CAPITOLO 22 - Back-to-back (1991-92)


«Lo ammetto, ho commesso degli errori» 
- Michael Jordan 

«È un vincente. Gioca solo per vincere, non per fare spettacolo» 
- Clyde Drexler 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan 
© Rainbow Sports Books 

Il fattore "più" 

Si sente sempre dire, e probabilmente è vero, che restare al vertice sia più difficile che arrivarci. I perché sono svariati: ogni avversario ti dà la caccia con più determinazione, nel club che ha vinto tutti sono più appagati, ci sono più distrazioni fuori del campo, i giocatori vogliono più soldi, le riserve vogliono più spazio. Più "eccetera", insomma. 

Quando una squadra arriva in cima alla montagna, accade quello che gli americani con chiamano il more-factor, quel "fattore-più", o forse è meglio dire "di più", che rende tanto difficile il ripetersi campioni. Che esista o no, questa sindrome del bis, i Bulls, di fresca nomina nuovi re della collina, non avranno vita facile nel provare a difendere il loro primo titolo di sempre. Un sacco di pretendenti al trono non vedono l’ora di buttarli giù. 

La stagione incomincia con dei sussulti che avrebbero subito dovuto far presagire il terremoto poi puntualmente arrivato. 

Il primo viene sottovalutato e considerato solo per quello che lì per lì sembra, vale a dire un capriccio, il vezzo di una superstar che si crede, intoccabile, irraggiungibile. È il caso di Jordan, che declinare il tradizionale invito, in autunno, al Rose Garden della Casa Bianca, per la squadra campione NBA. 

Michael viene criticato e tra i censori più severi se ne annovera uno (fino a un certo punto) insospettabile: il compagno di squadra (e fino ad allora amico) Horace Grant. Lì per lì non si comprendono appieno quali siano i motivi che spingono Grant, che pure aveva già mostrato di mal digerire l’enorme popolarità del compagno, a una così gratuita polemica, se non appunto per invidia. 

Scavando bene, però, sarebbero poi emersi vecchi rancori, a malapena sopiti dal raggiungimento del titolo, ma comunque presenti. «Credo fosse una di quelle situazioni – osserverà poi Phil Jackson – in cui Horace Grant si sentisse trascurato, lui era consapevole di saper brillare di luce propria e voleva essere uno degli elementi di spicco. C’erano delle cose di Horace che infastidivano Michael. In sostanza, il fatto che Horace dicesse sempre, davanti alla stampa, tutto quello che gli passava per la testa. Una delle situazioni che più contrariarono Michael successe proprio dopo la nostra prima vittoria in campionato, quando Horace, Michael e rispettive consorti si recarono a New York, dove sarebbero andati a cena e a teatro. Mentre erano in giro, Michael gli disse che non sarebbe andato all’incontro con il Presidente George Bush. "Non è mica obbligatorio. È il mio tempo libero e ho altro da fare", gli confidò. 

Era vero, Jordan aveva altro da fare. Il primo ottobre, data prevista per la visita a Washington, deve andare al mare, e non certo per fare il bagno (dell’acqua, come sappiamo, ha il terrore) ma per giocare a golf, il suo passatempo preferito. E più che della Casa Bianca, Michael aveva voglia di casa sua. Più precisamente, tra le mille possedute, quella di Hilton Head, in South Carolina. 

«Horace al momento non fece problemi al proposito», aggiunge Jackson. «Lo aveva saputo in confidenza e non aveva detto niente. Tuttavia, quando in seguito irruppe sulla scena la stampa, dopo che la storia era ormai divenuta di dominio pubblico, vistosi chiedere se la cosa lo avesse seccato, ne fece un affare di Stato. In buona sostanza, era stata la stampa a mettergli in bocca le parole, ma lui aveva creduto che fosse l’occasione buona per fare quel tipo di dichiarazioni. 

La cosa fu subito un elemento di spaccatura all’interno della squadra e mise Michael in cattiva luce e questo, di fatto, prima ancora che l’intera vicenda fosse incominciata. Quello che più aveva dato fastidio a Michael, di Horace, era come questi ne avesse fatto una questione personale e per di più di quella portata. Horace aveva dei problemi da quel punto di vista, molte volte gli era capitato di dire delle cose che la stampa gli aveva messo in mente o fatto intendere. 

«Io lo chiamai e gli ricordai che rischiava di essere multato per aver fatto dei commenti lesivi per la squadra. Gli dissi: “Horace, avrei tutte le ragioni per multarti, ma non lo farò perché so che è stata la stampa a metterti in bocca quelle parole". Lui mi rispose: "Io non sono uno che racconta delle balle’. Nessuno ti sta dicendo di mentire, gli replicai, ma devi essere cosciente di ciò che vai dicendo. Non devi creare volutamente delle divisioni”». 

Il povero Orazio, recidivo, si prende la sua brava lavata di testa, ma la bufera appena passata sarebbe stata una pioggerellina primaverile al confronto della tromba d’aria che stava per arrivare. 

Lo stesso Grant, infatti, era servito anche come fonte principale per la stesura del libro-scandalo di Sam Smith, l’inviato incaricato di coprire il basket per il Chicago Tribune, quotidiano per il quale lavorava dal 1979, e sarebbe stato, suo malgrado, ancora protagonista. 

The Jordan Rules, Le regole di Jordan (ma anche: È Jordan che comanda, giocando sul verbo to rule), questo il titolo della fatica letteraria del cronista sportivo all’epoca più vicino ai Bulls, prometteva nel sottotitolo, The Inside Story of a Turbulent Season with Michael Jordan and the Chicago Bulls, di raccontare succosi retroscena di ciò che era avvenuto nello spogliatoio-polveriera durante la stagione precedente, quella del 1990-91 che li aveva laureati Campioni del mondo. 

Una bomba a orologeria, più che uno spogliatoio, dove, pare, regnasse una sorta di terribile despota. Un tiranno con i tratti del «23» più famoso dell’universo, che, stando a quanto riportato nel volume, maltrattava i compagni, non necessariamente quelli più scarsi dal punto di vista tecnico quanto, piuttosto, quelli che, secondo lui, meno bramavano la vittoria. E che intimava loro di non passare la palla negli ultimi quattro minuti a quello che, fino a prova contraria, era il centro titolare della squadra, Bill Cartwright. E che ingaggiava lotte di potere col management, passando, in ordine sparso, dai bizzosi attacchi verbali al GM Jerry Krause fino alle mattane contro coach Phil Jackson (ancora lontano dall’essergli quella sorta di inseparabile Grande Fratello cui vincolerà la propria permanenza in squadra nella seconda parte di carriera). E altre cosucce del genere. 

Che il libro, uscito nella sua prima edizione proprio nell’ottobre del 1992, sarebbe stato un caso (ehm) letterario, non ci voleva un genio del marketing editoriale per capirlo. I presupposti per vincere sul mercato (mezzo milione di copie vendute) c’erano tutti. 

A cominciare dall’episodio di Cartwright, il centro, come dire, inizialmente poco amato da Michael: Bill, l’unico vero lungo del roster, era stato importantissimo nella conquista del primo anello dei Bulls, eppure, secondo il Grande Dittatore, in certi frangenti non avrebbe dovuto toccare palla (in senso letterale, cioè la squadra, la boccia, non doveva passargliela). 

Smith, infatti, nel suo libro riporta di come Jordan, nell’anno del titolo, non volesse che i compagni servissero l’ex Medical Bill (la parcella del dottore, giocando sul diminutivo e i frequenti infortuni) quando si decidevano le partite, vale a dire nel finale, e anche di come l’ex Knicks fosse umanamente esploso, all’ennesima provocazione subita, promettendo a Air che ci avrebbe pensato lui a trovargli il sistema per fargli terminare la carriera (molto) prima del previsto. 

Jordan, che sarà anche smisuratamente orgoglioso e smanioso di vittoria, ma di certo non stupido, capì in quel preciso istante di essere andato troppo oltre. E che da quel momento sarebbe stato più igienico indirizzare ad altri, un po’ meno suscettibili, i suoi strali. 

Non per fare di quell’opera un caso più grande di quello che è, ma è inutile sottolineare quanto poco ne abbiano gradita la pubblicazione (e il conseguente, inevitabile chiasso mediatico che ne sarebbe derivato) Jordan e il suo entourage. 

Così come può essere altrettanto facile immaginare, che la sua frustrazione fosse ancor più accentuata dall’evidente impossibilità di smentire le cose descritte. Che erano vere. O meglio, sulle prime Michael ci prova anche a negarne la veridicità ma gli esiti appaiono subito alquanto deludenti. 

