CAPITOLO 27 - Il diamante troppo duro


"Jordan? Lo stimo moltissimo come giocatore di basket, ma forse sta facendo il passo più lungo della gamba, visto che non gioca da tantissimo tempo. Ha avuto un successo tale nella pallacanestro che non so se saprà accettare di battere con una media, per esempio, del 22%. Il baseball non è come il basket o il football: devi stare nel box di battuta con meno di un secondo di tempo per cercare di colpire una palla che arriva a 150 km l'ora, non è come tirare un pallone o provare a placcare un avversario."
– Hank Aaron

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books


Quando il 6 ottobre 1993 Michael annunci che si sarebbe ritirato dal basket pro, qualcuno ebbe la sensazione che fosse stata la pressione dei media, soprattutto in seguito alla scomparsa di suo padre James, ad averlo convinto a prendere quella strada così prematuramente (a soli trent’anni). Ma, stando almeno a quanto dichiarato dallo stesso MJ durante la conferenza stampa, non era quello il vero motivo: “Ho sempre tratto degli stimoli da tutti quelli che mi hanno conosciuto e dai media che mi hanno seguito passo passo. E ora che ho perso quella sensazione di dover dimostrare qualcosa come giocatore, è giunto per me il momento di lasciare il gioco del basket”. 

Quel fatidico giorno milioni di suoi tifosi in tutto il mondo furono storditi dallo choc, così, tra loro, incominciarono a circolare anche le voci più strampalate. Attorno alla metà della stagione cestistica 1993-94, si sparsero le voci di un probabile periodo di preparazione di Michael per un tryout con i Chicago White Sox di baseball! Pareva che Jordan fosse stato quotidianamente a prendere lezioni di battuta e di fielding nei sotterranei dello stadio Comiskey Park o all’Illinois Institute of Technology. C’erano delle volte in cui il suo allenamento di battuta avveniva sotto la supervisione del guru dei White Sox per questo difficilissimo fondamentale tecnico, il batting coach Walt Hrniak. E non si può certo sostenere che Michael tentasse soltanto la fortuna facendo qualche gabbia di battuta. Jordan colpiva dalle 600 alle 1000 palle al giorno e studiava i nastri di battitori illustri, gente, tanto per fare un nome, del calibro di Frank Thomas. Sembrava impossibile, ma quelle voci che sembravano così campate per aria trovarono riscontro nel fatto che Jordan avrebbe, di lì a poco, giocato nel baseball professionistico. 

Piuttosto che nel batti e corri, molti suoi amici e tifosi erano convinti che Michael avrebbe potuto allenarsi in previsione di giocare eventualmente nel senior golf circuit, dato che ormai da anni era diventato un fanatico di mazza e pallina, ma, fin da piccolo, il suo primo amore era stato il baseball ed era stato quello lo sport che lui e suo padre avevano condiviso. E chi ha avuto la grande fortuna di giocare un qualsiasi sport con il proprio papà, sa di che cosa stiamo parlando e sa che quel qualcosa ti rimane dentro. “Mi ci fece appassionare per come giocava nella Little League” disse in una qualche occasione James Jordan riferendosi ai primi passi di suo figlio nel baseball. “Se non lo portavo a giocare, lui faceva quella faccia che ti faceva una tale pena, come se avesse perso ogni amico al mondo, e ci si metteva con tutto se stesso. Tu gli davi un’occhiata e poi non potevi fare a meno di dirgli: OK, andiamo. Ci sapeva fare, nel baseball, ed era già così superiore ai ragazzini della sua età che chiunque ne sarebbe rimasto subito incantato”. 

Edward Lewis, il coach della varsity baseball team alla Emsley A. Laney High School, dichiarò a USA Today Basketball Weekly di nemmeno aver mai saputo, all’epoca, che Jordan avesse lasciato il baseball, almeno fino a quando Michael non divenne un sophomore. 

Fino a quella data, continuava Lewis nello stesso articolo, Mike Jordan era conosciuto solo come giocatore di baseball. Da junior alla high school, Jordan lanci per oltre 40 inning senza fare punti, mentre andava nella hole (buca) di battuta come numero 5 o 6 della formazione titolare. 

