CAPITOLO 30 - Drive For Five (1996-97)
"Se avessi saputo allora quello che so oggi di cosa ho dovuto passare in quella Gara-5 delle Finali 1997 nello Utah, non so se avrei giocato. Se avessi la garanzia che l’esito sarebbe lo stesso, allora probabilmente lo rifarei di nuovo. Ma se l’esito non fosse garantito, non c’è verso. Ho rischiato di morire per una partita di basket..."
- Michael Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
Quando si esaminano gli ultimi due titoli vinti dai Chicago Bulls raccontarli assieme, quasi che il secondo fosse il naturale e ineluttabile prolungamento del primo o il penultimo l’inizio dell’ultimo. Esistono analogie tra le due vittorie, com’è normale che sia quando le finaliste sono le stesse in due anni consecutivi e hanno cambiato poco se non pochissimo, ma forse sono state più le differenze che le cose in comune.
High-FIVE
Alla fine della stagione precedente, quella del 1995-96, i Chicago Bulls avevano raggiunto l’impossibile: 72 vittorie in regular season. Mai nessuno, nella storia della NBA, aveva perso, in stagione regolare, solo dieci partite. I Bulls avevano scalato la più alta delle montagne. Ora veniva la più difficile. Ripetersi nel ripetersi.
La regular season sarebbe stato un film già visto: Jordan avrebbe guidato di nuovo - ma avrebbe fatto notizia il contrario - la classifica marcatori, e questa volta (la nona) alla media di 29.6 punti a partita. Durante il consueto appuntamento di metà stagione dell’All-Star Weekend, invece, ci sarebbero stati due momenti, nel loro piccolo, storici.
Nel 1996-97 cadeva il Cinquantenario della NBA e, per festeggiarlo, la lega aveva in programma quella di eleggere i 50 migliori giocatori del suo mezzo secolo di vita premiandoli proprio in concomitanza con la pausa che il campionato si concede a metà regular season, per la Partita delle Stelle, la tradizionale vetrina in cui la National Basketball Association espone i propri gioielli di famiglia.
Anche a Michael fu dato il giubbotto, in panno e similpelle stile-college (alquanto kitsch, soprattutto indosso ai più anzianotti), con i colori (biancorossi) del proprio team, che distingueva i 50 cavalieri dell’apocalisse cestistica che avevano fatto (e stavano facendo) la storia della NBA. Ma, per celebrare più degnamente la festa, anziché limitarsi a indossare il suo bel giubbottino nuovo, Jordan decise di metterci del suo onorando quell’edizione dell’All-Star Game con la prima tripla doppia nella storia della manifestazione: 14 punti, 11 rimbalzi e 11 assist.
I Bulls, nel frattempo, avevano fatto registrare un brillante avvio nella loro Drive for Five, la Caccia al quinto (titolo), che in inglese fa rima e che sarebbe presto diventata il tormentone di quella stagione. Vincendo le prime 12 partite, i Tori avevano già realizzato la miglior partenza nella storia della franchigia, poi avevano tranquillamente proseguito navigando a vista per il resto del campionato. Anche se le altre 28 squadre della Lega avevano individuato nel batterli l’obiettivo massimo della propria stagione, i Bulls avrebbero lo stesso compilato lo straordinario bilancio di 69-13, il secondo miglior risultato della storia NBA (84.1%), assieme a quello dei Lakers del 1971-72, dopo quello compilato l’anno prima. E solo le tre sconfitte occorse nelle insignificanti ultime quattro partite impedirono a Chicago di respirare, per il secondo anno in fila, il profumo delle 70 vittorie stagionali.
Eppure, nonostante le cifre, la cavalcata non era stata così trionfale come un simile bilancio vinte-perse potrebbe far pensare. Sia Jordan sia la squadra sembravano non ricevere le attenzioni che avrebbero meritato. Gli infortuni di Luc Longley e di Tony Kukoć, le assenze di Dennis Rodman, dovute sì a problemi fisici ma anche alle solite sciocche squalifiche, sembravano sviare quella considerazione, da parte del pubblico e degli addetti ai lavori, che invece il dominio prodotto in campo dalla squadra avrebbe meritato. Perfino i giocatori avvertivano che c’era qualcosa di diverso nell’aria. “L’anno scorso è stato entusiasmante, ma credo che l’accumulo delle ultime due annate abbia reso questa stagione una specie di corsa a ostacoli”, avrebbe dichiarato in un’occasione Steve Kerr.