Come iniziale misura di autodifesa Jordan improvvisa anche uno strano (e in America inconcepibile) silenzio-stampa. «Se debbo essere buttato giù dal piedistallo sarà per qualcosa che avrò fatto io» dichiara davanti alle telecamere, concetto ribadito anche in uno dei suoi vendutissimi home video. «Non permetterò a nessuno di mettermi da parte senza ragione, o per qualche commento che non ho mai fatto». Tecnicamente, His Airness aveva pure ragione: quello di non passare il pallone a Cartwright nei quattro minuti finali delle partite, non era un commento. Era un ordine. Il suo. 

Se Michael non sembra prendere bene la pubblicazione del libro, non si può certo sostenere che i vertici della sua società abbiano reagito meglio. Ad incominciare da Krause, che del club è il vicepresidente per le operazioni cestistiche. “Mi sono rivolto al miglior avvocato civilista del Paese – dice Krause all’epoca – ma questi mi ha ricordato che non potevo farci niente perché ero un personaggio pubblico. Sam Smith ha fatto i soldi con quel libro, e spero che gli vadano di traverso, fino all’ultimo dollaro!”. 

Dichiarazione che non fa onore al buon Jerry. Anche se in verità Mr. Crumbs non è mai apparso particolarmente attivo nel curare, in tutti i sensi, la propria immagine. 

Cartwright, che pure avrebbe avuto tutto il diritto di alterarsi un po’, reagisce invece con gran classe, per usare le stesse parole dei reports degli scout che a inizio carriera ne avevano descritto le movenze in post basso. 

Incalzato dai giornalisti, bramosi di strappargli qualche dichiarazione anti-Jordan, Bill, appena giunte in edicola le prime anticipazioni del libro, dice davanti ai microfoni: “Credo che tutti abbiano letto i giornali, oggi. Ma qualcuno ha detto che non bisogna credere a quello che si legge sui giornali”. La classe non è acqua. 

Phil Jackson, il più “filosofo” dei coach, come suo costume, non può che prenderla con filosofia. The Jordan Rules è stato deleterio per la squadra”, dichiara a fine stagione il coach. “Ma il grande merito di questo gruppo è che non ha mai lasciato che l’ambiente esterno influenzasse il gioco della squadra in campo”. 

Ma se sono gli stessi giocatori a fornire alla stampa informazioni che loro in primis ritengono riservate, difficile poi pretendere che non nascano screzi all’interno della squadra. Anche se in questo caso le frasi pronunciate da Michael sembrano andare in verso opposto. “Non ne parlavamo mai”, giura un MJ in versione pinocchio. “Conoscevamo la verità e sapevamo quali fossero i veri rapporti fra di noi. L’episodio del libro è servito a renderci più uniti, ad aiutarci a tenere per noi quel che succede fra i 12 giocatori o le 15 persone del team, senza permettere ad estranei di rompere il cerchio. Quell’episodio ci ha dato fastidio ma ci ha uniti, ci ha fatto concentrare di più sul basket giocato”. Le parole di Jackson e di Jordan sono belle ma la realtà è un’altra cosa. 

Per nulla distratto dal mare di polemiche, Krause continua a navigare sottocoperta per cercare di sistemare il roster, e con uno scambio novembrino spedisce lo scontento Dennis Hopson a Sacramento per la guardia di riserva Bobby Hansen. Il povero Hopson meriterebbe almeno una difesa d’ufficio, ma l’operazione appare inutile perché il suo destino è quello di passare alla storia come il simbolo dei tanti atleti umiliati in allenamento dalla leggendaria competitività di Jordan. E dal fatto che Dennis fosse un pallino di Krause, sempre meno sopportato da Mike. 

C’erano tre giocatori nel mirino dei Bulls in vista della stagione 1990-91 – ricorda Jordan nel 1998 – Walter Davis, Danny Ainge e Dennis Hopson erano tutti e tre disponibili e la squadra aveva abbastanza spazio sotto il tetto salariale per prenderne uno. Io volevo Walter Davis perché sapevo che poteva ancora avere punti nelle mani e che sarebbe stato in grado di togliermi un po’ del peso offensivo. Ho sempre avuto un debole per il modo di giocare di Walter e sapevo che non si sarebbe fatto innervosire dalle tattiche [intimidatorie, nda] dei Pistons. Ma la moglie di Walter non voleva trasferirsi a Chicago, così Krause mi chiese di Ainge e di Hopson. La mia risposta fu semplice: Vada a vedere come se la sono cavata contro Detroit negli ultimi due anni e prenda quello che ha fatto le prestazioni migliori. Ma Krause si era già fatto le sue idee prima ancora di parlare con me: lui voleva Hopson. Ora, io sapevo che Dennis Hopson non era il tipo di persona su cui potevamo contare contro Detroit. Riuscivo a leggergli negli occhi la paura tutte le volte che giocavamo contro New Jersey, dove Hopson aveva giocato. Perché non prendere Ainge? Sapevo che Danny non si sarebbe tirato indietro di fronte ai Pistons e che aveva giocato abbastanza a lungo con Larry Bird nei Celtics per capire che cosa ci volesse per vincere. Krause però era del parere che Hopson potesse essere il tipico giocatore-franchigia e che avesse solo bisogno di cambiare aria perché per lui le cose non erano andate bene in New Jersey. “Be’, non mi pare che siano andate proprio alla grande neanche a Chicago”. Micidiale come sempre la lingua di Michael. 

I Bulls partono compilando un record di 37-5, compresa la striscia di 14 successi consecutivi, la più lunga della loro storia. Rallentano tra gennaio e febbraio, quando arrancano con 11-8. Poi, dai primi di marzo, il parziale di 19-2 consente loro di chiudere, il 19 aprile (vittoria su Detroit), una regular season da 67-15 (10 successi in più del secondo miglior risultato della Lega) che rappresenta il primato di franchigia ed il quarto record stagionale nella storia della NBA. 

Sia MJ sia Pippen vengono nominati nel Primo quintetto Difensivo e per “Da Pip” c’è anche un’altra meritata virtuale convocazione, quella per il Secondo Quintetto All-NBA. Jordan, a soli ventinove anni, raggiunge la sua sesta corona di capocannoniere e, anche se i suoi punti stavolta scendono a 30,1 per gara, la sua leadership e il suo migliorato gioco di squadra gli valgono il premio di MVP della Lega, il terzo. 

Nella ormai consueta cerimonia di consegna del Maurice Podoloff Trophy , David Stern pronuncia le seguenti sacrosante parole: “Avendo vinto per sei volte il titolo di miglior marcatore ed essendo stato nominato in tre occasioni MVP, stai fissando uno standard in base al quale sarà misurata la bravura degli altri giocatori di basket”. Mr. Stern non sbaglia un colpo, e questo si sa, ma neppure lui potrebbe mai immaginare che quello che ha visto sin lì sarà solo circa la metà dei successi che Air avrebbe accumulato in carriera. 

I Bulls per gran parte della stagione sono in corsa per quella che allora sembra una specie di utopia, raggiungere il record delle 70 (settanta!) vittorie stagionali. 

Il primato di 69-13 come miglior bilancio di regular season (equivalente allo stratosferico 84,1% di vittorie) apparteneva ai Lakers che, esattamente un ventennio prima (1971-72), si sarebbero poi laureati campioni NBA alla fine dei playoff. Rivolgendosi ai media, Michael ammette che anche la squadra ci sta facendo più che un pensierino. “È nostra intenzione continuare a vincere. È questo che faremo d’ora in poi. Se riusciremo a cogliere le 70 vittorie, fantastico! Così per due serate ci lascerete in pace”. 

Jordan però, a cose fatte, non nasconderà che la squadra stessa si fosse fatta condizionare da questa in fondo platonica meta. “I media ne parlavano tanto da renderci difficile il compito, non pensavamo ad altro che alle 70 vittorie”. 

La pressione si fa sempre più insostenibile e per Michael, già al limite della sopportazione per le sollecitazioni che il suo status e altre vicende che vedremo gli impongono, si stanno per rompere gli argini. Il fiume di stress e di aspettative straripa in un’apparentemente normale partita di campionato contro gli Utah Jazz. 

I Bulls stanno compiendo l’ultimo lungo road-trip, e tutti, operatori dei media e non, avvertono che, al termine di quella striscia di trasferte, si capirà qualcosa di più sulle possibilità di Chicago nella corsa a quel fatidico traguardo. 

