CAPITOLO 29 - The Greatest Team Ever? (1995-96)



"Qualcun altro ha mai vinto 72 partite?"
– Michael Jordan

"Non ho mai visto Michael divertirsi tanto col basket come in questa stagione. Era felice, più accomodante con i suoi compagni di quanto sia mai stato ogni altro momento che gli sono stato accanto. Era una gioia stargli vicino e lo stesso sembrava che provasse anche lui."
– Phil Jackson, dopo le Finali del 1996 contro Seattle

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books

Jordan, quello vero”, il Competitore per antonomasia, non poteva certo essere soddisfatto delle prestazioni di quella specie di sua controfigura che era tornata a calcare il parquet nel marzo 1995. Una volta ripreso a giocare, Michael aveva avvertito netta la sensazione di non sentirsi più ai vertici del gioco, come quando era nel pieno controllo degli avversari e dell’inerzia della gara. E questa consapevolezza di non essere più due ma forse solo una spanna sopra gli altri, gli derivava principalmente dalla stanchezza: anche MJ, privo della necessaria freschezza atletica, faceva fatica. Quello che per lui era una sorta di stato naturale delle cose, vale a dire dominare, non era più così naturale. “Avevo il dubbio che forse non giocavo più come una volta perché non potevo farlo a comando. Quando mi sono ritrovato negli spogliatoi, deluso, ho promesso una cosa a me stesso: L’anno prossimo sar pronto per giocare. Iniziai ad allenarmi con un mese d’anticipo e volevo tornare a divertirmi, a giocare come dicevo io. Ho pensato che dovevo provarci, e rimettermi a lavorare seriamenteÈ. 

Nell’estate che precede la stagione 1996-97, Michael sa di non poter fare a meno di lavorare più duramente che mai, anche perchŽ, pur sentendosi fisicamente come un rookie, ormai gli anni sono già 33 e i diciotto mesi fermo, anche a Superman, che pure è fatto d’acciaio e non si arrugginisce, qualche problemuccio possono portarlo. Lavorare, lavorare e ancora lavorare, era allora l’unica ricetta per guarire il malato. E l’unica medicina che tale ricetta poteva prevedere era allenarsi. Allenamenti più duri che mai. Ma c’era anche un altro impegno da onorare. 

“Eravamo stati eliminati dai playoff del 1995 da Orlando e io ero consapevole di avere parecchio da lavorare, allora ho detto a David Falk che non avrei fatto per nessun motivo il film Space Jam a meno che non fossi stato in grado, allo stesso tempo, di potermi allenare e giocare sul set della Warner Bros.È, queste le parole di MJ alla fine di quella stagione per lui così devastante, come lo stesso Grande Fratello Phil Jackson era arrivato a dire: per Michael, quella serie con i Magic, era stata il punto più basso della sua parabola agonistica. 

È pur vero che, se davanti alla telecamera Michael aveva inizialmente avuto qualche problemino – nei primi spot, agiva, e come solo lui sapeva fare, da giocatore, ma stava zitto, non recitava, o, meglio, non lo facevano recitare – ora, di fronte ad un altro strumento, la macchina da presa, il Nostro aveva preso una certa confidenza, e, forse, in questo lo avevano aiutato gli anni di permanenza sotto i riflettori, le sue (all’epoca ancora tre) VHS , con le quali tuttora spopola nelle classifiche degli home video più venduti, e quel cammeo offerto a Michael Jackson nel video-clip musicale Jam. 

Ora, per, a Jam si sarebbe aggiunto l’aggettivo space, spaziale, e la sua popolarità, da semplicemente interplanetaria qual era, sarebbe diventata intergalattica: non si poteva rinunciare a cuor leggero al più imponente kolossal dei cartoons prodotto dalla Warner Brothers, ma, altrettanto sicuramente, non si poteva certo rinunciare a cuor leggero a continuare ad essere il dominatore assoluto del basket. Michael, allora, si doveva decidere. E, come sempre, avrebbe fatto a modo suo: avrebbe portato avanti tutte e due le cose. Primo, il basket. Secondo, il business. 