Gli stessi media avevano poi negato a Jordan la possibilità di incamerare un altro trofeo di miglior giocatore del campionato premiando invece Karl Malone come MVP di regular season, e la cosa aveva destato in alcuni più di qualche perplessità. Onestamente, riteniamo giusta l’assegnazione di quel premio al grande The Mailman, perché Il Postino, negli 82 incontri di stagione regolare, mai era stato così puntuale nelle consegne affidategli dalle sapienti mani del suo alter ego John Stockton.
È vero, i playoff avrebbero messo crudamente in discussione quel verdetto, visto che Michael avrebbe distrutto Karl se non altro per quella dote, presente in lui come una seconda pelle, d’essere decisivo quando più conta, vale a dire nei finali di partita. Ma il premio di Malone riguardava l’intera recita di regular season, quello di Jordan (MVP della Finale) solo l’ultimo, decisivo atto del dramma della postseason. Non crediate che questo apparentemente secondario dettaglio (il 32 dei Jazz MVP davanti a Jordan) non abbia poi avuto invece il suo importante peso nell’andamento della serie finale. Lo sgarro del mancato premio di miglior giocatore non sarebbe andato giù tanto facilmente a Michael, che, anzi, ci vide una piccola motivazione in più per battere gli Utah Jazz, squadra di quel (pure) grande campione che avevano osato anteporgli. Michael, sportivamente, fu prodigo di dichiarazioni di rispetto e di ammirazione per il tanto lavoro fatto dal bravissimo Karl per meritarsi quel premio, ma dentro di sé bruciava dalla voglia di far vedere al mondo intero quanto questo si fosse sbagliato; e quale miglior palcoscenico della Finale, allora, per inscenare la pièce della vendetta?
Per l’orgogliosissimo Jordan ingaggiare nelle Finali NBA una battaglia personale non era che l’ennesimo déjà vu: nel 1991 c’era stato Magic, nel 1992 Drexler, nel 1993 Barkley (la star che analogamente gli aveva sottratto il titolo di MVP del torneo) e nel 1996… se stesso, per vedere se il secondo Michael, quello rientrato dal baseball, sarebbe stato all’altezza del primo. Ora toccava al numero 32 dei Jazz. Niente di particolarmente nuovo all’orizzonte: la storia si ripete.
Un connotato di novità c’era sempre stato nei viaggi dei Bulls alle Finali, ma nessuna delle sfidanti era però riuscita a ripetersi: Los Angeles, Portland, Phoenix, Seattle e ora Salt Lake City. Chicago sembrava applicare alla lettera il motto del più puro pionierismo americano, “Go West, young man, go West!”.
Il vero MVP
I primi turni di playoff sarebbero stati poco più di una formalità per i Bulls, che fecero registrare solo un paio di picchi degni di nota. Il primo, il 27 aprile, nei 55 punti messi a segno da Jordan contro Washington nella Gara-1 di quella prima serie di postseason (risolta in appena tre incontri, con Michael a quota 37 di media!). Il secondo, il 28 maggio, con Miami che cade (100-87) alla quinta partita delle Finali della Eastern Conference. Jordan? 32.2 di media e già caldo per la Finale. Il primo giugno allo United Center avrebbe trovato ad attenderlo il fresco MVP 1997.
A 9.2 secondi dalla fine di Gara-1, e sul punteggio di 82 pari, l’ala dei Jazz sbagliò entrambi i liberi che avrebbero potuto significare la vittoria nel sempre fondamentale incontro d’apertura della serie. Jordan, dal canto suo, non avrebbe perdonato quegli errori e proprio sulla sirena, dai sei metri, dopo essersi liberato di Bryon Russell, con un palleggio incrociato-arresto-e-tiro avrebbe fatto partire un siluro, sottoforma del solito irresistibile jumper, che avrebbe affondato la traballante imbarcazione di Utah. 84-82 per i Bulls e 1-0 in tasca. Michael aveva aperto la serie finale con 31 punti, 4 rimbalzi e 8 assist.
In Gara-2, il 4 giugno, la differenza, neanche a dirlo, la fecero i 38 punti di Michael, che, sfiorando la tripla doppia (per lui anche 13 rimbalzi e 9 assist), assicurò a Chicago, riemersa con un parziale di 22-11 nel secondo quarto, la seconda vittoria casalinga (97-85) e il conseguente vantaggio di 2-0 nella serie.