Durante il suo anno da senior nel baseball, per due partite Michael fu invitato a giocare a basket nel McDonald’s high school all-star game, ma far questo significava per Jordan dover rinunciare alla sua rimanente eleggibilità come giocatore di baseball. Mike decise di giocare in quello all-star game e sappiamo tutti come sia andata a finire. Quel che non sappiamo, e non sapremo mai, è come sarebbe potuta andare a finire. 

Ci sarebbero voluti più di una dozzina d’anni prima che Jordan potesse rigiocare a livello agonistico in un’altra partita di baseball. Jordan aveva instaurato un buon rapporto con il proprietario dei Chicago Bulls, che è anche l’owner dei Chicago White Sox, formazione di major-league di baseball. I rapporti tra Reinsdorf e Jordan erano sempre stati – quasi senza eccezioni – amichevoli, specialmente se paragonati a quelli che lo stesso Reinsdorf aveva, se ne aveva, con altri componenti della rosa dei Bulls. Michael, con quella conferenza stampa del 6 ottobre 1993, aveva annunciato il suo ritiro dal basket ma aveva fatto in modo di non rompere i ponti con Reinsdorf, così, il 7 febbraio 1994, i White Sox firmarono l’esordiente Michael Jordan con un contratto di minor-league. 

I più scettici immediatamente si sbellicavano dalle risate. “A million-to-one shot”, un milione [di dollari!] a colpo, fu l’unanime e canzonatorio commento degli addetti ai lavori in riferimento ai (tanti) soldi che MJ avrebbe percepito in rapporto alle (poche) palle che avrebbe saputo colpire. E non si può certo negare che Jordan se la fosse cercata. “Non sarà capace di sobbarcarsi dei viaggi di 12 ore di pullman” intonavano in coro i tifosi intervenendo nei call-in show. E, almeno su questo, avevano ragione loro. Ma anche altri scettici doc non ci andarono giù piano. Sentite Hank Aaron, membro della Hall of Fame del baseball ed ex idolo di gioventù dello stesso Michael quando questi era piccolino, in un’intervista rilasciata a Chuck Johnson di USA Today e pubblicata il 5 febbraio 1994: “Che cosa penso di Jordan? Lo stimo tantissimo come giocatore di pallacanestro, ma forse ora sta facendo il passo più lungo della gamba, dato che non gioca a baseball da parecchi anni. Jordan ha avuto così successo nel basket che non so se riuscirà ad accettare di avere una media in battuta, tanto per fare un esempio, del 22%. Il fatto è che il baseball è uno sport molto diverso dal football o dal basket stesso: qui devi stare nel box di battuta e hai una frazione di secondo di tempo per tentare di colpire una palla che ti arriva a 150 km/h, non è esattamente la stessa cosa che placcare un avversario o tirare un pallone a canestro”. 

Jordan è alto 1.96, e, in qualità di giocatore di basket nella lega professionistica più famosa (e ricca) del pianeta, era solito prendere l’aereo per le partite. Anzi, l’aereo privato dei Bulls. Non ci volle molto perché Jordan, evidentemente stanco di stare un po’ sacrificato per viaggi così lunghi, usasse la sua influenza affinché ai Barons fosse noleggiato un pullman versione extra lusso, più spazioso e dotato dei più avveniristici comfort, per darlo in dotazione alla squadra. Dopotutto, lui era o non era pur sempre Michael Jordan? La notizia che per fosse stato lui a regalare il mezzo alla squadra era priva di fondamento. 

Anche se erano davvero in pochi a prenderlo sul serio, se c’era uno che non aveva il minimo dubbio su quello che Jordan stava facendo era Michael stesso. Solo chi non ne conosceva l’etica lavorativa poteva metterne in dubbio l’autenticità dei propositi e, soprattutto, l’implacabile determinazione che ci avrebbe messo per dare, a quelle intenzioni, l’imprescindibile seguito dei fatti. Anche se non sarebbe stato certo facile. “Tutto quello che avevo fatto per migliorare il mio gioco nel basket – ricorderà poi Michael una volta tornato nel suo habitat naturale, fatto di parquet e di canestri – doveva essere cambiato per il baseball, dovevo ricostruire me stesso dalla testa ai piedi”. 