Nella sua autobiografia For The Love Of The Game: My Story, Jordan scrive: “Non avrei mai potuto starmene là otto settimane dopo essere stato eliminato dai playoff ed essere stato criticato per essere tornato a giocare . Ho detto [a Falk]: David, io ho bisogno di lavorare. Devo allenarmi, ho bisogno di giocare. E lui mi ha risposto: Che ne diresti se creassimo sul set una struttura a parte su misura per te che ti permetta di allenarti e, allo stesso tempo, di girare il film?. E io: Prima fammela vedere. Allora si sono messi a costruire una modernissima palestra che copriva un’intera area di parcheggio. Aveva l’aria condizionata, l’impianto stereo, tavoli per giocare a carte [?], posti a sedere, illuminazione, ogni tipo possibile e immaginabile di macchine per la pesistica, tutto quello che mi serviva. Avrei fatto un salto in palestra a pranzo per alzare un po’ di pesi e poi ci sarei ritornato dalle 19:00 circa alle 21:30 per giocare tutte le sere. Non è mai entrata neanche una telecamera in quel posto. Reggie Miller e Chris Mills erano là ogni sera. Charles Oakley si presentava e giocava, Magic è venuto l’ultimo giorno, Tim Hardaway, Dennis Rodman, tutti i giocatori della UCLA, Tracy Murray era sempre l“, Lamond Murray, Reggie Theus, Juwan Howard, Larry Johnson, Rod Strickland, Grant Hill, chiunque passasse in città. Le partite erano di alto livello. Oakley si appropriava del mezzo e giocava proprio come faceva durante la stagione. Reggie [Miller] e Eddie Jones ci andavano giù fortissimo. Io sapevo perchŽ tutti quei ragazzi si facevano vedere: loro volevano imparare e cercare di capire qual era il mio modo di giocare. Avevo capito qual era il loro scopo. Ma quello che non sapevano è che io facevo lo stesso con loro. Ho sempre avuto la sensazione di poter imparare più in fretta degli altri, e loro mi erano d’aiuto proprio come io ero d’aiuto a loro. Sentivo che molto presto tutto sarebbe tornato come primaÈ. Non solo come prima, perfino meglio: e tutto per un mini palazzo dello sport, con tanto di insegna sopra, che la Warner gli aveva costruito su misura, a Burbank, vicino Los Angeles. Un piccolo palazzo dello sport! Michael Jordan è come un comune, una cittadina, era giusto che, dopo una statua, avesse anche un proprio impianto, e finalmente adesso c’era: il Jordan Dome. 

A preoccuparsi meno di tutti sembrava proprio la società, che, ben conoscendo la ormai leggendaria etica lavorativa di Jordan, sapeva con certezza che non sarebbe stato certo un lungometraggio a intralciare la marcia di riavvicinamento del re alla collina del titolo NBA. Gli allenatori dei Bulls non dovevano far altro che sorridere, sedersi ad ammirare Jordan che schiaccia contro i MonStars (gioco di parole fra monsters, mostri, e stars, le stelle) al fianco di un particolarissimo compagno di squadra come Bugs Bunny, il coniglio più furbo del mondo. “Non dobbiamo stare a preoccuparci di Michael, noi riteniamo che sappia badare a se stesso”, è il commento di Tex Winter sui mille impegni della star (ora anche cinematografica). E l’altro assistente Jim Cleamons che segue a ruota: “Michael è un competitore infernale. Lui non vuole che la gente pensi che le sue doti si siano offuscate. L’uomo Jordan è una formidabile massa di orgoglio. Siamo certi che si ripresenterà al massimo della forma possibile e che si concentrerà sull’idea di vincere un altro campionato”. 

Al di là delle questioni del numero – il 45 era solo bravissimo e il 23 era Superman, tanto per parafrasare le dichiarazioni rilasciate dalla guardia dei Magic, Nick Anderson, dopo che avevano eliminato i Bulls -, il vero Michael Jordan non poteva essere quello che sbagliava quando si decidevano le gare e che perdeva quel pallone, su recupero dello stesso Anderson, e se lo faceva portare via da Anfernee “Penny” Hardaway, per quanto questi possa essere, a tutti gli effetti, davvero uno dei maggiori candidati al titolo di suo erede. Il vero Jordan li avrebbe uccisi tutti quanti, e lo avrebbe fatto quando serviva. Ora MJ doveva far vedere che il re era tornato e, per farlo capire a tutti, aveva bisogno di una squadra vera: la squadra, con il neoacquisto Dennis Rodman, forse il rimbalzista più forte di tutti i tempi, che doveva andare a colmare una lacuna apparsa evidentissima dopo il mancato rimpiazzo di Horace Grant (passato ai Magic per il torneo 1994-95). 

“Non vedevo l’ora che la stagione 1995-96 iniziasse. Sapevo che il mio gioco era tornato quello di una volta, con tutto il lavoro che avevo svolto in estate. Mi sentivo come un ragazzino alle prime armi che esce dal liceo e ha qualcosa da dimostrare. L’opinione generale era che avessi una marcia in meno. Ma in quella stagione niente ci avrebbe fermato”. 

Jordan aveva lavorato duro in estate per far sì che quanto successo nei playoff della stagione precedente non potesse mai più ripetersi. Tanto per far capire subito che aria tirasse (per gli avversari) si present al training camp molto, molto arrabbiato, pieno di quella rabbia agonistica che per non è distruttiva, anzi è ipercostruttiva, è quella voglia di dimostrare qualcosa a qualcuno. E con quella fame (di vittorie) ci si costruiscono i record, e qualcuno di questi pu essere semplicemente eccezionale. 

