STORIA SENTIMENTALE DEGLI INDIANA PACERS
Bignami robusto, doveroso, sull'odissea della franchigia sorta nello Stato dove il basket ha qualcosa di mistico.
L'ABA, l'NBA.
Il Rajah, Reggie, Tyrese e mille altre storie.
"Una favola, nello Stato della palla con estro, che si incrocia a volte con la tragedia greca.
La storia sentimentale degli Indiana Pacers sta tutta qui."
di Simone Basso
Sport e cultura, giovedì 26 giugno 2025

17.000$. PLUS 2000$ AND A CAR FOR A YEAR
Questa storia inizia nella primavera del 1967.
L’ABA cominciava, come sarebbe finita (...), nel caos: dieci proprietari, imprenditori, dell’Indiana decisero di fondare una franchigia di pallacanestro.
La chiamarono, omaggiando la 500 Miglia e la tradizione automobilistica dello Stato, Pacers.
Il resto venne al pari di un magma, seguendo un piano che non esisteva (sigh): era e sarà l’anima dell’American Basketball Association. La lega che, senza saperlo, si inventò il basket (post) moderno, dentro e fuori il parquet.
I due che comandavano, i fratelli Chuck e John DeVoe, scelsero l’avvocato Dick Tinkham (owner di minoranza) che pensò alla sua esperienza nei Marine Corps; laddove era diventato amico con Mike Storen, business manager dei Cincinnati Royals (oggi Sacramento Kings) e dirigente dei Baltimore Bullets (oggi Washington Wizards), e lo assunse come GM.
Avrebbe provato lui a costruire, da zero, una squadra.
Il primo nome che Storen propose come giocatore, un certo Roger Brown, era sconosciuto a Tinkham e a John DeVoe.
La vicenda del Rajah meriterebbe un romanzo, noi gli dedicammo un articolo.
Brown lavorava in una fabbrica della General Motors a Dayton, nell’Ohio, per 114 dollari la settimana.
Squalificato a vita dalla NBA, per una storiaccia su degli incontri truccati nel college: Roger, un pollo e una delle vittime, Jack Molinas, il diavolo e il carnefice della situazione.
Il Rajah, leggenda dei campetti e dell’high school a New York, era stato segnalato a Storen da Oscar Robertson, mica pizza e fichi: ci aveva giocato, insieme e contro, in un torneo estivo.
Brown era fuori forma, arrabbiato (deluso) col mondo, rimaneva un’iradiddio col pallone in mano, un fenomeno.
Trattarono sul prezzo: 17.000 dollari l’anno, 2000 di bonus, un’auto a noleggio e per la moglie un posto di lavoro.
La firma, nel retrobottega di una gioielleria di Indianapolis.
L’ufficio (?) del front office consisteva in una scrivania e un telefono.
Il primo contratto di un cestista ai Pacers è – al 2025 – ancora il più importante nei 58 anni di odissea della franchigia.

IN 49 STATES IT’S JUST BASKETBALL. BUT THIS IS INDIANA
Mica facile piantare una realtà professionistica, di valore, nel bel mezzo dello Stato che in ogni luogo più ribolle di pallacanestro.
Campetti, AAU, licei (una follia pop il torneo statale), NCAA.
Nell’Indiana il basket è un linguaggio universale, un brodo culturale che unisce periferie e città, crea Mister Basketball – con lo chassis atletico del lattaio del quartiere – alla Steve Alford e Damon Bailey.
Ha reso possibile il culto di Bob Knight e si idealizza, come visione tecnica del giochino, in dioscuri come Oscar Robertson e Larry Bird.
Laggiù tutti hanno giocato e, quindi, tutti si sentono allenatori e sono appassionati e tifosi.
Lasciando stare un bel film(etto) come “Hoosiers”, colmo di leggende metropolitane e di balle: perché sporcare una bella storia con la verità?

DYNASTY. THE BOSTON CELTICS OF THE ABA
Dopo Roger Brown, il più grande giocatore americano a non aver giocato un minuto nella NBA, arrivano – in serie – Freddie Lewis, Bob Netolicky, Mel Daniels.
Il primo allenatore, Larry Staverman, fu licenziato da Storen dopo 9 partite della seconda stagione, al suo posto subentrò Bobby Leonard.