Non ci sono scorciatoie per diventare un buon battitore, ripeteva Jordan quasi meccanicamente a tutti coloro che lo assillavano di domande da quando, all’inizio della stagione, aveva incominciato ad indossare la sua tenuta da baseball. E che alle parole MJ avesse fatto seguire i fatti, era dimostrato dalle dichiarazioni di Mike Lum, l’istruttore di battuta che curava, come osservatore, la rete di minor-league della casa madre Chicago White Sox. Secondo quanto riportato ancora USA Today Baseball Weekly, questa era la versione di Lum: “So che parecchia gente non lo prende sul serio, ma se potessero stargli accanto e constatare la sua etica lavorativa, quelle persone cambierebbero idea. Lui si ferma sempre per un allenamento supplementare di battuta. Durante il ritiro primaverile era già al campo ogni mattina alle 7:30. Vuole imparare davvero”. E che fosse la pura verità c’era da scommetterci, perché, altrimenti, un multimiliardario come MJ avrebbe trascorso in altro modo le giornate, soprattutto alle sei di mattina. 

“Facevo ruotare una mazza di 34 once (poco meno di un chilo) 300-400 volte il giorno” prosegue Michael nei suoi ricordi di quello spring training camp. “Pur battendo con i guanti, avevo le mani piene di vesciche. Quando andammo giù in Florida per il ritiro primaverile, ero già là alle sei ogni mattina per lavorare con Walt Hrniak, l’allenatore di battuta dei White Sox. Battevo con Walt per un’ora o due, poi mi facevo l’intero allenamento e tornavo a finire la giornata sempre con Walt. Questa era la mia routine giornaliera in quel ritiro di primavera del 1994. Se nessuno credeva che lo stessi facendo seriamente era perché non potevano vedermi il sangue grondare dalle mani o trovarmi là in quelle sessioni di battuta delle sei di mattina”. Avviso per i più pignoli: non ci sono incongruenze d’orario tra le due versioni riportate (Michael dice le sei di mattina, Lum le sette e trenta), perché Michael si sottoponeva volontariamente a sedute supplementari di allenamento per cercare di colmare il gap che inevitabilmente si portava dietro rispetto agli altri giocatori. Sedute di allenamento extra alle sei di mattina: non l’avevamo già sentita questa, da qualche parte? Magari per un quindicenne che non ce l’aveva fatta a far parte della squadra varsity di basket del suo liceo? 

Michael era migliorato tantissimo ma avrebbe dovuto fare ancora parecchia fatica perchŽ si trovava ad affrontare, direttamente sul campo, le mille sfaccettature del gioco che magari, dalle tribune, ai semplici appassionati possono sfuggire, e doveva farlo contro dei professionisti. Come ebbe modo di dichiarare Michael dopo la sua parentesi sul diamante: “Ci sono tantissime cose che accadono nel corso di una partita di baseball che il tifoso medio non vedrà mai: le situazioni di battuta, i pitch count, quando e come aspettarsi uno slider, una curveball o una fastball, un two-seamers o un four-seamers, ricevere suggerimenti, leggere un pitcher dalla prima base, fare uno sliding . Era tutto nuovo per me. Mi mettevo sotto pressione perché volevo farcela, ma la vera bellezza di tutto quanto era che nessuno sapeva che cosa sarebbe accaduto, né Jerry Reinsdorf, né il general manager dei White Sox Ron Schueler, nessuno sapeva se avrei avuto successo oppure no”. Ai tifosi di Jordan, in ogni modo, interessava soltanto poter vedere il loro eroe più da vicino. Ormai, a partire dagli allenamenti di primavera in Florida fino ad arrivare alle partite con i Birmingham Barons, società satellite dei White Sox, della Double-A, durante la stagione dell’Arizona Fall League, i tifosi, entusiasti, non facevano che riempire gli spalti ed applaudire ogni minima mossa di Jordan. La franchigia di Birmingham, nell’Alabama, e le altre squadre della Southern League, la lega meridionale, grazie a Michael, infransero diversi record di affluenza e non sono in pochi a sostenere che la presenza di Jordan potrebbe addirittura aver preservato l’esistenza stessa della Arizona Fall League. 