A salutare il ritorno a pieno regime, vale a dire a partire dall’inizio della stagione, i Bulls avevano chiamato a raccolta un supporting cast particolarmente solido e completo. C’era Scottie Pippen, cui non era parso vero di poter riavere MJ a toglierlo dalla mai troppo gradita luce dei riflettori, permettendogli di interpretare l’assai più a lui congeniale parte di seconda voce del coro; c’era il centro australiano Luc Longley, un fiasco ai Minnesota Timberwolves che si era finalmente adattato alla triangle offense e lo aveva fatto così bene da diventare il centro titolare; poi il croato Toni Kukoc, un’arma versatile e curiosamente più devastante partendo dalla panchina, uscendo come sesto uomo di grandissimo lusso, che impiegato in pianta stabile; la guardia Ron Harper (che sostituisce in quintetto B.J. Armstrong, partito con l’expansion draft), in passato un po’ troppo frettolosamente spacciato per erede di Air, quando a Cleveland e a Los Angeles era noto per le sue qualità realizzative, e riciclatosi invece in superbo difensore negli anni della maturità che hanno evidenziato le sue ormai imprescindibili (per i Bulls) doti di uomo-squadra. A chiudere la batteria di grandi specialisti (tolto Pippen, beninteso, una star assoluta per conto suo), il solito affidabilissimo Steve Kerr che, come tiratore scelto che usciva dalla panchina, poteva avere pochi rivali. Dall’elenco appena fatto, per, si può evincere una palese lacuna: lo spot di power forward appare clamorosamente scoperto, dato che a contendersela di fatto c’erano Dickey Simpkins e l’appena scelto al draft Jason Caffey, non esattamente i due punti di forza della squadra. Le stesse valutazioni, evidentemente, doveva averle fatte il GM Krause che decise di tirare i dadi e vedere un poi che numero veniva fuori. La sorte decise per un 91 (il prossimo numero di maglia del pazzo Dennis) sul quale in pochi avrebbero avuto il coraggio di puntare. Bravo e fortunato Krause ad essere fra questi. 

A San Antonio di Dennis Rodman non ne potevano più e decisero di disfarsene prima che, oltre a se stesso, sfasciasse anche quel poco di spogliatoio rimasto agli Spurs, ai quali per fare un soldo (leggi: titolo o perlomeno la finale) mancavano sempre almeno un paio di lire. 

L’ex Bad Boy dei tempi dei Detroit Pistons, famoso per l’arcigna difesa, l’arte (portata a vertici assoluti) di andare a rimbalzo, ma famigerato per la sua idiosincrasia a segnare anche in una piscina scoperta e per le difficoltà gestionali che avevano caratterizzato i suoi anni texani, in quell’estate era rimasto a piedi: nessuna franchigia NBA si era peritata di andare a raccattare dal marciapiede il vincitore degli ultimi quattro titoli (1992 e ’93 con Detroit, 1994 e ’95 con San Antonio) di miglior rimbalzista della Lega. Krause potrà anche stare sullo stomaco a molti, ma dire che sia un cretino patentato da lasciarsi sfuggire una occasione simile, ci pare semplicemente ridicolo. Lui aveva già deciso, ma qui non si trattava di imporre un piccolo ma significativo ultimo tassello a un mosaico già bello e pronto, qui si trattava di mezzo puzzle: serviva il benestare di Michael il Magnifico, il mecenate che dava l’autorizzazione a far partire i lavori per l’opera d’arte. 

Krause era convinto che la fortunata combinazione di avere in squadra la straordinaria competitività della superstar Jordan, unita alla presenza di un coach completamente fuori degli schemi come Jackson, sarebbe servita allo scopo di tenere nei giusti binari della concentrazione, del lavoro sporco delle vagonate di rimbalzi, di difesa e di falli, le altrimenti distruttive follie di The Worm, Il Verme, come all’epoca era stato soprannominato Rodman per le sue capacità di strisciare in mezzo agli avversari al fine di abbrancare ogni tipo di carambola. Krause sapeva di rischiare grosso ma sapeva anche che doveva inventarsi qualcosa per tappare quella falla (apparsa una voragine all’esame dell’ex Horace Grant, nella sfida playoff coi Magic dell’anno prima) dell’ala grande che tanto tormentava il sonno alla mente del front office dei Bulls. 