Adesso si andava a visitare la Città del Lago Salato e tutto poteva ancora succedere, perché i Jazz, con a disposizione tre partite interne consecutive, non avrebbero mollato tanto facilmente.
Tra gli impazziti e coloratissimi (dipinti direttamente sulla pelle) tifosi di casa, i Jazz vinsero in modo convincente il terzo e il quarto incontro portando la serie sul più avvincente dei 2-2.
Il teatro dell’intero mondo del basket era pronto per la più straordinaria rappresentazione di eroismo cestistico che la storia dei canestri ricordi. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella che avrebbe dovuto essere la normale Gara-5 delle Finali NBA 1997 sarebbe invece direttamente assurta a leggenda dello sport. Con l’approssimarsi dell’ora di inizio dell’incontro, si erano fatte sempre più insistenti le voci di Jordan vittima di un virus intestinale, probabilmente causato da una pizza non esattamente freschissima, che gli aveva procurato, oltre ad un febbrone da cavallo, anche forti dolori allo stomaco e che gli aveva impedito di chiudere occhio per tutta la notte antecedente alla partita.
Una qualsiasi persona assennata, non serviva un medico per capirlo, non avrebbe mai e poi mai pensato di chiedere di giocare ad un uomo ridotto in quelle condizioni. Anche se quella partita poteva significare un titolo NBA. Ma i giocatori veri, si sa, sono di una razza a parte, e la persona che chiese a Michael di giocare altri non fu che l’unico avversario che nel corso della sua carriera sarebbe stato capace di batterlo, se stesso. Fu così, allora, che, più che ai contemporanei, ormai abituati ai suoi miracoli, venne consegnata ai posteri, immortalata nelle immagini tv che fecero il giro del mondo, una delle gesta più eroiche nella storia dello sport americano dai tempi di Gara-7 delle Finali del 1970, allorché il Capitano dei Knicks, Willis Reed, praticamente zoppo, decise di fare lo stesso il suo ingresso in campo per contribuire alla vittoria di New York (sui Lakers), che diede alla Grande Mela il suo primo Anello NBA. Reduce da una notte insonne causata dall’intossicazione alimentare, in quella storica partita dell’11 giugno Jordan riuscì, non si sa bene come, a segnare 38 punti (uno per ogni grado centigrado di febbre: che cosa sarebbe successo ai Jazz se al povero Mike si fosse alzata ulteriormente la temperatura corporea?), raggranellando anche 7 rimbalzi e 5 assist, il tutto in 44 ispiratissimi e ispirantissimi minuti.
Dopo aver contribuito, caricandosi sulle spalle il grosso del peso offensivo, a riportare i suoi in partita (i Bulls inseguivano di 16 nel secondo quarto, riuscendo poi a riportarsi sotto fino al -4 di metà gara), a 46 dallo scadere del tempo Michael trasforma il primo dei suoi due tiri liberi impattando la partita sull’85-pari, sbaglia il secondo riuscendo però a far suo il successivo rimbalzo nella lane e a scaricarlo fuori a Pippen, certo che Scottie gli avrebbe poi restituito subito il pallone, cosa che Da Pip esegue prontamente.
Michael, nel frattempo spostatosi dietro l’arco, dimostra ancora una volta di possedere un talento soprannaturale (manifestato soprattutto in quei frangenti, quando si decide tutto) infilando la tripla che avrebbe inesorabilmente tagliato le gambe agli increduli Jazz, alla fine sconfitti 88-90. Nella mischia per la palla vagante, Utah non era riuscita a ridisporsi in tempo nella propria metà campo difensiva, e l’aveva pagata cara.
Michael per tutto il giorno era rimasto a letto, assumendo la classica posizione fetale che gli sembrava fargli sopportare meglio i lancinanti dolori allo stomaco. In quello stato, e imbottito di antibiotici, non poteva certo mangiare, quindi era stato alimentato per via liquida con delle flebo. In qualche modo era stato rimesso in piedi. Ma, ci si chiedeva, di che aiuto avrebbe potuto essere uno ridotto così.