Ma il fatto che Michael fosse l“, comunque, era finalizzato soltanto alla possibilità che egli potesse diventare, in un futuro ragionevolmente prossimo, un giocatore di baseball professionista. Non si pu certo dire, per, che le nude e crude cifre della sua unica stagione nella Double-A saltassero subito all’occhio: Jordan aveva battuto col 20.2%, con tre homers e 51 runs (corse, i punti nel baseball, nda) in 436 turni di battuta. 

Michael stava diventando un prospetto vero, perché era riuscito a battere col 26% nelle ultime quattro settimane della stagione, e a rubare 30 basi, utili per dare alla squadra la quinta posizione nella Southern League. 

Mentre in autunno giocava con i migliori prospetti del baseball pro, Michael stava facendo un altro grosso passo in avanti verso il suo sogno di giocare in major-league, arrivando a battere col 25.2%. Tutti gli osservatori, e tra essi magari qualcuno che all’inizio aveva riso, furono d’accordo nell’ammettere che, anche il solo riuscire a competere direttamente ad un così alto livello per entrare nei pro, sarebbe stata un’impresa incredibile per qualunque altra persona che non avesse giocato a baseball per una dozzina di anni. Ma non era una persona qualsiasi a farlo. Era Michael Jordan. 

Come fecero altri giocatori di minor-league, nel 1995 anche Michael si presentò al raduno primaverile, ansioso di incrementare le sue chances di diventare un giocatore di major-league. MJ aveva lavorato duramente durante la off-season per prepararsi alla campagna del 1995 ed era convinto che sarebbe stata quella la stagione per sfondare. Era una situazione da o la va o la spacca, insomma. Ma a spaccarsi, invece, fu l’intero movimento del baseball. 

Jordan, con ogni probabilità, dopo gli allenamenti di quella primavera si sarebbe ritrovato a Nashville, nella Triple-A, e molti esperti ritenevano che, se avesse continuato a compiere lo stesso tipo di progressi che aveva fatto registrare quando era un giocatore di Double-A, di sicuro, in settembre, se non addirittura prima, avrebbe ottenuto una chiamata. C’era per un nuovo ostacolo sulla strada di Michael, lo sciopero. 

Alcuni mesi prima, nell’agosto del 1994, infatti, i giocatori di major-league erano entrati in sciopero e la loro protesta non subì interruzioni durante le negoziazioni fra proprietari; e giocatori. 

Jordan rifiutò ogni commento sulla contrattazione collettiva, perché qualunque cosa avesse detto, viste la popolarità e la visibilità del personaggio, sarebbe stata strumentalizzata. Si concentrò invece sugli aspetti del suo gioco che necessitavano di tanti (forse troppi) miglioramenti, prima che si riprendesse a giocare. 

Ron Schueler, il general manager dei White Sox, invece, non si sarebbe dimostrato altrettanto reticente. Il management del baseball decise di giocare le amichevoli di preparazione di primavera sia con i giocatori di minor league sia con i cosiddetti replacement players, i giocatori di rimpiazzo, mentre la Players Association dichiarava che tutti i giocatori che partecipavano alle amichevoli di allenamento primaverili di big-league di fatto erano da considerarsi, a tutti gli effetti, come non aderenti allo sciopero. Jordan, come sempre, aveva un forte senso di appartenenza sindacale e, assieme ad alcuni tra i migliori prospetti di quell’anno, decise che sarebbe stato nel suo miglior interesse di lungo periodo non oltrepassare quella immaginaria linea di picchetto solo per giocare una spring training game con le riserve. 