Nella tappa di Salt Lake City, i locali Jazz e i Bulls danno vita a una partita indimenticabile, punto a punto. Jordan a 2,4” dallo scadere sbaglia il tiro (ferro) che avrebbe evitato ai suoi di andare al supplementare. Si gioca allora un overtime, poi un secondo, nel finale del quale, a 2,5” dalla sirena, Jordan fallisce di nuovo il tiro della vittoria. Stavolta la sua conclusione è un airball, che nemmeno arriva al ferro e viene addirittura abbrancato in presa volante dall’ala forte di Utah, Karl Malone. 

Si va al terzo supplementare. E, a 1,9” dallo scadere, a Jordan viene fischiato un fallo. Il “23” rosso incomincia a dare in escandescenze: protesta violentemente ma l’arbitro non lo calcola più di tanto; Michael è furioso e continua a dare addosso al povero fischietto. Una cosa mai vista, perlomeno da parte di Air, che ammette: “Ho perso il controllo, completamente. Ero fuori di me. Dovevate vedermi nello spogliatoio, ho tirato calci alle sedie, ho spaccato la lavagna. Era la prima volta che perdevo il controllo durante una partita”. 

Molto semplicemente Jordan non ce l’aveva più fatta a trattenersi ed era esploso. In seguito a quell’episodio la NBA lo squalifica per una giornata e lo multa di 5000 dollari. MJ, dal canto suo, decide opportunamente di non presentare ricorso (d’altra pare aveva torto) contro i provvedimenti disciplinari e non rilascia dichiarazioni salvo un banale “Ci vediamo a Orlando”. Il luogo prescelto dalla Lega per la consueta kermesse di metà anno, l’All-Star Weekend. 

Alla 42-esima Partita delle stelle, Mike trova finalmente un po’ di serenità. E qualcuno con cui dividere le luci dei riflettori: Magic è tornato. Tre mesi dopo il suo ritiro, i tifosi – che decidono il primo quintetto dell’All-Star Game, mentre agli allenatori va la scelta del resto dei convocati – lo avevano lo stesso votato come guardia titolare per la Western Conference (quella dei suoi ex Lakers) e a Jordan non pare vero di poterlo riabbracciare e di poter stare finalmente in disparte. 

“Lo rispetto tanto – dice Michael in quell’occasione – ed ero felice di averlo di nuovo vicino. Consideravo quella partita la sua opportunità di tornare alla grande, di brillare in campo. Volevo stare dietro le quinte e permettere a lui di farsi avanti, di mettersi davanti alla telecamera. Ci tenevo che provasse la gioia di essere tornato a giocare di nuovo”. Al centro del campo, Magic, Isiah e Michael (amici i primi due e il primo col terzo, acerrimi rivali gli ultimi due) sembravano tre fratellini che si fanno fotografare sorridenti per non rovinare quella che si sarebbe rivelata, per Earvin, un’autentica festa popolare. 


Il dramma di un amico 

Quella del 1991-92 sembra essere veramente una stagione maledetta. Per tutti. Anche per Magic. Il 7 novembre 1991 il fuoriclasse Earvin Johnson dava l’addio alla cosa che più di tutto aveva amato in vita sua, il basket. 

Al confronto di quelli dell’amico, i problemi extra-basket di Jordan sembravano uno scherzetto. L’agente di Magic [Lon Rosen, nda] chiamò David Falk dicendogli di chiamarmi immediatamente”, racconta Michael di quel giorno in cui seppe la notizia. “Quando David mi chiamò, stavo tornando a casa in macchina dall’allenamento. Distrutto dalla conversazione precedente, mi disse che Magic aveva qualcosa di molto importante di cui parlarmi e che avrei dovuto richiamarlo subito. Allora lo chiamai. Riuscii a trovare subito Magic e gli chiesi: “Che c’è?”. Mi disse che era risultato positivo al virus dell’HIV e che avrebbe annunciato il suo ritiro nella conferenza stampa prevista dopo un’ora. Rimasi sbigottito. Non riuscivo neanche più a guidare. Accostai al bordo della strada e rimasi soltanto ad ascoltare. Lì per lì non avevo capito bene cosa mi stesse dicendo. Conoscevo l’AIDS ma non ero sicuro di cosa fosse esattamente l’HIV. Lui mi spiegò la situazione, che cosa significasse e ciò che avrebbe fatto. Non riuscivo a crederci. Tutto quello che mi aveva detto era improntato all’ottimismo. Mi ha assicurato che avrebbe sconfitto la malattia e che tutto sarebbe andato bene. Se fossi stato io al suo posto non sarei stato in grado di parlare con nessuno. Non avrei voluto parlare con nessuno. Non riesco a immaginarmi mentre chiamo e con calma spiego la situazione rimanendo ottimista. Non sarei stato in grado di parlare. Quante altre persone di primo piano si sarebbero alzate, avrebbero affrontato la situazione e poi si sarebbero date da fare per risolvere il problema?”. 

7 novembre 1991
“A causa del virus HIV da cui sono affetto, devo lasciare i Lakers. Oggi”.

Queste le parole pronunciate da Magic in quella conferenza stampa. Johnson dirà poi ai media, e quelle immagini faranno in pochi secondi il giro del mondo, che gli mancheranno le partite e tutti i ragazzi coi quali si sentiva più legato. Tre di questi, naturalmente, li aveva già contattati prima di dare alla stampa l’annuncio della sua sieropositività. I tre erano Larry (Bird), Michael e Isiah (Thomas). Jordan, palesemente scosso per la vicenda decide di dare una mano a Magic nell’altra durissima battaglia (parallelamente a quella per la propria guarigione) che egli si appresta a combattere. Quella della prevenzione. 

Come anni prima aveva realizzato, in partnership con uno dei suoi sponsor più storici (la McDonald’s), un apprezzabile spot antidroga, ora Michael vuole fare lo stesso per mettere in guardia soprattutto le categorie più a rischio di contaminazione dalla feroce malattia: “Non importa chi sei né il lavoro che fai”, recita il messaggio televisivo di Jordan. “L’AIDS è un problema per tutti. Magic ha affidato a tutti noi una grossa responsabilità. Non deludiamolo. Informatevi”. 

Il rammarico tecnico che Jordan prova in quell’autunno è di non aver potuto competere appieno con l’amico-rivale, che ora lo “abbandona” da solo sulla scena. “Non ho mai avuto l’occasione di giocare contro di lui come avrei voluto – spiega Michael all’epoca – perché era lui che m’ispirava. [Sul gradino più alto] c’erano Magic Johnson e Larry Bird, e poi [più sotto] c’ero io. Per raggiungere l’ultimo gradino dovevo confrontarmi con loro. Mi sentivo come tradito perché Magic stava lasciando il basket proprio quando avevo maggior bisogno di lui”. 

L’All-Star Game del 1982, gara vinta dalla selezione Ovest con uno scarto apocalittico (135-113), è una sorta di sua partita di addio al basket, e Magic la suggella con una tripla finale (su cui, come forse era giusto, la difesa dell’amico Thomas non fu proprio da Bad Boy).

Ineluttabile, a fine show, il meritato premio di MVP della partita. “Un tempismo perfetto”, sono le parole di ringraziamento di Michael, che, bisognoso come non mai di una guida, ritiene di trovarla, seppure per un solo, fulgido momento, in Magic. “Era come se dopo un lungo periodo da protagonista avessi un modello positivo da seguire, e questo mi ha ridato la carica”. 

Gli servirà. Mentre la stagione regolare riparte, Mike sa di aver altro di cui preoccuparsi oltre il basket. “Durante l’All-Star Game capimmo che non saremmo riusciti a vincere le 70 partite e così le cose sono tornate alla normalità. Ma per me non sarebbe stato facile”. 


"Who wants to ‘be like Mike’, now?" 

Mentre la squadra ha ormai compreso l’impossibilità (e forse anche la sua inutilità) del raggiungimento del traguardo delle 70 vittorie stagionali, per Michael incomincia il periodo più brutto di tutta la sua vita. Durerà per circa un anno e mezzo. Ma questo, al momento, non può saperlo. 

Il 1° ottobre 1991 MJ era andato a giocare a golf nel South Carolina, a Hilton Head, in compagnia di amici e altri - speriamo per lui - semplici conoscenti. Tra i primi, c’era l’amico d’infanzia David Bridgers (quello, se ricordate, che da piccolo, assieme Mike, era stato cacciato dai vicini che avevano visto un ragazzino nero tuffarsi nella loro piscina); fra i secondi, figurava James “Slim” Bouler. Per non tediarvi con noiose questioni che poco hanno a che fare col basket vi riportiamo l’essenziale. 