C’era un ulteriore dettaglio da sistemare, nella richiesta che Krause stava per fare (più a MJ e a Scottie Pippen che a Phil Jackson), perché Rodman, pur se annacquato dalle stagioni passate in Texas al fianco dell’odiato David Robinson, dalle parti di Windy City, non era buono il ricordo che il tosto Dennis aveva lasciato. Rodman, infatti, era stato uno dei Bad Boys coi quali i Bulls si erano (è proprio il caso di dirlo) scontrati in tutti quegli anni perdenti in cui venivano regolarmente massacrati, di botte e di punti, dagli arcirivali di Motown. In particolare Pippen era stato una delle sue vittime preferite, e capirete come il ritrovarselo tutti i giorni in spogliatoio potesse essere cosa non esattamente gradita. Da entrambe le parti. 

Ma se leggiamo il pensiero di Jordan in merito, confidato all’amico-biografo Mark Vancil, si capisce che, pur di vincere, se la cosa era proprio necessaria, tutto si poteva fare. Anche prendere un ex Detroit Pistons e, in particolare, quell’ex Detroit Pistons. 

“I Chicago Bulls erano la squadra perfetta per Dennis Rodman – dice oggi Michael, a vittorie fatte – e Phil Jackson l’allenatore ideale. Phil permetteva a Dennis di fare quello che voleva, ma, allo stesso tempo, Dennis doveva inserirsi e sentirsi unito al resto della squadra al fischio d’inizio. Non mi interessava se scappava via per i suoi viaggi fuori programma o se stava fuori tutta la notte o qualsiasi altra cosa facesse. Ma quando arrivavamo allo stadio dovevamo sostenerci l’uno con l’altro. Ognuno di noi era libero di esprimersi come individuo e di manifestare l’unicità della propria personalità. Phil, questo, ce lo ha sempre dato. Lui capiva che imporre delle restrizioni ai giocatori allontanava certi giocatori, cresciuti nelle strade, abituati ad uscire per rilassarsi. Alla fine, era controproducente per il collettivo. Dennis fu probabilmente una delle ragioni per le quali i dissapori tra Phil e il management arrivarono ad essere così profondi. I dirigenti si innervosiscono quando i giocatori hanno quel tipo di libertà che Dennis aveva. Krause non ha mai avuto abbastanza fiducia nei giocatori da assicurare loro quel tipo di spazi. Il management si trova più a suo agio con un livello egualitario piuttosto che con un insieme di singole regole, Phil capiva invece come alcuni giocatori meritassero più vantaggi di altri. Dennis poteva andare a Atlantic City, giocare [d’azzardo] tutta la notte e poi scendere in capo e prendere 25 rimbalzi. È così che si è guadagnato la libertà che Phil gli accordava. Da dove è saltato fuori Phil con questa filosofia? Non ne ho idea. Ma quello che so è che era accettata e rispettata da tutti i giocatori. Se tu gli facevi vedere che eri in grado di andare per la tua strada e poi di reinserirti nella squadra quando arrivava il momento di giocare, allora lui ti concedeva il tuo spazio. Allo stesso tempo, se Phil avvertiva che quelle libertà pregiudicavano il nostro approccio, non ha mai avuto problemi nel tirare indietro le redini a chiunque, me compreso, per ricomporre la mentalità collettiva della squadra. Lui è stato giocatore, è stato in squadre campioni, ha fatto parte di un ambiente con compagni intelligenti che sapevano essere indipendenti ed erano capaci di fare le proprie scelte. Ecco perché Dennis si è sentito a casa sua con i Bulls. Questo non significa che non volasse qualche parola grossa, di tanto in tanto. Ci sono sempre state, a cominciare da me. Ma l’atmosfera che c’era da noi lasciava a Dennis la libertà di essere se stesso all’interno del contesto di una squadra di pallacanestro professionistica che cercava di vincere dei campionati. Sotto quell’aspetto, i Chicago Bulls erano unici”. 

Che si vestisse pure da donna, si truccasse, andasse al casinò, che facesse pure tutto quello che gli passava per la testa, se poi tirava giù 25 tabellate per sera. Par di poter riassumere così il placet jordaniano all’arrivo di Rodman, ed in fondo è giusto così: si trattava solo di saperlo prendere, in fin dei conti The Worm, pur fra sporadici eccessi come tecnici, squalifiche e mancati rientri dalla panchina, ha sempre dato tutto se stesso in campo, e avrebbe continuato a darlo. Bastava solo non rompergli le scatole eÉ non chiedergli di segnare. 

Jackson e Jordan, anche se sarebbe più corretto l’ordine inverso, accettarono allora la sfida e il proprietario Jerry Reinsdorf avallò il tutto – perché vuoi o non vuoi alla fine è lui che stacca l’assegno – e l’OK fu dato: il 2 ottobre, subito prima dell’inizio del training camp, i Bulls acquistarono Rodman da San Antonio in cambio del veterano centro di riserva Will Perdue. 

I rischi di una scommessa troppo azzardata c’erano tutti perché là Dennis ne aveva combinate di cotte e di crude sfidando apertamente dirigenza e staff tecnico, il suo comportamento era diventato sempre più insolente, spavaldo, provocatorio e, giunto ormai all’età di 34 anni, non era più veloce e rapido come ai tempi Pistons. 

