CAPITOLO 26 - Era come tornare bambino
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Il baseball, negli Stati Uniti, rappresenta quel che per noi italiani rappresenta il calcio. È il batti-e-corri il loro più autentico national pastime, il passatempo nazionale. "Il baseball è come l'America vorrebbe essere, il football è l'America com'è", recita un vecchio detto. Ovvero bella, tradizionalista, pulita (e, sottinteso, d’un bianco candido) la prima; dura, violenta e aggressiva la seconda.
Ma pur secondo per popolarità al baseball e (forse) per violenza, all’hockey, il più americano dei giochi ha la palla ovale. Nessuno sport meglio del football, infatti, riassume meglio la storia e l’essenza della Frontiera americana.
Negli USA c’è ancora oggi una “psicosi eroica” del football: diventare un giocatore non è solo il sogno di ogni ragazzino, è anche una orgogliosa affermazione di mascolinità e di eroismo. Come recita un altro proverbio iu-es-ei, “la violenza è americana almeno quanto la torta di mele”. E allora, in questo senso, che cosa c’è di più americano del football?
“È stato come ritornare ancora bambino”
Nel resto del mondo - e forse anche nella stessa America - la gente comune, il cosiddetto Uomo della strada, non capisce. Quelli che si alzano tutte le mattine per fare un lavoro normale, retribuito in modo normale, i forzati del nine-to-five, dalle nove alle diciassette, i veri eroi quotidiani insomma, non se ne capacitavano. Ai loro occhi assomigliava tutto ad una nuova, insopportabile americanata. E forse sarà anche stato tale il ritiro di Michael Jordan dal parquet del basket per tentare l’avventura sul diamante del baseball, ma di certo questa facile etichetta, per quanto di forte presa sul pubblico, non basta per coprire tutto. Non poteva essere stata solo questo, un’americanata appunto, ad aver spinto, un bel giorno, il più forte giocatore di pallacanestro della sua epoca, ancora all’apice della carriera e fisicamente integro, ad abbandonare il suo sport per poi, a nemmeno due mesi dal ritiro, ricominciare da capo in un gioco che aveva abbandonato ai tempi del liceo, tredici anni prima.
Quello che il piccolo Mike aveva condiviso col padre. Il primo amore. Ora quel Mike era diventato adulto, l’adulto Michael Jordan, ed era irresistibilmente bello potesse essere anche l’ultimo. Anche se al suo fianco non c’era più papà James, per lui il solo riprendere in mano mazza, guantone e pallina “è stato come ritornare ancora bambino”.
Sarebbe stata quella, allora, la sfida delle sfide per un Michael Jordan ormai scarico, svuotato da una pallacanestro che non aveva saputo (o meglio, potuto) più creargli nuovi stimoli, altri traguardi da raggiungere: riuscire a diventare nel baseball un giocatore di Major-League, il suo sogno di fanciullo.
Abbandonare il basket e darsi al baseball, proprio una bella idea, suggestiva. Ma non fu la sua, di Michael intendiamo. O, per essere più precisi, non fu solo sua. “Ne avevo parlato con mio padre poco prima che morisse – ha ricordato Jordan – Ritirarmi dal basket e darmi al baseball: nell’ultimo anno lui spingeva molto in quella direzione. Nessuno mi proponeva sfide stimolanti e quella di mio padre era: Vai e datti al baseball”.
Ma se era vero che James Jordan aveva gettato il seme insistendo tanto su quella sfida, era anche vero che egli sapeva bene di trovare già terreno fertile in suo figlio, che ripercorre così quei giorni di sofferte decisioni: “Era dal lontano 1991 che stavo pensando di lasciare il basket per il baseball. Mio padre ed io parlavamo sempre di baseball per via di quanto stavano facendo Bo Jackson e Deion Sanders . Lui aveva sempre avuto l’idea fissa che giocassi a baseball, perché era stato lui ad iniziarmi a quel gioco quando ero piccolo.
Nei primi anni Novanta incominciai ad ricevere inviti per giocare qualche partita con squadre di minor-league. Muggsy Bogues e Dell Curry (papà di Steph, nda) avevano giocato per un po’ con una squadra del North Carolina, allora mio padre mi disse: ‘Perché non ci provi anche tu?’, ma io non avevo mai avuto abbastanza tempo durante la offseason e inoltre non avevo ancora raggiunto tutto quello che volevo raggiungere nel basket. Sapevo però che a un certo punto, prima o poi, ci avrei fatto un pensierino. Nessuno ha mai neanche saputo che avevamo avuto quelle conversazioni e tanto meno che io parlassi seriamente riguardo al fatto di lasciare il basket.