Pur avvezzi a registrare anche il più incredibile miracolo di Air, alzi la mano chi di noi avrebbe mai potuto aspettarsi quello che sarebbe poi successo di lì a poche ore. Ebbene, Jordan, pur in quelle penose condizioni - le foto di quell’incontro che ne ritraggono il volto non gli rendono sufficiente giustizia -, non solo sarebbe sceso in campo ma avrebbe addirittura deciso la partita e, con essa, la corsa al titolo.
Quando coach Jackson nei secondi finali chiamò time-out, ci si accorse, in tutta la sua gravità, dello stato in cui aveva potuto ridursi quel combattente nato: per riuscire a raggiungere la panchina dovette aggrapparsi all’amico fraterno Pippen. Era una scena toccante, ma forse non era giusto che una persona arrivasse a tanto, neanche se a chiederglielo era stato se stesso. Quel se stesso che, anni dopo, gli avrebbe chiesto se ne fosse valsa la pena.
“Ho giocato quella gara con il cuore e la determinazione e null’altro”, ha scritto Jordan nella sua autobiografia For The Love of the Game (Per amore del gioco). “Non avevo mangiato, non avevo energie, non avevo dormito, niente di niente. Non mi ricordo neanche molto della partita. Non mi sono mai sentito così a pezzi fisicamente come in quell’incontro. Mi sono svegliato alle tre del mattino con quello che sembrava essere un virus intestinale. Non riuscivo a trattenere il cibo e non potevo dormire. Ho preso qualcosa che mi facesse da calmante, ma i sintomi erano così violenti che non sono più riuscito a riaddormentarmi. Quando sono arrivato allo stadio facevo fatica a star sveglio. Non feci altro che starmene seduto, appoggiato alla parete dello spogliatoio, a bere caffè, cercando di riuscire a svegliarmi abbastanza per giocare. Non avevo niente nello stomaco e il caffè non fece granché per svegliarmi. All’intervallo mi sentivo quasi disidratato, così incominciai a bere quello che io pensavo fosse Gatorade. Ma qualcuno, per sbaglio, mi aveva passato una bottiglia di GatorLode, che si presume debba essere bevuto dopo che si è finito di svolgere un’intensa attività fisica.
Non appena rientriamo in campo per il secondo tempo, mi sento pieno e sul punto di cedere per la stanchezza. Avevo continuato a bere caffè, il che, in definitiva, non fece che accelerare il processo di disidratazione. Ci furono dei momenti, nel terzo e nel quarto periodo, in cui mi sentii come se stessi per svenire. Ricordo di aver pensato: Chiudiamo questa partita altrimenti casco per terra. Nella quarta frazione, subito prima del tiro da tre che ha deciso la gara, ero ormai arrivato ad essere quasi completamente disidratato. Avevo i brividi, continuavo a sudare. Di quell’ultimo tiro non sapevo nemmeno se fosse entrato o no, riuscivo a malapena a stare in piedi. Quando rientrai negli spogliatoi, i dottori erano veramente preoccupati perché non mi era rimasto più niente. Ero freddo, eppure stavo sudando. Vollero farmi delle flebo, le presi sdraiato su un tavolo, poi incominciai a bere del Gatorade. È tutto quello che ho fatto per circa 45 minuti. Tutto per una partita di basket”.
Due giorni dopo, venerdì 13 giugno, lo United Center rese ufficiale ciò che tutti sapevano già: i Bulls sarebbero diventati per la quinta volta campioni del mondo. Con un intero giorno di riposo, che gli aveva fatto smaltire la kryptonite di quella influenza intestinale, Superman sarebbe tornato a colpire. Implacabile. In Gara-6, con 39 punti, 11 rimbalzi ma soprattutto smazzando a Steve Kerr lo storico assist che andava a punire l’inevitabile raddoppio su di lui, Michael aveva dimostrato buona memoria storica.
La partita, incagliatasi sull’86-86 a 26 dallo scadere, vide la propria svolta quando Stockton si staccò da Kerr per andare a raddoppiare su MJ. Questi, accortosi dello spazio di cui godeva il compagno all’altezza della lunetta, lo pescò e Kerr, novello Paxson edizione ’91 (contro i Lakers) e ’93 (contro i Suns), infilò da smarcato il jumper che avrebbe sancito la conquista del titolo NBA 1997. Il punteggio finale di 90-86 conta solo per gli statistici, mentre la cosa più importante era che Michael poteva accendere, per la quinta volta in sette stagioni, l’amatissimo sigaro regalato dal Commissioner David Stern ai “Campioni del mondo”.