Michael, a ragione, aveva scelto di non scegliere, cioè di non schierarsi, e continuava a negare seccamente di aver mai fatto, all’epoca, anche solo un pensierino al parquet. “Se devo essere sincero non ho mai prestato molta attenzione al basket, durante la mia parentesi nel baseball, e non ho mai pensato neanche che sarei ritornato. Potevo constatare i miei progressi e stavo incominciando a sentirmi a mio agio con il gioco. È vero, avevo battuto solo col 20.2%, a Birmingham, ma ero già arrivato al 25.9% nell’ultimo mese e avevo giocato bene nella Arizona Winter League. C’erano stati solo altri cinque giocatori che avevano avuto 50 RBI e 30 basi rubate nella Southern League del 1994 e, verso la fine della stagione, stavo incominciando a scoprire le mie capacità. Ma quando incominci lo sciopero, mi sentii come se mi avessero messo con le spalle al muro. Io dissi a Schueler che non volevo essere usato per attirare i tifosi nelle amichevoli di preparazione primaverili. Non volevo avere nessun ruolo nell’oltrepassare la linea di picchetto. Ma in ogni caso mi avevano messo in una situazione difficile. Io avevo una scelta ma i ragazzi più giovani non sapevano che cosa fare e si rivolgevano a me per un consiglio. Si sarebbero dovuti rifiutare di giocare in quelle partite rischiando così di essere messi nella lista nera dal management, o avrebbero dovuto giocare e rischiare di essere presi di mira dai giocatori? Mi dispiaceva per loro ma non sapevo cosa dire. Quando i White Sox mi misero nella stessa situazione, decisi di lasciare piuttosto che dare una mano ai proprietari”. 

Ai primi di marzo del 1995 Schueler comunicò ai giocatori di minor league dei White Sox, che si erano rifiutati di scendere in campo in quelle amichevoli di primavera, che potevano tranquillamente fare fagotto e andarsene. Dovevano cioè lasciare la casa madre di major league e finire alle varie società-satellite di minor league. Michael allora fece su la sua roba e si avviò verso la sua auto. 

Una settimana dopo, Jordan rilasci una dichiarazione nella quale annunciava ufficialmente che si sarebbe ritirato dal baseball. Michael era ben conscio che i suoi progressi sul diamante dovevano essere fatti con un ritmo abbastanza accelerato e sapeva che qualsiasi occasione di sciopero avrebbe potuto costargli cara compromettendo seriamente le sue possibilità di avvicinarsi al livello, da lui tanto agognato, della major-league. Quindi, dovendo decidere tra il farsi strumento in mano ai proprietari o ai giocatori per poi, una volta terminate le trattative e ripreso a giocare, magari restare in minor-league, be’, allora forse sarebbe stato meglio mollare tutto. E fu quello che Michael fece. 

Ma che bilancio si può trarre dall’intera vicenda? Al diretto interessato l’avranno chiesto milioni di volte, queste le sue conclusioni: “Come descriverei la mia esperienza nel baseball? La descriverei adesso nello stesso modo in cui la descrissi allora: ogni momento è stato pieno di passione. Mi ricordo che di tanto in tanto alzavo lo sguardo al cielo rimanendo sbalordito per quanto la mia vita fosse cambiata. Non avevo paura, provavo solo una calda sensazione. Non riesco a descriverne il senso esattamente, ma ora mi sembra come se avessi vissuto un sogno. Forse fu la presenza di mio padre che rese quei momenti così calorosi. Ho pensato a lui tutto il tempo e sapevo che lui era lì. Fu quasi come se ci ritrovassimo totalmente uniti, durante quel periodo”. 

Questo il pensiero di Michael per quanto riguarda lo struggente ricordo paterno, che fu presentissimo in quei pochi mesi sul diamante. Indimenticabili resteranno le immagini di quel 30 luglio, il giorno del suo primo fuoricampo, con tutto lo stadio in piedi ad applaudirlo e lui, commosso, che fa lentamente il giro delle basi, attimi di un’intensità emotiva che le parole difficilmente riescono a rendere appieno: “Fu un momento speciale, sentii che mio padre mi stava guardando dall’alto. E quando ci pensai davvero, lui era l“. Tutto ci che avevo raggiunto, era lui. Ci ho messo un po’ a capirlo e poi, quando sono riuscito ad accettarlo, a farmene una ragione, questo mi ha messo in pace con me stesso. [La parentesi nel baseball] è stata un’esperienza terapeutica e io ne avevo bisogno. Se tale non fosse stata non avrei potuto tornare a giocare a basket, oppure avrei avuto dei seri problemi ad accettare tutta una serie di cose”. 