In un anno e mezzo, Mike aveva edificato la più forte squadra dell’ABA, i Celtics del campionato dei fuorilegge (...): nell’aprile del ’69, Storen si comprò – con l’aiuto decisivo di John Y. Brown Jr (l’uomo della catena KFC e Governatore) – i Kentucky Colonels.
Prima del Natale 1969, John McVoe (34 anni) morì d’infarto.
Quei Pacers giocavano la palla con estro, quella giusta, che piaceva a Slick Leonard, uno che amava il basket essenziale, latte, miele e gomiti appuntiti.
Slick, all’intervallo, negli spogliatoi, si faceva due tiri (...) con le Marlboro di Brown e Netolicky, che fumavano mentre sorseggiavano un tè caldo.
Leonard, nel regolamento interno della combo, aveva imposto una multa a chi, in panchina, non si fosse alzato durante una rissa sul campo.
Daniels era l’enforcer, la guardia del corpo del Rajah: centro undersized di 2,05, rimbalzista galattico, agonista feroce.
Nel 1969, era arrivato a mo’ di pacco-regalo dopo il ricollocamento in Florida dei Minnesota Muskies, come Miami Floridians: fu subito MVP dell’annata, una macchina da doppia-doppia (24 punti e 16,5 rimbalzi) di media e blocchi.
Lewis, una sorta di combo-guard, il collante che si muoveva nelle pieghe dell’incontro.
Netolicky, cavallo pazzo, un "4" con le mani da "3" e il jumper educatissimo dal mid-range.
Una sera – freddissima, neve e ghiaccio fuori – a Duluth, Pittsburgh, andò sopra di 20 all’intervallo.
Neto stava giocando di m***a, Slick prese un bastone da hockey in uno sgabuzzino dell’arena e chiese dove fosse Bob: Netolicky era seduto sul cesso.
“Figlio di puttana. Ti ammazzo!”
Leonard distrusse il bastone, picchiandolo contro la porta del gabinetto.
Nel secondo tempo, rimonta Indiana con Neto a 26 e 19.
Erano tosti, arroganti, giocavano insieme e poi c’era il Rajah.
Quando scrivemmo quel pezzo, consultammo un po’ di archivi dei (vecchi) quotidiani americani.
Una dozzina di report sui match, su un campione-bonsai e a casaccio, testimoniavano di una giocata vincente di Brown nel clutch.
Il Rajah era almeno trent’anni avanti al suo tempo.
Diciassette secondi alla fine, sotto di 2 contro Kentucky: Brown pretese la palla, si spostò sul lato sinistro, due palleggi in entrata; step-back guardando la linea da tre, fade away da quasi otto metri, sirena, canestro.
Valeva Larry Bird, Michael Jordan, quelli là, ma lo sapevano solo quelli che andavano all’Indiana State Fairgrounds Coliseum e alle partite ABA.
Uno-contro-uno, palleggio, arresto e tiro (su una monetina), facilitatore, playmaker, go-to-guy.
Il primo anello arriva nel 1970, Indiana opposta ai Los Angeles Stars di Willie Wise: sopra 2 a 1, in gara4, il Rajah entrò in una dimensione abitata da pochissimi (eletti).
53 punti (33 nel secondo tempo), 13 rimbalzi e 6 assist.
Gara-5, persa al supplementare: 39, 13 (7 offensivi) e 8.
Il titolo, la vernice per una squadra pro' dello Stato, giunse con un’altra sfuriata delle sue: 45 punti (7 triple), 11 rimbalzi.
Il tiro della staffa lo fece Lewis, a 18 secondi dalla fine, dalla mezza: due giorni dopo, a Indianapolis, mille persone accolsero i Pacers all’aeroporto.
Cinque finali, tre stendardi di campioni ABA, in sette anni.

THE TUNNEL OF LIFE. ABA-NBA MERGER. SAVE THE PACERS TELETHON
Nel 1974, i Pacers inaugurarono la Market Square Arena.
Brown, con un ginocchio kappaò, e Daniels finirono ai Memphis Sound: polvere di stelle.
Nel ’73 l’ultima parata, dopo 7-incontri-7 sul filo con i Colonels (forti forti) di Artis Gilmore, Dan Issel e Louie Dampier.