Questo Bouler, già in passato accusato di riciclaggio di denaro sporco proveniente da loschi giri di gioco e di droga, in quel marzo 1992 era indagato dal Fisco che lo aveva trovato in possesso di un assegno di 57mila dollari che recava la firma di uno che proprio un illustre sconosciuto non era: Michael Jordan. 

Riassumendo, quei soldi, mai dichiarati all'IRS, erano stati definiti da Bouler “un prestito” (il che almeno in teoria doveva spiegare come mai il soggetto non l’avesse dichiarato al fisco, e quindi versato le relative tasse) e che in realtà quella somma saldava (parte?) delle scommesse perse da Jordan su ogni buca del green di Hilton Head quel 1° ottobre 1991. 

Jordan, stavolta, era proprio stato sfortunato. Non solo si era ritrovato quel tipo losco tra i piedi, non solo aveva perso, ma il tutto gli era capitato proprio quando avrebbe dovuto recarsi con il resto della squadra dal Presidente Bush. Come dire proprio quando tutto il mondo voleva sapere dove fosse. 

Michael, prima di essere chiamato a testimoniare, dà una prima versione che avalla la tesi di Bouler (ovvero che il denaro era un prestito, motivato con il progetto di costruire un percorso di allenamento presso un centro golfistico di proprietà dello stesso Bouler nel North Carolina), poi il Chicago Tribune pubblicare la versione di Jordan, il quale una volta sul banco dei testimoni non può fare altro che ripetere la seconda versione, quella riveduta e corretta. 

Ma non è ancora tutto. Tra gli altri presenti quel primo ottobre c’è Eddie Dow, poi accoppato da quattro personaggi del suo ambiente e a lui vicini (tre figuravano nel suo libro-paga), e nella sua abitazione erano stati trovati assegni in quantità industriali (per un ammontare complessivo di 108mila dollari!) alcuni dei quali recanti il nome di un famoso cestista di Chicago, che sul parquet indossa il "23". 

Il clamore che segue lo scoppio della vicenda, come si può facilmente immaginare, è enorme. Un simile polverone di fango, seppur spazzato dal glaciale vento che frusta la Windy City nei rigidi mesi invernali, sporca l’immagine di Jordan, fino ad allora sempre di un bianco candido. Jordan scommette. Finalmente gli viene trovato un difetto. Non gli sarà perdonato. 

Nel suo video Air Time, uscito alla fine di quella stagione, dopo le Olimpiadi di Barcellona 1992, Michael racconta come ha vissuto quel periodo per lui estremamente delicato: ÇA nessuno fa piacere trovarsi di punto in bianco in una situazione in cui si è bersagliati dalle critiche. La gente dice: ‘Guardate, guardate quest’uomo: lo credevamo perfetto e invece non lo è. Guardatelo, ha commesso un errore’. Nessuno è perfetto, neanche Michael Jordan, né lei [rivolto all’intervistatore, nda], né nessun altro. Credo che quando commetti un errore devi alzarti ed ammetterlo, e poi andare avanti. Quella vicenda è stata solo una delle cose che mi sono capitate in un anno molto difficile per la mia carriera. Ma, come ho detto, in caso di avversità, se riesco ad accettare le cose buone che mi capitano, riesco anche ad accettare quelle negative, ad andare avanti”. 

Alla NBA, però, l’intera faccenda non sconfinfera molto, e non tanto e non solo perchŽ l’uomo sulle cui spalle essa sa di reggersi (perlomeno in buona parte) incomincia a barcollare, ma anche e soprattutto in considerazione del fatto che quello fra basket e scommesse, nel passato, soprattutto a livello di college, era sempre stato un matrimonio pericolosissimo, con tanto di invitati poco cortesi come la giustizia sportiva (e i relativi regali di squalifiche e radiazioni) e quella ordinaria (che porta in dono arresti e condanne), e affini. 

Ma naturalmente quelle indagini condotte su iniziativa di The League non approdano a nulla, perché nulla c’è a cui approdare. La vicenda, nella sua pur poco edificante semplicità, è tutta lì: il Nostro, con gli squallidi giri delle scommesse, non c’entra per nulla. Jordan aveva solo scioccamente perso delle gran somme con dei personaggi che invece, nei guai, ci si erano ficcate sul serio. Concluse le indagini, il comunicato ufficiale della NBA rende noto che “la NBA non intendeva prendere alcun provvedimento disciplinare nei confronti di Michael Jordan”. Approfittando della imminente trasferta dei Bulls contro i Knicks, il giocatore incontra il Commissioner David Stern e diversi altri funzionari della lega e, dopo il colloquio di New York, Jordan può scendere normalmente in campo al Madison Square Garden. Vicenda chiusa, insomma. Almeno per la National Basketball Association. 

“Fino alla stagione 1991-92 non si era mai scritto o detto granché di negativo sul mio conto”, scrive Jordan nella sua ultima autobiografia non a caso intitolata For the Love of the Game, "Per Amore del Gioco" (non d’azzardo ma il basket), “Dopo che avevamo vinto il primo campionato non c’era davvero più niente da ridire sul mio modo di giocare così hanno incominciato a rivolgere lo sguardo su di me come persona. Lo ammetto, ho commesso degli errori. Non sono stati sbagli madornali, di quelli che ti cambiano la vita, ma ho dovuto alzarmi e far fronte al fuoco serrato degli attacchi. Le storie di gioco erano situazioni nelle quali mi ero ficcato da solo ed ero io il responsabile delle mie azioni. Ma il comportamento che ho tenuto in quelle situazioni, in particolare il vizio del gioco, è stato umano. Ho fatto degli errori e ho pagato. Per certi versi, credo che la gente abbia proprio allora incominciato a vedermi più simile a sé, più una persona con problemi e difficoltà. Il modo in cui fino a quel momento ero stato visto non era per niente reale. é stato un momento difficile, ma sono cresciuto. Non ero più soltanto quello che giocava in uno sport che mi dava un sacco di soldi e che mi aveva procurato l’adorazione di milioni di tifosi. Non era più tutto così semplice, e in qualche modo non era più neanche tutto così puro. Vivevo il basket come un business dentro e fuori dal campo. Non ho mai commesso errori seri, non ho mai avuto problemi di alcool, di droga o con altre cose del genere, ma non ero quella specie di persona perfetta che galleggiava al di sopra dei problemi della vita di tutti i giorni”. Chi voleva più “essere come Mike”, adesso?  


Fuori dal tunnel 

Passata la sua personale bufera, Jordan può finalmente dedicarsi a quello che nella vita sa fare meglio e per cui è nato: giocare a basket. Meglio ancora se nell’elettrizzante atmosfera dei playoff. Sempre nel suo video Air Time, un Michael entusiasta descrive che cosa prova quando finisce quella noia della regular season, un quasi inutile filotto di 82 partite che decidono poco o nulla, ma che viene mantenuto perché, a sua volta, mantiene la baracca. “Questa è la fase più importante della stagione – dice MJ riferendosi ai playoff – Vi assicuro che mi diverto. È una gioia per me trovarmi davanti alla telecamera e poter sfoggiare le mie capacità e la mia creatività come atleta, quando so che milioni di persone mi stanno guardando”. E dopo le burrasche passate durante l’annata, per lui tornare in campo nelle situazioni da dentro-o-fuori tipiche della postseason non può che essere una salutare boccata d’ossigeno puro. 

Nel primo turno dei playoff, i Bulls affrontano i Miami Heat, la squadra d’espansione nata nel 1989 che, giunta appena al suo terzo campionato, fa la sua prima apparizione nella postseason. Il Michael che a bordo della sua Ferrari nera targata ÇM AIR JÈ si presenta allo Stadium per Gara-1, sembra molto rilassato e forse ne ha ben donde, visti gli esiti. Chicago si aggiudica facilmente le prime due partite di quella serie al meglio delle cinque, poi si dirige alla volta della Florida per disputare Gara-3. 

“La prima partita di playoff di Miami nella storia fu una serata col sottofondo di clic-clac – ricorda Tom Dore, commentatore ufficiale dei Bulls – Tutto quello che dicevano i tifosi, ogni volta che Michael toccava palla o eseguiva un tiro libero, era: “Fatelo impazzire con i clackers, fate più chiasso che potete”. Beh, funzionò nel primo quarto. 

Gli Heat accumularono un bel vantaggio e, infatti, ci stavamo chiedendo se i Bulls sarebbero riusciti a rimontarlo. Poi Michael si accostò al tavolo dei media, guardò Johnny Kerr e me dicendoci: “Ecco che arriviamo”. Fu tutto ciò che disse. Ragazzi, non l’avesse mai fatto. Fece cose da pazzi, segnò 56 punti e i Bulls spazzarono la serie”. 