Il fatto che ci potesse essere il solito approfittatore che tentò di lucrare sui sentimenti cercando di rivendere alle televisioni il filmato amatoriale di quei frammenti di un sogno, non deve guastare tutto. Il pover’uomo tir su non più di qualche dollaro con un’emittente locale che gli acquistò le riprese, ma l’emozione che Michael aveva vissuto gli sarebbe rimasta dentro per sempre. 

Forse, tecnicamente, hanno ragione i detrattori di Michael (ci sono, pochi, ma ci sono) e quella parentesi nel baseball può essere considerata un fallimento nel senso che Jordan non è riuscito là dove voleva arrivare, in altre parole a giocare come professionista nelle major-league. Ma dopo aver letto e riletto le sue parole non possiamo essere d’accordo con quelli che sono i professionisti, in servizio permanente effettivo, del bicchiere mezzo vuoto. 

“Tutti pensavano che lo facessi per divertimento, che non mi impegnassi – ha detto Michael davanti alle telecamere di mezzo mondo – Invece io mi stavo sforzando. Anche se non diventi bravissimo non significa che hai fallito, perlomeno ci hai provato. Io l’avevo fatto perché volevo mettermi alla prova ma anche per mio padre, perché lui mi aveva spinto a farlo”. Difficile dargli torto. 

Se invece vogliamo approfondire la questione del fallimento tecnico in senso stretto, allora bisogna ammettere l’evidenza ma vogliamo comunque precisare che la sfida era apparsa come assolutamente fuori dall’ordinario sin dall’inizio. Anche per uno che si chiama Michael Jordan. Che per non se la prese a male. Anzi. 

“I White Sox mi mandarono nella squadra di Double A di Birmingham nella Southern League – tira le somme un MJ finalmente sereno – in quello che finì poi per essere uno dei migliori periodi della mia vita. Stavo imparando, facevo esperienza col gioco e, allo stesso tempo, insegnavo ai ragazzi più giovani come gestire certe situazioni. Loro volevano sapere tutto di me e io volevo conoscere tutto quello che loro sapevano sul baseball e in quel modo ci stavamo aiutando l’un l’altro. Mi assicurai che avessimo un pullman migliore, la squadra doveva migliorare le proprie condizioni di viaggio durante le trasferte, per ragioni di sicurezza; e quando andavamo fuori a mangiare, la gran parte delle volte toccava a me offrire. Ero davvero felice di far parte della squadra, c’erano un sacco di cose che mi facevano stare bene. Il cameratismo, in confronto alla NBA, era incredibile. Facevamo le cose in gruppo, cose piccole, come andare a pranzo. Tutto era più puro, più genuino. Anche i rapporti avevano una purezza e un’innocenza intrinseche. Non cambierei nulla di quell’esperienza”. 

MJ aveva tuttavia ancora in piedi un’opportunità nella pallacanestro: l’offerta per presentarsi agli allenamenti con Chicago e poter lavorare con la squadra era sempre valida. Dopo aver appeso le scarpette chiodate e fatto ritorno dalla Florida a metà marzo, Michael incominciò a presentarsi varie volte al centro di allenamento dei Bulls. I media erano tornati a pullulare – rito che sembrava scomparso dopo l’uscita di scena dal basket di Michael – tornando a stiparsi al Berto Center giorno dopo giorno fino al fatidico 18 marzo 1995. Altra data storica. Quello fu il giorno in cui Michael pronunci (o meglio invi via fax dall’ufficio del suo agente David Falk) quelle due paroline che i tifosi dei Bulls e gli amanti del basket di tutto il mondo volevano sentire: “I’m back!”. Sono tornato! 

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