Si era aggiunto del sangue nuovo, il tiramolla Darnell Hillman e soprattutto George McGinnis, ma a decidere una classica gara-7 (brutta, sporca e cattiva), alla Freedom Hall di Louisville, fu la difesa – tecnica e cuore – del veterano (il grande) Gus Johnson su Gilmore.
McGinnis si stava prendendo la squadra, sulle spalle (larghissime), considerando il declino (fisico) del nucleo storico.
Big George, un’alona straripante (e dominante), col tiro in esitazione a una mano, aveva uno stile pre-LeBronesco: che ci crediate o no, nel ’75, un po’ di giemme avrebbero preferito lui a Julius Erving..
McGinnis – erculeo – portò ancora alle Finals i Pacers: 8 triple-doppie, un trentello, 14,3 rimbalzi, 6,3 assist, 2,6 recuperi di media, in regular, e l’MVP.
Nella postseason alzò ancor più il volume – un 42-24-9, un 51-17-10 agli Spurs, un 40-23-8 nella gara-7 in trasferta a Denver – e ci vollero quei Colonels e le trap studiate da Hubie Brown per limitarlo (a 27,4 e 14,3...).
Pochi mesi dopo, McGinnis accettò l’offerta dei Philadelphia Sixers e a quei Pacers – con Don Buse e il panterone Billy Knight – non rimase molto.
L’ABA morì nel 1976, uccisa dalla mancanza di un contratto televisivo nazionale, decente, e dall’anarchia imprenditoriale che ne caratterizzò il suo (folle) percorso.
Non avevano protetto, col copyright, nemmeno l’iconico pallone bianco, rosso e blu.
Indiana, delle quattro sopravvissute a fare il salto nell’NBA, si salvò – dalla sparizione – per un cavillo: furono i Chicago Bulls a impedire che entrasse Kentucky, poiché aveva i diritti di scelta dell’All-Star Gilmore.
Il contratto d’accesso fu un bagno di sangue: 3.200.000 di tassa per entrare, qualche denaro alle (due) franchigie escluse e 4 anni senza ricevere i soldi dalla tivù nazionale.
Nel ’77 Indy era al collasso, finanziario, e fu una donazione di 100.000 dollari, da parte di un gruppo d’imprenditori locali, a farla sfangare fino a giugno.
Se non avessero venduto almeno 8000 abbonamenti, per il 1977-78, la franchigia sarebbe stata messa in vendita e collocata altrove.
WTTV, il canale televisivo che diffondeva le partite nell’Indiana, ideò un telethon per “salvare i Pacers”.
Il 4 luglio 1977, 10 minuti prima che si concludesse la maratona catodica di 16 ore e mezza, fu comunicato l’abbonamento numero 8000: grazie a quell’iniziativa, se ne vendettero 10.982.
Per un lustro, Indiana non sarebbe andata ai playoffs, dal ’77 al 1986 ci partecipò una sola volta (2 partite perse coi Sixers).
Nel 1981, per acquisire i servigi di Tom Owens, visto a Fabriano nella gloriosa Spaghetti League, il management cedette la pick del draft 1984 ai Portland Trail Blazers: in virtù del peggior record dei Pacers a Est, sarebbe diventata la seconda scelta assoluta.
Considerando che gli Houston Rockets presero Hakeem (allora scrivevamo Akeem) Olajuwon, la lista dei prospetti vantava Michael Jordan, Charles Barkley e John Stockton.
Un disastro, quasi quanto la media di 4601 spettatori nel 1982-83.
Un no-contest, se paragonato all’immaginario della Indiana University, del Generale Knight, al jumper dall’angolo di Keith Smart che – nel 1987, contro Syracuse – diede (agli Hoosiers) il titolo NCAA.

REGGIE! LARRY IS BACK HOME. MALICE AT THE PALACE
Il secondo attore protagonista di questa novella è un californiano di Riverside: Reggie Miller, fratellino di Cheryl, la più famosa cestista americana del '900.
Da UCLA, con furore (e trash-talking), deludendo molti tifosi degli Hoosiers e dell’idolo statale Steve Alford.
Una off-guard, sovradimensionata (2,01) per il ruolo, ossuta, che nascondeva – a fatica – una cazzimma pari quasi all’efficacia del suo tiro in sospensione, con le braccia altissime, stese, che scoccava da distanze – allora – inconsuete.