La cosa che meglio gli riusciva, oltre alla difesa, era tirare giù rimbalzi. E i Bulls ne avevano bisogno come dell’aria. Se poi si trattava di prendere quello che forse è da ritenere il miglior rimbalzista puro di tutti i tempi, allora qualche rischio valeva la pena correrlo. 

C’era un'ultima questione da sistemare: il fatto che la sua presenza in squadra portasse in campo un approccio mentale che frustrava gli avversari e che spesso li mandava fuori giri intaccando il loro senso del collettivo (ne provocava a tal punto le reazioni che spesso finivano espulsi i provocati anziché lui, il provocatore) sarebbe stato un potenziale di più, ma c’era da vedere se la sua eccentrica personalità si sarebbe amalgamata con quelle dei suoi compagni. 


Unbeat-A-Bulls 

Imbattibili, quei Bulls, come recita il giochino di parole ricorrente in quell’indimenticabile stagione, lo sarebbero stati davvero, ma chi avrebbe potuto dirlo prima che la stessa iniziasse? Probabilmente nessuno. 

Chicago apre la regular season con una vittoria per 105-91 su Charlotte con Jordan che, tanto per far capire che era tornato”. 

Segna 42 punti, e Rodman fa la sua parte guidando i suoi nei rimbalzi (11). Se il buongiorno si vede dal mattino, in quell’incontro con gli Hornets c’erano già stati un sole splendente e 40° C all’ombra. 

All’insegna del bel tempo, senza rannuvolamenti dovuti a sconfitte, i Bulls arrivano alla sesta partita, persa (ancora) ad Orlando, poi ricominciano la marcia per altre cinque vittorie, e perdono una seconda volta, a Seattle, quindi realizzano in fila altre 13 vittorie e una sconfitta esterna con Indiana, dopo di che arriva il record di franchigia di 18 successi consecutivi. Se abbiamo contato bene: 5+5+13+18 fanno 43 vittorie di contro a 1+1+1=3 sconfitte: con la vittoria sui Lakers del 2 febbraio, dopo il primo mese imbattuti (gennaio, 14-0) nell’intera trentennale storia della franchigia, i Bulls erano arrivati alla boa di metà stagione con lo straordinario bilancio di 41-3, il 93.2 percento di successi. Più delle parole, stavolta servivano i numeri. 

Dopo che, delle prime 44 partite, ben 41 sono finite con i Bulls avanti nel punteggio, Phil Jackson, alla perenne ricerca di qualcosa che sapesse motivare i suoi, la trova fissandoli dritto in faccia: il record di 69-13 dei Lakers del 1971-72 resisteva da più di due decenni come miglior risultato nella storia della NBA, così il 70 sarebbe diventato il numero magico, il chiodo fisso di quel resto dell’annata dei Bulls. 

Vincete 70 partite, dice Jackson a quel fantastico gruppo, e vi sarete staccati dal plotone. Avrete raggiunto quello che mai nessuna squadra ha saputo fare prima. Phil sapeva che, senza l’Anello, tutti quei numeri non avevano alcun senso, ma forse aveva trovato il modo, puntando l’attenzione a quel traguardo, in fondo solo di tappa, per disinnescare quella bomba ad orologeria che aveva in squadra e soprattutto nello spogliatoio, Dennis Rodman. 

Le sconfitte consecutive patite a Denver e a Phoenix – quelle che sarebbero state le uniche due battute d’arresto in fila – e una vittoria in trasferta con i Golden State Warriors portano i Bulls all’All-Star break, l’interruzione di metà stagione per il weekend della Partita delle Stelle (dove Jordan e Pippen sarebbero partiti in quintetto), sul confortante parziale di 42-5. Niente male. 


Troppa grazia San Antonio 

La consueta gara-esibizione di metà stagione, l’All-Star Game, in programma quell’anno a San Antonio, non fu una novità: per Jordan, come per il famoso amaro, è normale essere eccezionale. Ma forse questa volta sarebbe stato più giusto affermare che fu eccezionale il fatto che fu Jordan ad essere normale. 