Jordan sembra quasi scherzare con gli Heat, come se Miami non possa nemmeno essere considerata una degna avversaria. “Sapevamo che avremmo vinto – dichiarerà poi Michael – restava solo da vedere come, quindi ci siamo presi gioco di loro. Siamo stati più chiacchieroni, più giocherelloni, più divertenti con loro che con qualsiasi altra squadra, ma, quando, per andare avanti, è arrivato il momento di eliminarli, lo abbiamo fatto”. 

E anche in scioltezza, visto che ancora oggi fa un certo effetto vedere Steve Smith, la guardia degli Heat incaricata di marcare Jordan, concentratissimo a difendere sull’Alieno, mentre questi, per nulla preoccupato, gli fa il solletico sul palmo della mano protesa nel tentativo di impedire a Michael l’arrivo della palla. Smith dà l’anima, l’altro sembra un adulto che gioca con un bambino”. 


Michael + Michael = Jam 

Mangiato in un sol boccone (3-0) l’antipasto Miami, i Bulls giungono alle Semifinali di Conference, dove incontrano gli acerrimi nemici (nel caso specifico, rivali suonerebbe inutilmente soft e fuori luogo) Knicks, ma prima, o meglio, durante, ci sarebbe stato un tanto divertente quanto insolito imprevisto.  

Uno degli unici due Michael al mondo cui non serve il cognome per essere identificato chiede all’altro una collaborazione per il proprio progetto professionale. Il primo Michael in questione è Jackson e canta e balla; il secondo è Jordan e gioca a basket. Per farla breve, ÒJackoÓ chiede al Michael che ci interessa più da vicino di dargli una mano per un video, quello in cui ÒAirÓ avrebbe dovuto regalare ai milioni di fan della rockstar un prezioso cammeo. Jackson+Jordan (o meglio, i rispettivi entourage) insieme: cosa sarebbe potuto mai accadere mettendo l’uno accanto all’altro due talenti così straordinari? Risposta facile: Jam! 

"Ero nervosissimoÈ racconta Jordan di quell’incontro che ha porterà Air a ballare nello splendido video dell’omonimo altro Fenomeno, Jackson. "È raro che io diventi nervoso, a prescindere dalle circostanze. Sapevo di trovarmi davanti ad una persona completamente estranea al mio ambiente, erano state scritte tante cose sul suo conto e volevo scoprire di persona com’era. Era venuto per parlarmi del suo prossimo video-clip Jam , gli ho spiegato che era un momento difficile a causa dei playoff, allora lui si è detto disposto ad adattarsi ai miei orari. Lo avevo sempre ammirato fin da quando era bambino [con i Jacksons Five, nda]. Quando si trova davanti alla cinepresa e la sua musica incomincia, è come quando io sto davanti alla telecamera mentre gioco a basket. Tutto il resto è irrilevante". Così come è irrilevante riportare l’inevitabile successone di vendite dell’album lanciato da quel video-clip. 

Duri a morire 

Adempiuti gli obblighi con un Jackson (Michael), Jordan può tornare all’altro (Phil) e a concentrarsi sulla prossima vittima, New York. Ma i Knicks si fa sempre fatica a vederli nel ruolo della vittima sacrificale e da quando sono allenati da Pat Riley, l’esercizio appare semplicemente impossibile. 

Adottando uno stile di gioco molto fisico, straordinariamente simile a quello dei Pistons - con l’opportuna precisazione che New York ha in Patrick Ewing un centro dominante in entrambe le estremità del campo: realizzatore incontenibile da sotto e dalla media in attacco, stoppatore inarrestabile in difesa - Riley dimostra tutta la sua duttilità di grandissimo coach e i Knicks tornano a sognare quel titolo che inseguono dal 1973. 

I newyorkesi, contando sull’effetto-sorpresa, usano subito i muscoli per aggiudicarsi Gara-1 allo Stadium spiazzando i favoritissimi Bulls. Jordan ammette che la sua squadra non si aspettava di dover affrontare dei simili leoni: "Avevamo vinto una serie molto convincente contro Miami e pensavamo di poter stracciare New York. Avevamo previsto di giocare in un certo modo ma loro avevano uno stile completamente diverso. Erano violenti, rabbiosi, aggressivi. Ci hanno sorpresi nella prima partita, a casa nostra, e questo è stato molto imbarazzante". In conferenza stampa, subito dopo l’incontro, Jordan non nasconde le sue preoccupazioni. "Questa squadra fa sul serio. Se qualcuno l’avesse sottovalutata, be’, è una squadra che può darci filo da torcere". 

Nel quarto periodo di Gara-2 sono i tiri ÒpesantiÓ di B.J. Armstrong che danno una bella mano ai suoi nell’impattare la serie sull’1-1. 

In Gara-3, a New York, i Bulls riescono a riguadagnarsi il vantaggio-campo, perchŽ Jordan riesce finalmente a liberarsi dell’appiccicosa difesa bluarancio per andare a depositare le sue prime schiacciate della serie. 

I Knicks, trascinati da un grande Xavier McDaniel, reagiscono pareggiando ancora la serie con la vittoria di Gara-4. Negli spogliatoi, per le interviste dell’immediato dopopartita, McDaniel, l’icona della virilità della gente dei ghetti newyorkesi, si presenta a torso nudo davanti a microfoni e telecamere proclamando: ÇAnche se i Bulls sono i campioni del mondo, noi non gli abbiamo permesso di fare tutto quello che volevanoÈ e sollecitato sulle, diciamo così, robuste dosi di cattiveria agonistica profuse da lui stesso e dai suoi compagni, ÒMr. XÓ risponde secco: Çé così che si gioca, questo è uno sport maschioÈ. Anche se gli dà un enorme fastidio, MJ, nella successiva conferenza stampa, non può che ammettere che "[i Knicks] hanno cercato la lite, come cani contro gatti, e noi siamo crollati". A giochi fatti, MJ ricorda così le sofferenze patite in quella durissima semifinale: "Ci sembrava di avere in mano il controllo della serie, ma loro venivano continuamente a riprenderselo". Air sembra preoccupato perché, così scientificamente imbrigliato (per non dire malmenato), ha paura di non riuscire a volare. 

Nella in ogni caso decisiva Gara-5, Jordan assume il comando andando a canestro con regolarità impressionante. Più i Knicks continuano a fargli fallo, più lui continua a infilare liberi su liberi, uno dopo l’altro. Alla fine, in totale saranno 15 i punti messi a segno dalla linea, che andranno a sommarsi a quelli realizzati dal campo, totalizzando uno score complessivo di 37, mentre i Bulls vincono 96-88. E conducono 3-2. "Michael è Michael - dichiara dopo l’incontro Riley - Il suo gioco è di portare palla a canestro e sfidare la difesa. Quando giochi contro uno così, capisci quanta voglia abbia di vincere da quanto duramente è capace di portare palla a canestro". 

I Knicks riescono a impattare nuovamente la serie con una vittoria casalinga (100-86) in Gara-6, con un Michael vistosamente impreciso: 9/25 dal campo, con un emblematico ventello abbondante (22 per la precisione) di azzardati tiri da fuori. Gerald Wilkins, fratello del più celebre "The Human Highlight Film" Dominique, difende benissimo su di lui impedendogli in tutti i modi di andare in entrata e costringerndolo quindi a tirare solo dalla distanza. Wilkins II, però, macchia la sua straordinaria prestazione commettendo un grandissimo errore fuori dal campo: durante le interviste, si lascia andare all’imperdonabile imprudenza di provocare MJ sbandierando ai quattro fortissimi venti della stampa il fatto che New York si sta dimostrando capace di far apparire anche Jordan uno che poteva sbagliare. Grosso sbaglio, Gerald. 

Prima della serie, in molti avevano pronosticato addirittura un 4-0 in favore di Chicago; la maggior parte degli osservatori riteneva tutt’al più che si sarebbe arrivati alla quinta partita, ma nessuno poteva prevederne sette. Se New York avesse vinto quel settimo incontro, probabilmente si sarebbe assistito ad uno dei più grossi upset della storia NBA. Ma con un Mike ispirato da suo padre James (e dalla provocazione di Wilkins), non ci sarebbero state sorpresissime. ÇQuella di New York - ricorda Mike - è stata una di quelle serie che richiedono buoni consigli paterni, allora ho chiesto a mio padre che cosa dovevo fare, come dovevo attaccare, se dovevo appoggiarmi ai compagni o se dovevo assumere il ruolo di leader e fare in modo che fossero loro a seguire me. E come avrebbe fatto la maggior parte dei padri, lui mi ha risposto: "Prendi il comando. Se non ti seguono, pazienza". 

