni e Deloris non se ne preoccupava; quella volta, però, i giorni stavano diventando troppi. Nell’agosto del 1993, in un fossato del South Carolina, venne trovato un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Era James Jordan, il padre di Michael.
Quel 23 luglio, terminata la cerimonia funebre, James era ripartito alla volta di Charlotte. Durante il viaggio, probabilmente un po’ stanco, aveva deciso di riposarsi un po’ rimanendo in macchina e parcheggiò in una piazzola di sosta nei pressi di una sorta di autogrill lungo l’autostrada. Addormentatosi, James non si accorse della pericolosa presenza di due individui dalle non certo buone intenzioni che si aggiravano nelle vicinanze. Larry Demery e Daniel Green, due balordi diciottenni già con precedenti penali, avevano visto in quella lussuosa macchina (una Lexus rossa) una potenziale facile preda. Svegliatosi di soprassalto l’unico passeggero dell’auto, i due furono presi dal panico e uno dei due malviventi (Green, secondo la versione di Demery, ma le accuse furono reciproche durante tutta l’istruttoria) sparò a bruciapelo al povero Jordan. Gli assassini (o, meglio, l’assassino e il suo complice) s’impossessarono dell’auto e fuggirono nel vicino South Carolina. Si liberarono del cadavere gettandolo da un ponticello che dava appunto sul fossato dove venne poi ritrovato e, dimostrando di essere, oltre che due delinquenti comuni, anche due povericristi sbandati, incominciarono a “fare un po’ di vita” con quel bel macchinone nuovo ma commettendo il fatale errore di effettuare numerose chiamate dal telefono installato a bordo del mezzo. Dopo un patetico tentativo di rivendere a un ricettatore quella macchina “che scottava”, l’abbandonarono. Ma non ci volle molto per capire che cosa era successo. Il 2 agosto, in quel torrente, era stato ripescato un cadavere reso irriconoscibile dalla prolungata permanenza in quella zona paludosa; il 5 agosto, era stata ritrovata la Lexus rossa, o quel che ne rimaneva dopo che ne era stato tutto l’asportabile e, soprattutto, il rivendibile, e nello stesso giorno si era proceduto, dopo che era stato effettuato il consueto calco dentale, alla cremazione di quel defunto non altrimenti identificabile; il 13 agosto, reso noto l’esito del confronto fra il calco preso alla vittima trovata nel fossato e quello che risultava per il signor James Jordan, il riconoscimento ufficiale: il cadavere era quello del padre di Michael Jordan. Quel che ne seguì, le illazioni, le speculazioni e tutte le ondate di fango gratuito (presunti avvertimenti della mafia, debiti di scommesse non saldati da Michael) che investirono la famiglia Jordan, siamo orgogliosi di risparmiarvelo.
“La morte di mio padre – ha scritto Jordan in una sua autobiografia – pose fine a uno dei più vincenti e difficili periodi della mia vita. Lui era il mio migliore amico e sapeva tutto di me. Sapeva perfino, e con grande anticipo, di cose che mi sarebbero poi effettivamente accadute. Il lato brillante della mia personalità deriva da mio padre. Lui era un compagnone, uno che amava stare in mezzo alla gente, ed aveva un grande senso dell’umorismo. Mi ha insegnato tantissimo della vita, e una di quelle lezioni era che per ogni cosa che succede c’è un motivo.
Ecco perché sono stato capace di mantenere un atteggiamento positivo nei confronti della vita, della mia vita, dopo la scomparsa di mio padre. Io guardo a quella prova come a un modo che Dio ha scelto per dirmi che era ora di alzarsi e di prendere delle decisioni per mio conto. Non avevo più il sostegno e la guida di mio padre ai quali ricorrere.
Era giunto il momento per me di diventare più maturo nel mio approccio alla vita. Tutto quello che avevo fatto fino a quel punto, dal basket al business, era come se fosse stato sotto la supervisione dei miei genitori. Valutavo le loro opinioni e, in una certa misura, era come se avvertissi il bisogno della loro guida.
Quando lui morì, mi resi conto che dovevo incominciare a prendere delle decisioni indipendentemente da chiunque altro. Potevo sempre chiedere consigli e ascoltarne, ma la responsabilità era solo mia. Dovevo prendere quel tipo di decisioni che un uomo deve prendere e dovevo farlo da solo, senza nessuna spalla su cui poggiare. Questo non significa che lui non sia con me in ogni momento. Riesco a sentirlo. Io so che è con me.
Conservo le lezioni di vita e gli insegnamenti che mi ha dispensato nei 30 anni che sono stato con lui. E ho la sua voce, la sua presenza. Io so che mi sta guardando, so quali sono le sue reazioni ai miei successi, al modo in cui i miei figli crescono e a come è cresciuta la mia vita con Juanita.
Per tutto questo, quando mi guardo alle spalle e ripenso a quel periodo e alla sua morte, lo vedo come una prova. Ma so anche che mi porterò dentro quella prova per il resto della mia vita”.
Three-mendous, era stato il gioco di parole in voga in quell’annata che sarebbe stata coronata dal terzo anello per Michael e per i Bulls. Ma chi ha coniato quello slogan mai avrebbe immaginato che, delle molteplici accezioni della parola tremendous (fantastico, favoloso, ma anche tremendo, terribile), si sarebbe avuta così letterale declinazione.
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