Oh, intendiamoci: 20 punti, con 8/11 dal campo, in 22 minuti di gioco, e la vittoria (129-118 per la East, per quanto possa contare il punteggio in manifestazioni del genere) della sua squadra, non sono malaccio, ma Michael ci aveva abituato a ben altro. Comunque, MJ, in quell’edizione dell’All-Star Game, il primo dopo il suo ritorno agonistico, non voleva stare in prima fila, voleva godersi tutti quegli aspetti apparentemente minori, ma che, era certo, più gli sarebbero mancati, una volta smesso definitivamente di giocare. “Lo vivevo in modo diverso – avrebbe detto dopo la partita Jordan, mai così sereno e disponibile con i media – volevo divertirmi per me stesso e non per qualcun altro. Era una gioia del tutto mia, e poi c’era l’idea di conoscere gente nuova e di stare bene con loro. Sapevo cosa provavano alcuni [al loro primo ASG, nda], perché ci ero passato anch’io. Potendo, li avrei aiutati, ma la cosa importante è divertirsi. Volevo esserci. Non volevo stare defilato o soverchiare, solo esserci. E da questo punto di vista, è stato divertente. Non era questione di essere il migliore o no, non mi interessava, volevo solo giocare bene e godermi l’intero weekend”. 

Che si fosse divertito non c’erano dubbi, visto che prima, durante e dopo la gara, Michael rise e scherzò con tutte le altre stelle. “Ci sono molte cose di me che la gente non conosce – racconterà qualche tempo dopo – A me piace scherzare, ridere. E arrivati a questo punto vorrei che la gente se ne accorgesse, che lo capisse. Voglio godermi queste cose senza nascondermi, voglio farlo pubblicamente. Voglio che mi capiscano, che mi vedano come uno qualsiasi. Questo All-Star Weekend è stato una buona occasione per dimostrarlo agli altri, ai ragazzi. Che io non sono superiore a nessuno, che sono uno di loro e che cerco solo di giocare meglio che posso”. 

Il campo, invece, nonostante i propositi buonisti di Michael sull’essere il migliore o no, avrebbe servito il solito cocktail di MJ: una spruzzatina di classe pura, un paio di numeri ad effetto, shakerare il tutto, et voilà, ecco il secondo MVP della Partita delle Stelle, pur non essendo stato lui il miglior rimbalzista, il miglior marcatore – cosa che fu, invece, O’Neal, che, al di là dei suoi 25 punti, il vero MVP morale dell’incontro, per ammissione dello stesso Jordan. 

Giocò in pratica mezza partita, Sua Maestà, ma mostrò di essere, nonostante i due All-Star saltati per il ritiro, ancora il re. Ancor più se si pensa che la kermesse fu un filo al di sotto delle grandi (e forse esagerate) attese della vigilia. 

Coach Phil Jackson, per, non volle sentire ragioni e se ne infischi bellamente dello spettacolo: il suo pupillo lo fece giocare solo due quarti e nel quarto e ultimo periodo non lo fece nemmeno entrare. Per la prima volta nella storia della manifestazione vinse il premio di Miglior giocatore un atleta presente in campo per metà incontro, ma se c’era qualcuno che poteva farlo, questi era lui. Non è giusto, così come ingiusta era stata la mancata convocazione di Dennis Rodman, o il mancato MVP a O’Neal che aveva giocato meglio, ma così va il mondo e tentare di cambiarlo può essere esercizio nobile ma sterile. 

La partita non fu bellissima ma Jordan fece lo stesso una cosa che non si dimenticherà tanto facilmente. Riusc“ a recuperare un pallone mentre stava cadendo all’indietro al di là della linea di fondo. Inoltre, mentre stava atterrando, riuscì a scorgere O’Neal e ad allungargli un pallone che sembrava già nel parterre. Sansone-O’Neal, ricevuta la palla, piantò uno schiaccione da far venire giù l’intero Alamodome con tutti i suoi 73-mila filistei paganti, che non si stupirono troppo all’ennesimo riconoscimento attribuito a Michael. 

Anzi, forse il più sorpreso fu proprio Mike. “Non ho niente a che vedere con questo – ha dichiarato al termine dell’All-Star Weekend quell’11 febbraio 1996, riferendosi al trofeo che non sentiva suo e invece aveva appena consegnatogli dal Commissioner, David Stern – Quando ho saputo che ero io il vincitore non ci volevo credere. I tifosi hanno la loro opinione e i propri beniamini, ma il premio poteva benissimo andare a Shaq, specie per come ha finito la gara. Mi sono sentito un po’ a disagio, ma non sono io a votare. Io non c’entro e non voglio mettere in secondo piano nessuno. Voglio soltanto mantenere buoni rapporti con tutti”. 

Dichiarazioni che hanno suscitato malcelati imbarazzi nel Palazzo della lega, ma che a Michael facevano onore. Sempre il migliore, anche se stavolta non in quei 48’ sul parquet. 

72-10! 