I Bulls appaiono caricatissimi per quella Gara-7 del 17 maggio allo Stadium, e sono ormai lanciati verso la vittoria, che arriva, puntuale, per 110-81, con uno strepitoso Michael capace di scrivere "41" a referto. 

La partita vede più di qualche momento di tensione, soprattutto per via delle scintille tra lo stesso Jordan e McDaniel, altro provocatore nato. "Mr. X", questo il soprannome del bullo dei Knicks, a un certo punto si vede fischiare un fallo tecnico per essersela presa un po’ troppo rudemente con Pippen minacciandolo di rompergli ilÉ avete capito, e Michael, paladino dei Bulls oppressi, si sente in dovere di intervenire. Il testa a testa fra i due galli da combattimento è l’icona dell’intera serie. "Dovevo affrontare il bullo, a muso duro, per ridare fiducia e sicurezza alla squadra", torna in seguito sull’episodio Michael; che aggiunge: "Questo fa semplicemente parte del ruolo che ricopro all’interno della squadra, la capacità di essere un leader. Quel giorno i consigli di mio padre avevano funzionato ancora". 

Quando, nel terzo quarto, McDaniel, lanciato in contropiede da una palla persa dallo stesso Mike, salendo per andare a segnare in sottomano, si prende una bella ripassata da Jordan, che intenzionalmente lo fa cadere rovinosamente a terra, si capisce che per i Knicks non c’è più niente da fare: se i Bulls, con Jordan in testa, anziché cadere nella rete delle provocazioni, non solo non si scompongono continuando a segnare, ma addirittura li ripagano con la stessa moneta, allora per N.Y. è notte fonda, e difatti per Ewing e compagni non ci sarebbe stato scampo. "Ero pronto a venire alle mani,È ammette in seguito Jordan parlando di quello scontro con Mc Daniel. Non servirà, basteranno i suoi 42 punti. "Siamo tornati a giocare il basket dei Bulls" chiosa Armstrong. 

Chicago continua a soffrire nel turno successivo, le Finali della Eastern Conference, contro i Cavaliers, che tengono viva la serie fino al 2-2. I Bulls però riescono ancora una volta a tirare fuori quel qualcosa in più che il 29 maggio permette loro di espugnare Cleveland, grazie al furibondo finale di Gara-6 di Michael: dopo aver infilato appena cinque dei suoi 20 tiri, Jordan si sveglia improvvisamente segnando ben 16 punti nel quarto periodo assicurando ai suoi partita (99-94) e serie (4-2). I Bulls sono in Finale per il secondo anno consecutivo, ma quanta fatica. 


Mai dire Clyde 

Le Finali contro Portland vedono un Jordan stellare ma i Trail Blazers, guidati da Clyde Drexler, il nuovo acquisto Danny Ainge (quello che Michael avrebbe preferito a Hopson), Cliff Robinson, Terry Porter e Buck Williams (ala forte, grande rimbalzista che Jordan la stagione precedente aveva inutilmente cercato di portare ai Bulls), sono capaci di rispondergli con alcune di quelle straordinarie prestazioni che hanno sciorinato per tutto il corso della stagione. 

Un passo indietro. Michael viene eletto MVP del campionato, ma, come sovente accade per l’assegnazione (spesso politica) dei trofei individuali, per qualcuno il candidato più credibile quell'anno era "The Glyde" Drexler. 

Il buon Clyde, persona che tutto l’ambiente NBA ha sempre descritto estremamente a modo e dotata di intelligenza (non solo cestistica) superiore alla media, non si è certo autopromosso, è il campo che lo ha fatto per lui: già da un paio di stagioni Portland viaggia ad alta quota sulle sue splendide planate a canestro e con quest’ultima annata, pressoché perfetta, Il Veleggiante ha finalmente la possibilità di concorrere per il tanto sospirato Anello di Campione NBA, dunque, almeno in teoria, ci sono tutti gli argomenti perché la sua eventuale scelta come MVP sia da considerarsi lecita. 

Jordan, della sfida - solo tecnica: i due si stimano - ne fa una questione personale, e un supplemento di stimoli. "Le Finali del 1992 contro Portland – scrive nella sua autobiografia For the Love of the Game: My Story – si pensava dovessero determinare la differenza fra Drexler e me. Fino a quel punto Clyde era stato visto come una mia controfigura, non necessariamente migliore. O perlomeno così sono certo gli era stata presentata. Io però interpretai la questione alla stessa maniera. Volevo che la gente sapesse che c’era una netta differenza, proprio come c’era stata quando avevo giocato contro Magic, Charles [Barkley] e gli altri giocatori di gran nome. Avevo impiegato la prima vittoria in campionato per guadagnare credibilità. Magic era il migliore all’epoca e io dovevo batterlo per conquistare il mio posto. Quando dovevamo giocare con Portland ero io al top perché noi eravamo i campioni in carica e Clyde voleva usarmi nello stesso modo in cui io avevo usato Magic. Più avanti nella mia carriera, i giocatori avrebbero voluto superare i Chicago Bulls perché la cosa avrebbe legittimato il titolo. Io ero convinto che ci fosse differenza, un’effettiva differenza. Una cosa simile a quanto accaduto all’All-Star Game del 1998 quando Kobe Bryant aveva provato a misurarsi con me. Non è una cosa che si annuncia pubblicamente, ma è una sfida che ribolle appena sotto la superficie. Volevo demolire Clyde utilizzando tutte le sfaccettature del mio gioco come per dirgli: “Non pensarci neanche”. Inoltre, avevo studiato Clyde. Sapevo che se avesse segnato i suoi primi tre tiri non ci sarebbe più stato un tiro che non si sarebbe preso. Egoisticamente, sarebbe stato più pericoloso se li avesse sbagliati perché avrebbe concentrato i propri sforzi su altri aspetti del gioco. Avrebbe cercato di andare a canestro e attirare falli in virtù del grandissimo primo passo che aveva. Sono abbastanza sicuro che avrebbe cercato di pressarmi sulla mia sinistra perché è quella la mia mano più debole. Portland ha giocato duro contro di noi ma il riuscire a ripetersi non riguarda mai difficoltà di livello fisico. Vincere due o tre titoli in fila è sempre stato un fatto più mentale che fisico. La sola eccezione all’assunto è stata il 1998, che è stata un’annata fisicamente logorante con tutti quegli infortuni e la mancanza di comprensione, da parte di certi giocatori, di cosa ci volesse per vincerne tre consecutivi”. 

“Era un mio pensiero fisso, era la mia motivazione”, dice MJ anche nello stesso video Air Time, uscito dopo la stagione del secondo anello. “Non lo dico per far arrabbiare Clyde nel caso vedesse questa videocassetta. Una volta iniziata la partita, dal primo contrasto nacque un duello tra noi. Decidete voi da che parte stare”. La scelta è facile, stiamo dalla parte dello spettacolo, che, con quei due a misurarsi, non può mancare. 

In Gara-1, il 3 giugno, quella specie di E.T. dei canestri che si chiama Jordan segna (record per le Finali) 35 punti nel solo primo tempo, e, nell’impresa, tanto per tenersi allenato, è capace di infilare un altro primato relativo alle serie finali: 6 tiri da tre segnati in appena metà partita. Il povero Drexler ha la sciagurata idea di lasciargli un filo in più di spazio per non farsi bruciare da quei movimenti già di per sé imprevedibili e addirittura letali se eseguiti alla velocità alla quale Michael era solito farli. E quella pazza idea la pagano, carissima, tutti i Blazers carissima. Portland si ritrova così ad essere già seppellita ancor prima di incominciare e lo scarto finale, pur macroscopico (33), non serve a descrivere la sensazione d’impotenza espressa dalla squadra dell’Oregon, sconfitta per 122-89. “Avevo una carica e un ritmo tali – ricorda MJ – che non saprei esattamente spiegare. Segnavo tiri da tre come tiri liberi. Il canestro sembrava solo un grosso secchio: non potevo mancarlo”. 

Dopa la sesta tripla infilata, Mike rientra in difesa a braccia aperte, quasi a scusarsi per eccesso di bravura, sorride, fa spallucce, ma non con senso di supponenza o di arroganza, è solo un modo per significare che non ci crede neanche lui. "Ho guardato Magic – presente a bordo campo nelle vesti di analyst televisivo per la NBA – e gli altri “É Ragazzi, che cosa vi posso dire? È solo un caso”. 