Nei primi anni Novanta incominciai ad ricevere inviti per giocare qualche partita con squadre di minor-league. Muggsy Bogues e Dell Curry (papà di Steph, nda) avevano giocato per un po’ con una squadra del North Carolina, allora mio padre mi disse: ‘Perché non ci provi anche tu?’, ma io non avevo mai avuto abbastanza tempo durante la offseason e inoltre non avevo ancora raggiunto tutto quello che volevo raggiungere nel basket. Sapevo però che a un certo punto, prima o poi, ci avrei fatto un pensierino. Nessuno ha mai neanche saputo che avevamo avuto quelle conversazioni e tanto meno che io parlassi seriamente riguardo al fatto di lasciare il basket.
A partire dall’estate 1992 sarei stato pronto a dedicare l’intera stagione estiva al baseball, ma il Dream Team e le Olimpiadi di Barcellona riposero i miei progetti di baseball nel cassetto. Tuttavia non sapevo per certo che avrei finito per giocare a baseball, quando mi sono ritirato. Non sapevo nemmeno se avrei avuto anche solo l’opportunità di giocare”.
“Andai da Jerry Reinsdorf e gli confessai che c’era ancora qualcosa che volevo inseguire. Lui era già a conoscenza della mia passione per questo gioco, quindi non fu preso completamente alla sprovvista. Nessuno di noi due voleva spettacolarizzare il mio desiderio di giocare, così incominciai ad allenarmi privatamente con Bill Melton, un famoso ex giocatore dei White Sox, e il trainer della squadra, Herm Schneider. Dopo circa otto settimane la notizia incominciò a trapelare e io la rivelai al mondo intero. Io mi sono sempre ritenuto un grande atleta all-around e ho sempre creduto di poter fare qualunque cosa, se mi ci fossi messo d’impegno. Facevo sul serio riguardo al riuscire a far parte della squadra dei White Sox”.
Una volta mollato il basket, MJ aveva chiesto a Ron Schueler, il GM dei White Sox, di potersi allenare con la squadra. Dove voleva andare a parare non era difficile indovinarlo e Schueler si tolse subito la maschera dichiarando: “Sarò pure ridicolo, ma se non fossi io a farlo tentare ci sarebbe sempre qualcun altro disposto a farlo e non bisogna dimenticare chi sia Jordan e di quali doti atletiche disponga”.
Reinsdorf, dal canto suo, rassicurò Michael che in quel provino avrebbe avuto una valutazione il più possibile equa.
Intanto i media, il pubblico, gli ex e i possibili futuri compagni di squadra di Michael furono ovviamente del tutto sorpresi dall’inaspettata decisione di MJ. Ma, mentre alcuni sentivano che egli avrebbe potuto avere successo in questa sua nuova avventura, altri, sicuramente più consapevoli delle difficoltà tecniche e fisiche che il baseball comportava, dubitavano alquanto che Jordan potesse ben riuscire, soprattutto per quanto riguardava il saper battere efficacemente. Il fondamentale della battuta, infatti, è uno dei più difficili in assoluto, e chi capiva di baseball questo lo sapeva bene.
Come andò a finire poi, lo sappiamo tutti: Jordan si sarebbe rivelato un paio di gradini sotto il livello della major-league. Ma Michael fu l’indiscutibile grande attrazione di quei ritiri precampionato primaverili ed è inutile aggiungere che fu anche questo, unitamente al suo irrefrenabile entusiasmo, sempre privo di esitazioni, che spinse i Chicago White Sox ad offrirgli un contratto, seppure inizialmente solo di minor-league. Detto e fatto, in un batter d’occhio, la più celebre superstar del mondo dello sport era diventata di colpo uno degli elementi dei Birmingham Barons della AA, categoria di due livelli inferiore alle major-league. Il tentativo di Jordan di entrare nel baseball pro’ passando subito dalla porta principale era fallito.
Fra persistenti voci che sarebbe ritornato ai Bulls, cosa che l’interessato negò ripetutamente, Jordan finì per giocare un’intera annata con i Barons.
MJ era un solido outfielder (esterno), con un braccio, come si dice in gergo, abbastanza decente; sapeva correre bene sulle basi, ma era un mediocre battitore, capace di colpire a malapena col 20% dalla buca. Michael, tuttavia, non si arrese e mostrò (deboli) segnali di miglioramento nelle winter league, le leghe invernali, e i White Sox si dichiararono persino pronti ad offrirgli un contratto di AAA per la stagione 1995, portandolo ad un passo dal coronare il suo sogno di giocare in quelle tanto sospirate major-league. Ormai ci siamo quasi, deve aver pensato Jordan a quel punto, ma si sbagliava.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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