L’ancora lungo cammino alla volta dei playoff riprende esattamente come era stato interrotto: vincendo, vincendo e ancora vincendo. Il 18 febbraio la premiata ditta Jordan & Pippen segna la bellezza di 84 punti, rispettivamente 44 (noblesse oblige) e 40 nella rivincita, sempre esterna, con i Pacers (110-102) che li avevano battuti nel primo incontro nell’Indiana. Con quell’impresa, il sodalizio tecnico e d’amicizia fra i due gemelli era entrato nella storia: Jordan e Pippen sono i primi Bulls di sempre a segnare in coppia almeno 40 punti a testa, ovviamente nello stesso incontro, e il solo nono duo nell’intera storia della NBA capace di raggiungere tale risultato. Speriamo almeno che tali (per noi europei forse incomprensibili) entusiasmi suscitati da tutti questi numeri siano sempre ben ancorati alle vittorie, altrimenti non vediamo l’utilità di segnare 80 punti in due per magari perdere di uno. Ma tant’è, l’americano va preso così com’è. 

Quella vittoria faceva parte di una striscia vincente di sette gare che proietta i Tori a quota 48-5, poi tre strisce di sei vittorie ciascuna li portarono sul 66-8, e siamo già al 7 aprile. Tutto quello che Chicago doveva fare per raggiungere le 70 vittorie era vincere anche solo la metà delle sue ultime otto gare. 

Dopo aver perso 97-88 in casa con Charlotte, snocciolarono quattro successi consecutivi andando prima ad impattare le 69 vinte dei Lakers del ‘72 (con la vittoria di Cleveland, dove, il 14 aprile, i Cavaliers vennero battuti per 98-72) e poi a toccare finalmente il cielo delle 70 vinte, con l’affermazione (86-80 a Milwaukee ) di due sere dopo. La storia era ormai pronta a farsi aggiornare. 

Ma Chicago non si accontentò del traguardo minimo, vale a dire un solo successo in più di quella grandissima L.A. di Goodrich-West-Chamberlain, volle spingersi più in là possibile. I Bulls prolungarono la mini-serie a cinque successi consecutivi con l’umiliante disfatta (110-79) inflitta a Detroit, poi persero con Indiana (loro autentica bestia nera stagionale – se pure si può parlare di bestia nera in un’annata da 72 vittorie – capace di batterli in due di quelle sole dieci volte in cui i Bulls hanno perso) e chiusero quindi quell’epocale regular season andando a vincere (103-93) a Washington. I Bulls avevano concluso a 72-10 (39-2 in casa, 33-8 in trasferta), il miglior record in tutta la storia della NBA. é lo stesso Michael, due anni dopo, a rievocare la grandezza di quell’impresa e come essa avesse potuto essere raggiunta: “Decollammo subito con un grande avvio. A un certo punto ne vincemmo 18 in fila e ormai eravamo lanciati. Eravamo orgogliosi di noi stessi perché stavamo dominando. Tutti sapevano ci che stavamo realizzando, non facevamo altro che fare a pezzi un’avversaria dopo l’altra. Ognuno in quella squadra si era dedicato a calarsi nel proprio ruolo perché in parecchi avevano qualcosa da dimostrare. Non tutti avevano vinto un campionato. Dennis Rodman aveva vinto a Detroit, ma lui doveva provare di poter essere qualcos’altro che un fattore disgregante. Il nostro approccio a quella stagione era esattamente in sintonia con la mia mentalità, che è sempre stata quella di vincere e dominare allo stesso tempo. 72 e 10? In questa epoca, con 29 squadre? Incredibile. Quello è stato il miglior ritmo che abbia mai avuto ogni squadra dei Bulls per le quali io abbia giocato e lo ha tenuto per un’intera stagione”. Una stagione da cento partite. 

Con tutto questo gran parlare di record, numeri e statistiche varie, per poco tralasciavamo di dire che Jordan stabilì il suo di primato andando a vincere la sua ottava corona consecutiva come capocannoniere della Lega, stavolta il titolo venne raggiunto alla media di 30.4 punti per gara. Rodman, nel suo piccolo, vinse per la quinta volta in fila la classifica dei rimbalzisti (14.9 di media). Tra gli altri riconoscimenti, Jordan e Pippen nel primo quintetto All-NBA. A loro si aggiunse Rodman in quello difensivo. E ci fu gloria anche per il resto: Kukoć fu nominato Sesto uomo dell’Anno, Jackson, già al quarto anello, fu per la prima volta Coach of the Year. Perfino il detestato Krause, in tutta probabilità grazie alla scommessa stravinta Rodman, si ritagliava la sua fetta di gloria alzando il trofeo di Executive dell’anno. 


La Festa senza Papà 

A Chicago sapevano bene che, pur con tutta l’ammirazione che 72 vittorie potevano suscitare, il vero obiettivo da raggiungere in base al quale sarebbero stati giudicati era ancora molto lontano. “Abbiamo avuto una stagione meravigliosa – è la tesi di Pippen – ma se non vinciamo il titolo l’intera annata sarà rovinata”. 