Sarà, ma quando una carriera è costellata di “casi”, come li chiama lui, un dubbio che sia bravino ci viene. E poi, il Nostro, sempre furbetto sin dai tempi della scuola, dimentica di riportare che, nella vigilia della serie, si era dedicato a lunghe ore di allenamento supplementare proprio sulla lunga distanza. 

“Ero in una zone” commenta Jordan nel dopogara, riferendosi a quella particolare, immaginaria e intraducibile zona, più della mente e delle congiunzioni astrali che del campo, nella quale ai giocatori di basket va dentro di tutto, anche se tirano da casa loro e a occhi chiusi. “Sentivo di poter segnare triple come tiri liberi, non capivo cosa stessi facendo, ma entravano”. Contro uno così non c’è niente da fare, se non usare il metodo-Robinson: “Il solo modo in cui puoi fermare Michael” dichiara l’ala piccola di Portland “è di trascinarlo fuori del campo”. 

In Gara-2, nonostante il tecnico fischiato a Jordan per proteste (seguite ad una chiamata arbitrale che secondo lui gli aveva rilevato un fallo non commesso), sanzione che, in quel frangente della partita, potrebbe incidere pesantemente sul risultato finale, le speranze dei Blazers di impattare la serie sembrano ridursi al lumicino quando Drexler esce per falli a 4’ dal termine. 

L’esile fiammella di quelle residue speranze si rianima invece grazie ad un parziale di 15-5, che permette ai rossoneri di pareggiare l’incontro, poi vinto (115-104) in qualche modo da Portland, che si fa forza dei nove punti di Danny Ainge nel supplementare. “L’inerzia è volubile” medita a voce alta Ainge subito dopo il match. “Avevamo in mano una vittoria regalata e l’abbiamo gettata via”, commenta Horace Grant. 

I Blazers sono riusciti a spartirsi con i Tori le prime due gare disputate in casa di Chicago, che detiene il vantaggio campo in virtù del suo miglior record (il primo di tutta la Lega) e ora, con la serie sull’1-1, e si va a Portland per tre incontri consecutivi. C’è di che preoccuparsi in casa Bulls, ma la difesa di Chicago e un solido sforzo di squadra – Pippen e Grant segnano 18 punti a testa, Jordan ne fa 26 di Jordan – pongono fine ai timori di un seppur improbabile ribaltone centrando la vittoria (94-84) di Gara-3. 

Jackson avrebbe poi svelato un piccolo retroscena: i Blazers, dopo la seconda partita della serie, giocata il venerdì sera precedente, si erano precipitati a prendere un volo a tarda ora per tornare a casa quella notte stessa. Quel volo che sarebbe costato loro importanti ore di sonno, mentre i Bulls avevano aspettato il sabato per raggiungere l’Oregon. Che sia stata quella la causa prima della sconfitta di Drexler & compagni, non ci sentiremmo di sottoscriverlo, che possa aver influito invece sì. “Loro controllavano il ritmo, noi abbiamo tirato male e non siamo mai riusciti a entrare in partita”, è la resa di coach Rick Adelman. 

Pur avendo riguadagnato il loro meritato riposo, i Blazers faticano lo stesso per restare aggrappati ai Bulls per gran parte di Gara-4, per poi passare davanti, a poco più di tre minuti dalla fine. Sulla scia di quel sorpasso inaspettato, con un ultimo slancio Portland si ritrova a vincere una partita che credeva d’aver già perso: 93-88 per i Blazers e serie sul 2-2. 

Gara-5, però, è un’altra vetrina per la pregiata ditta Jordan. Andando a segno a ripetizione, per tutto l’incontro Michael induce sistematicamente al fallo gli spaesati difensori avversari e poi li colpisce puntualmente dalla lunetta (16/19 ai liberi). MJ finisce con 46 punti, più che sufficienti per dare ai Bulls la vittoria (119-106) e il vantaggio di 3-2. Ancora una volta, i Blazers, pur riuscendo a restare fino all’ultimo in partita, vengono messi spalle al muro dalle incontenibili esplosioni realizzative di Air degli ultimi minuti. Anche dalle parti di Rose City, com’è soprannominata Portland per l’annuale festival floreale, imparano a conoscere da vicino quel polso quasi slegato e quel ghigno satanico di sfida. 

Per Gara-6 si fa ritorno allo Stadium e in quel 14 giugno i Bulls hanno troppa voglia di vincere la loro quarta partita e, con essa, il loro secondo titolo, per rimandare la festa. In realtà sarebbe stata una passeggiata, ma come avrebbero potuto immaginarlo? 

Nessuno lo avrebbe mai detto fino a terzo quarto inoltrato, quando i Bulls precipitano in un baratro profondo 17 punti. Michael ci mette del suo sbagliando due comodi layup e beccandosi anche uno stoppone proprio da Drexler. Ma, come accaduto in Gara-3 del primo turno con Miami, la famosa serata delle nacchere, la tempesta è in arrivo. La differenza è che stavolta lo fa senza il preavviso di Michael. Jackson chiama in panca tutti i titolari tranne Pippen, compreso Jordan, e, con in campo Bobby Hansen, B.J. Armstrong, Stacey King e Scott Williams, a firmare il resto del quintetto riesce a raddrizzare la baracca. Hansen, l’acquisto novembrino di Krause, ruba palla e infila il tiro che dà il via alla rimonta. Sotto di 15 all’inizio dell’ultima frazione di gioco, i Bulls incominciano via via a recuperare con Jordan in panchina, nelle insolite vesti di tifoso particolare. 

Il Michael supporter sembra una sorta di M.L. Carr vestito con i colori dei Bulls, pronto ad esultare sventolando l’asciugamano ad ogni gran giocata dei compagni, quegli stessi giocatori che nel libro di Smith erano stati dipinti come inermi vittime assoggettate alle tirannie di un Jordan inguaribilmente malato di cronico eccesso di competitività, e che ora tocca proprio a lui incitare. E che addirittura gli stanno salvando la sesta partita della Finale, anche se qualche irriducibile fanatico rivendicherà naturalmente la nuova consapevolezza tecnica acquisita della panca di Chicago come merito delle sollecitazioni impostegli da Air. 

Michael e i suoi sono alla 104-esima partita di una stagione (in tutti i sensi) lunghissima e massacrante, ma non possono buttare via tutto proprio adesso. ÇIn effetti, mi sentivo un po’ stanco – ammetterà Jordan, che aveva forzato qualche tiro di troppo e aveva perso qualche palla non da lui – così Phil mi ha fatto uscire dicendomi: “Vediamo un po’ come se la cavano gli altri”. Ero lì a bordo campo a osservarli, quando gioco sono come loro”. “Volevo soltanto una seconda possibilità perché fino a quel punto avevo giocato da cane, poi mi sono detto: “Okay, sono pronto. Questo potrebbe essere il momento buono, rimandami in campo”. A circa 8’ dal termine, con i Bulls ancora sotto di tre (78-81), Jackson rimanda dentro Jordan e Chicago decolla. A 5’:21" dalla sirena e col punteggio bloccato sull’85-pari, Jordan esplode, chiudendo il quarto periodo con 14 punti (12, compresi gli ultimi sei dell’incontro, da quando si è alzato dalla panca) che danno ai suoi la vittoria (97-93) e il secondo titolo NBA consecutivo. Michael – che termina Gara-6 con 33 punti e la serie a 35.8 di media – è l’inevitabile MVP delle Finali. 

A proposito di MVP, volete sapere com’è finita la storia del paragone Jordan-Drexler? Eccola riassunta in cifre: nelle sei partite della serie, Michael gioca 254’ contro i 238’ di Clyde (42.3 e 39.7 le rispettive medie), il primo segna 215 punti (35.8 ppg) con 81/154 (52.6%) dal campo, 41/46 (89.1%) dalla linea, e accumula complessivamente 29 rimbalzi, 39 assist, 10 recuperi e 2 stoppate stabilendo un high di 46 punti proprio in Gara-7; il secondo, rivelatosi degnissimo avversario, segna 149 (24.8 ppg) con 48/118 (40.7%) dal campo e 50/56 (89.3%) dalla lunetta, con un totale di 47 rimbalzi, 32 assist, 8 palle rubate e 6 stoppate, e con un high di 32 nella serie. È evidente (per motivi di ruolo e di tasso tecnico) che la sfida non possa sussistere neanche sulla carta, figuriamoci sul campo; intanto perché l’artista del volo planato (Clyde, non Michael) è molto più ala dell’artista del volo Jordan, ma è tutto un altro giocatore. Ma se è questo cui Michael mirava, se è stato lui a volere questa sfida, per far vedere non solo a Clyde (che nulla c’entra) ma al mondo intero che è lui il più grande, Il Migliore, allora Okay, ci stiamo. Tanto il vantaggio è tutto per chi guarda”. 