Durante quell’ultimo huddle di Utah, coach Jerry Sloan aveva intimato ai suoi di raddoppiare Jordan non appena questi fosse entrato in possesso del pallone, cosa che i Jazz non avevano saputo fare - anche se c’è chi sostiene che quella di non effettuare il raddoppio su Jordan fosse una decisione dello stesso Sloan, preoccupato giustamente, come si è visto, dei suoi eventuali scarichi ai compagni.
“Quando Phil ha disegnato lo schema per quell’ultima azione – dichiarò in seguito Jordan – che tutti, in campo, sugli spalti come in televisione, sapevano essere per me, ho guardato Steve e gli ho detto: Questa è la tua occasione, perché so che Stockton verrà in aiuto e io la darò a te”. Kerr, il perfetto spot-up shooter per una squadra di vertice, ricorda così la breve conversazione: Michael è venuto da me durante il time-out. Lo avevo visto a lungo pensieroso, poi finalmente si è voltato dalla mia parte e mi ha detto: Stai pronto. Stockton si staccherà da te. Sarò pronto, gli ho risposto, la butto dentro”.
La scena, a cinque metri dal canestro, si verificò esattamente come il grande regista l’aveva pensata. Gli attori, dal canto loro, erano stati da Oscar. Quella giocata che aveva visto Michael prendere la saggia decisione di innescare per il tiro decisivo un compagno, che non era neppure titolare, simboleggiava l’avvenuto completamento dell’evoluzione di Jordan come giocatore completo e vincente.
Il primo Michael Jordan, quello degli anni ‘80, molto probabilmente avrebbe provato a battere il raddoppio tutto da solo e magari forzato la conclusione. Il terzo Michael Jordan, quello della seconda metà degli anni ’90, più maturo tecnicamente e tatticamente (oltre che psicologicamente, dopo il rientro dal baseball), era stato capace di fare da specchietto per le allodole-Jazz attirando su di sé il raddoppio di marcatura per poi scaricare al compagno libero e, cosa ancor più difficile, era riuscito a credere in qualcun altro che non fosse solo se stesso, quando si trattava di decidere l’esito di una gara, di una serie, di un campionato. Era stata la sua vittoria più bella, di quelle che le cifre non potranno mai spiegare.
Tra le dichiarazioni postGara-6 di His Airness, per quanto scontate, alcune sono emblematiche. “Lo volevamo troppo”, per la determinazione. [Gli Utah Jazz] ci hanno messo tantissimo cuore e ce l’hanno fatta sudare, ma noi abbiamo perseverato e ora sono davvero felice di sapere che siamo per la quinta volta Campioni”, per il meritato onore delle armi ai degni avversari.
“L’eredità [tecnica] di Michael continuerà a crescere – ha osservato Pippen – fino a quando giocherà, lui continuerà a stupirci, non importa come”.
E Jordan stesso, come persona, avrebbe continuato a crescere. Michael ammetteva che, dopo la sua volontaria assenza dal parquet, era cambiato il suo modo di accostarsi al basket. “È stata una gioia diversa, più matura – dichiarò – Trovi il modo di rendere tutto più divertente perché sai che sei sul viale del tramonto della tua carriera. Prima era bello perché c’era tutto un contesto di euforia. Eravamo pazzi, avventurosi. Ma adesso è una gioia più saggia, esci da casa e vai a fare il tuo lavoro, poi ti riposi, perché sai che sei in parabola discendente. E poi devi lottare ogni giorno di più perché per te stesso hai fissato degli standard così elevati che tutti i santi giorni devi metterti alla prova e misurarti con essi.
Quando giocavo, prima che mi ritirassi, non avevo mai compreso appieno l’apprezzamento e il rispetto che la gente provava per me. La gente mi trattava come un dio o qualcosa del genere e questo era molto imbarazzante. In fondo, io non facevo altro che giocare a pallacanestro. Non avevo mai avuto la piena consapevolezza che il talento di cui ero in possesso potesse significare tanto per la gente, perlomeno fino a quando non ho staccato col basket”.
Michael aveva chiuso la serie finale, disputata alla bell’età di 34 anni, con 32.5 punti a partita, ma aveva ancora forza sufficiente, nella testa e nelle gambe, per un altro ballo. L’Ultimo.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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