Gli imminenti playoff, in ogni caso, sembrano apposta per pronunciarsi sulla questione: è davvero la più grande squadra di sempre quella capace di una percentuale-vittorie dell’87.8% in regular season? Se lo è, deve essere capace di conquistare anche il titolo. La postseason edizione 1995-96 è la chance di quei Chicago Bulls per consegnarsi all’immortalità, una chance che non si sarebbero fatti sfuggire. 

Tanto per far capire l’andazzo, i Bulls procedono ad una rapida spazzata ai Miami Heat di coach Riley; poi è il turno dei Knicks, e, anche se i newyorkesi si industriano nella consueta applicazione del loro gioco intimidatorio, arrivando ad aggiudicarsi Gara-3 dopo un tempo supplementare, alla fine i Bulls passano in cinque partite. Si è alla Finale della Eastern Conference e la più dolce delle vendette è consumata: sweep sui poveri Magic decimati dagli infortuni, e il traguardo minimo della Finale NBA è tagliato. 

Ad attendere la squadra forse più forte di sempre ci sono i Seattle SuperSonics di Shawn Kemp e Gary Payton. L’ennesimo duo delle meraviglie che per dovrà dimostrare di saper tener botta contro MJ e Da Pip. 

Chicago vince le prime due gare (casalinghe, per via del super record di stagione regolare), e a domicilio la terza. Seattle salva la faccia vincendo le due rimanenti in casa ma, con in vista altri due partite a Chicago, l’ineluttabile sembra solo posposto. 

Jordan e Soci non hanno bisogno della settima partita ed aggiudicandosi comodamente Gara-6 con il punteggio di 87-75 (22 punti di MJ e 19 rimbalzi di The Worm) appendono alle volte del nuovo, straripante United Center il suo primo stendardo di “Campioni del mondo”. Il quarto della franchigia. 

I Bulls chiudono con un bilancio complessivo di 87-13. Facile il compiuto: su 100 partite, ne hanno perse (tutte ininfluenti) appena il 13%, altro record. 

“Saranno gli storici a decidere il nostro posto tra le più grandi squadre di sempre, ma di certo noi abbiamo raggiunto tutto quello che dovevamo ottenere per esserci. Mi dispiace di essere stato via per 18 mesi, ma sono felice di essere tornato e di aver riportato il titolo a Chicago – ha dichiarato Jordan, che da MVP delle Finali eguaglia così il centro Willis Reed, che nel 1970, campione coi Knikcs, fu Miglior Giocatore di regular season, dell’All-Star Game e delle Finals. 

Per Michael, quell’ultimo atto, disputato nel giorno della Festa del Papà, era stato un momento particolarissimo. Subito dopo la sirena, era scoppiato a piangere, si era buttato sul parquet e poi, rientrato in spogliatoio, senza mai separarsi dal pallone si lasciò andare. “È sempre nei miei pensieri – disse Jordan riferendosi al padre – Questo per me è forse il momento più difficile per giocare a basket. Ho talmente tante cose che mi passano per il cuore e per la testa, tanto a cui pensare. Sono felice che il carattere della squadra mi abbia aiutato a superare quel momento. 

Sembrava come se tutti i pezzi si incastrassero al posto giusto, in vista di Gara-6. Io ero tornato a giocare e mio padre non c’era più, tutti si chiedevano che cosa avrei fatto a quel punto e quale ulteriore gratificazione avessi la possibilità di ottenere oltre a vincere il campionato nel giorno della Festa del Papà come omaggio a mio padre. 

Non avrebbe potuto finire meglio. Quel giorno ero così determinato… Era come quando a volte sei talmente arrabbiato che ti verrebbe da piangere. Ecco quanto ero determinato a vincere quella partita. Ero al contempo furioso e felicissimo. Non c’era verso che riuscissi a controllare le mie emozioni. Ero furioso, perché sentivo di dover vincere un altro campionato prima che tutti dessero credito al mio ritorno. Ma ero anche felice di aver dimostrato che avevo ragione. Avevo amato questo sport così a lungo e avevo fatto talmente tanto nel basket, e ancora venivo criticato. Una volta preso il pallone, a partita finita, mi commossi come se tutto fosse appena successo. Ero tornato. C’erano state tante amarezze strada facendo, ma mi hanno insegnato a fare la cosa giusta. Se lavori, sarai ripagato. Nella vita non esistono scorciatoie”. 

“Greatest Team Ever” c’era scritto sulle T-shirt celebrative del quarto titolo in sei anni (quattro su quattro con MJ a pieno servizio): poteva il management non voler confermare tutti i protagonisti (MJ, Da Pip, Il Verme)? Poteva Reinsdorf respingere la richiesta di un annuale a 18 milioni di dollari per MJ, sottopagato per un decennio? Poteva Krause mandare via Jackson, l’unico coach per il quale Air era ancora disposto a volare? 

No. Non era tempo di fermarsi, semmai di cambiare, ancora una volta, marcia. E di ingranare la quinta. Drive for Five.

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