Jordan è riuscito perfino là dove aveva fallito Bird: ripetersi Campione NBA per due anni in fila. Ora che ha eguagliato Magic, campione back-to-back nel biennio 1987-88, il primo gradino dell’olimpo cestistico appare meno lontano. Anzi, Michael ci ha già messo un piede sopra. 

“È stata una finale fatta su misura”, è il suo giusto commento su quell’atto conclusivo della stagione perché, al di là delle difficoltà incontrate nel terzo quarto di Gara-6 e pur concedendo a Portland due partite, Chicago è parsa sin dall’inizio troppo forte per quei Blazers, che pure si sono momentaneamente portati sul 2-2. Paradossalmente, ma fino a un certo punto, i Bulls avevano faticato più nella Semifinale di Conference, contro i durissimi Knicks, che nella Finale vera e propria. Ma lì c’erano Ewing, un manipolo di guerrieri, e Riley in panchina; in finale, invece, non poteva certo essere Duckworth, il centrone dallo 00 sulla maglia, a fermare le devastanti penetrazioni della premiata ditta Jordan & Pippen. 

“John Paxson si è voltato verso di me nello spogliatoio per dirmi: ‘Che strano lungo viaggio è stato’, e certo non stava citando i Grateful Dead. È stato uno strano lungo viaggio. L’anno scorso è stata una luna di miele, quest’anno è stata un’odissea”, dichiara Jackson; che aggiunge: “Abbiamo avuto un’annata davvero impossibile. Avevamo vinto 67 gare, e fondamentalmente mi sentivo come se dovessi tirare indietro le redini, o far s“ che i ragazzi dovessero provare a vincerne 70 o 75. I playoff, invece, sono stati una storia completamente diversa dalla regular season. Avevamo degli infortunati e dovevamo affrontare New York. E le squadre che venivano ad affrontarci lo facevano piene di forza e vigore. Abbiamo perso sette incontri lungo la nostra rincorsa al titolo: non è stata tanto facile, la seconda volta. C’era stata un’esplicita sfida alla nostra dimensione di squadra”. Una squadra rimasta pressoché invariata visto che, dei dodici giocatori del roster capace l’anno precedente di vincere il tanto sospirato primo titolo, ben undici (l’eccezione è lo scambio Hopson-Hansell) sono tornati l’anno dopo per cercare, riuscendoci, di fare il bis. 

Chicago, dopo il successo dell’anno prima, conseguito in trasferta al Forum di Los Angeles, questa volta può festeggiare il titolo direttamente nel suo amato Stadium e la città intera esplode per la gioia. “La finale contro Portland fu una serata drammatica per noi e per tutti i tifosi di Chicago”, è il commosso ricordo di quella serata che rimane indelebile nella mente di Phil Jackson. “Rientrammo dal -17 di fine terzo quarto per poi vincere il campionato. Ciò che ne seguì fu una festa incredibile”. “Avevamo vinto per due anni di seguito, quest’anno era successo a Chicago e volevamo festeggiare con Chicago”, sono invece le parole di Michael doppiamente felice perché, oltre alla normale contentezza per la vittoria, per lui c’è anche lo straordinario senso di liberazione per aver superato le brutte vicende che gli sono capitate (pardon, che si è andato a cercare) durante l’anno ma che fortunatamente non sono andate a discapito dei risultati. “Qualunque cosa la gente avesse detto di me durante l’anno, qualsiasi cosa negativa mi fosse capitata, nulla di tutto ciò aveva influenzato la squadra. Eravamo concentrati per avanzare verso il traguardo finale, vincere il campionato”. 

Questi Bulls sembrano impermeabili a tutto, anche all’avversario più forte: loro stessi. “Questa stagione è stata incredibile per me e per noi intesi come squadra”, dichiara all’epoca Jordan. “Abbiamo superato tantissime difficoltà. Non sarà stato tutto rose [sapete, a Portland...] e fiori, ma oggi possiamo dire di essere rimasti in piedi. Vincere l’anno scorso è stato più per la città e per la società e per i tifosi. Quest’anno, è stato un po’ più egoistico. Questo [titolo] è per i miei compagni e per me”. 

“La squadra era scesa negli spogliatoi per ricevere il Larry O’Brien Trophy dalle mani di David Stern e alla presenza di Bob Costas”, racconta il vicepresidente dei Bulls Steve Schanwald. “Jerry Reinsdorf, Jerry Krause, Phil Jackson, Michael, Scottie salirono su un palco improvvisato e ritirarono il trofeo. Ma all’epoca non avevamo la possibilità di trasmettere l’instant replay sul megaschermo dello Stadium, perciò i tifosi non avevano potuto condividere quel momento così speciale. In alto nello Stadium, si sentiva Gary Glitter dagli altoparlanti e il pubblico stava festeggiando la vittoria in campionato. Era stata una gran rimonta, quella del quarto periodo, iniziata proprio dalla nostra panchina, quindi il successo era venuto da uno sforzo collettivo di squadra – il “non da Michael Jordan e basta” sembra sottinteso – Scesi negli spogliatoi e chiesi a Jerry Reinsdorf se potevamo riuscire a riportare su la squadra. “Per me va bene, ma chiedilo a Phil”, mi rispose. Allora andai da lui e gli dissi: “Phil, i tifosi sono ancora lassù, non vanno via – nonostante la partita fosse finita ormai da una ventina di minuti, N.d.A. –, stanno ballando. Dobbiamo portare la squadra lassù e lasciare che si godano questo momento”. Phil ci pensò su per un momento mentre Bobby Hansen si trovava lì nei paraggi, in piedi. Phil chiese a Bobby che cosa ne pensava e lui, entusiasta, ribatté: “Dai, facciamolo”. Phil ha sempre saputo fischiare fortissimo e allora si mise due dita in bocca e fischiò alla sua maniera in mezzo a tutto quel fracasso, allo champagne e a tutto il resto. Fece zittire tutti, poi disse: “Prendete il trofeo, torniamo su per festeggiare coi nostri tifosi! Al che Michael agguantò il trofeo e ritornammo tutti di sopra. Quando incominciammo a uscire dal tunnel, iniziammo ad intonare l’attacco della nostra sigla introduttiva. È molto suggestiva, si tratta di Eye in the Sky degli Alan Parsons Project. Così il pubblico avrebbe subito intuito che se la musica partiva, qualcosa stava per succedere. La squadra venne fuori dal tunnel e all’improvviso la folla esplose. Fu come sentire un boato di 10mila anatre che starnazzano. Tutto a un tratto alcuni giocatori come Scottie e Horace e Hanson si alzarono in piedi sul tavolo così che tutti potessero vederli tra la folla. Poi arrivò anche Michael che li raggiunse col trofeo e incominciarono a ballare. Fu un’esperienza davvero elettrizzante e credo che per tutti i presenti quello sia stato un momento che si ricorderanno finché campano”.

Di sicuro non dimenticheranno l'ennesima immagine iconica di Jordan, che sul tavolo della stampa tiene sottobraccio il pallone mentre con la mano destra fa il segno della “v” di vittoria ma che indica anche il numero due: cioè i titoli vinti dai Bulls. Intorno, la bolgia. 

Per celebrare la conquista del secondo anello, la squadra opta per un’altra oceanica adunata a Grant Park, programmata pochi giorni dopo, per gioire ancora una volta con i propri tifosi, soprattutto quelli che non erano riusciti a procurarsi il prezioso tagliando per Gara-6. Per il secondo anno consecutivo, in 150 mila si ritrovano per acclamare i loro idoli e festeggiare assieme a loro. “Senza il vostro sostegno, ragazzi, non ce l’avremmo mai fatta la seconda volta”, grida Jordan ai tifosi in delirio. 

“Torneremo ancora” è l’impegnativa promessa di Bill Cartwright, giustamente orgoglioso dopo tanti bocconi amari che aveva dovuto ingoiare. “Andiamo verso il three-peat, la butta lì Pippen. E il ruggito di risposta della folla fa capire come nessuno, a Chicago, dubiti sulle possibilità di realizzazione del proposito. 

Michael però non è il primo a crederci. Anche se ancora nessuno lo sa, Jordan cova già in sé il dubbio del ritiro e quello che sarebbe accaduto nel giro di un anno o poco più non avrebbe fatto altro che accelerare un processo, quello dell’abbandono, che aveva già avviato la sua fase embrionale.

Prima di tutto questo, però, ci sarebbe stata un’estate abbastanza movimentata. Una calda estate spagnola. 

CHRISTIAN GIORDANO 
Michael Air Jordan

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