I suoi giri dietro i blocchi, i catch-and-shoot, le triple scagliate da downtown, le zingarate nell’area colorata, i canestri-clutch, rappresenteranno un’èra di riscatto per Indy, con tre sliding-doors che decisero le sorti da contender.
Nel 1988, il draft portò Rik Smits, un centro (olandese) d’ingombro col j automatico dai quattro metri.
Donnie Walsh, il boss del front office, sacrificò il mitragliere Chuck Person, scambiò il Bird (tedesco) dei poveri, Detlef Schrempf, per il jolly difensivo Derrick McKey.
Nel 1993-94, con Larry Brown a dirigere dal pino – si, il coach di quei Colonels... – Indiana salì di livello.
Quarantasette vittorie, lo sweep agli Orlando Magic di Shaquille O’Neal nella mini-serie e quel momento durante le finali Est contro i Knicks di coach Pat Riley.
Gara-5, 2 a 2, sotto di 15 nel quarto periodo, Miller fece 25 punti (39 in totale), 5 triple, per vincerla, mimando il gesto del choking (soffocamento) a Spike Lee e al Madison Square Garden intero.
New York vincerà in sette, Indiana diventerà da piani alti, per un decennio.
Quella combo tosta, realizzerà il suo potenziale con un altro Larry come coach: il figliol prodigo da French Lick, Bird, silenzioso e carismatico, tirerà fuori il meglio dal gruppo.
Arricchito dalle mani d’oro di Chris Mullin e Jalen Rose, dalle visioni in post e in palleggio di Mark Jackson, dalla fisicità e dalla durezza dei Davis (Dale e Antonio).
Nel ’98, per un quarto d’ora warholiano, sembrarono (poter) chiudere – di giustezza, allo United Center – la saga dinastica dei Bulls; che si salvarono, con l’esperienza e le maniere forti, le rodmanate: Chicago tirò dal campo col 38%, ai liberi col 58% (Jordan 10/15, Pippen 5/9...), ma sotto le plance (50 rimbalzi, 22 d’attacco, contro i 34 complessivi d’Indy) fecero l’88-83.
L’anno dopo, i Pacers trovarono una nuova casa, quella di oggi: la Conseco Fieldhouse (nel 2011-21 abbinata Bankers Life, poi con l'attuale Gainbridge, ndr), disegnata e ispirata – un unicum nell’architettura sportiva delle arene americane – a una struttura del basket liceale e universitario.
Il 2000 issò la banda-Bird alle Finals, contro i Los Angeles Lakers (Shaq, Kobe Bryant, ancora Phil Jackson...) in rampa di lancio.
Il 2 a 4 chiuse quella fase, con Larry Legend che si ritirò: sarebbe tornato ma come Presidente, nel 2003, trovando una situazione – in divenire – confusa e felice.
Miller maestro venerabile, a spiegare il verbo della franchigia, e un nucleo giovane, messo su (da Isiah Thomas nella doppia veste allenatore, executive) facendo casino (...) tra scelte e scambi.
Bird licenziò Isiah dopo cinque minuti e promosse l’eccelsa mente cestistica di Rick Carlisle come capo allenatore.
Con Reggie, Jermaine O’Neal, scippato a Portland in un giro a tre per Dale Davis e un cocainomane (Shawn Kemp), un califfo che giocava "5" con il dinamismo di un "4" e il tiro di un "3", attacco e difesa.
Ron Artest dal Queens, un’ala a quattro ruote motrici che poteva difendere su (quasi) ogni ruolo, un intimidatore con 18-20 punti nella gerla.
Un altro figlio di New York come play e point, Jamaal Tinsley, e il microonde offensivo Al Harrington.
61-21, capintesta 2004, si arresero in finale di conference, in una festa di deadball tipica degli anni Zero, ai Detroit Pistons di Larry Brown (ancora tu...).
L’attimo fuggente fu in gara-2, a Indianapolis, 1 a 0 Pacers: in una lotta nel fango, 69-67 Pistons a 20 secondi dalla sirena, l’appoggio in contropiede di Miller che venne stoppato da Tayshaun Prince, risalito con gli stivali delle sette leghe.
Eppure, via Harrington, dentro Stephen Jackson, l’anno successivo Indiana era ancor più uno squadrone da titolo.
Fino alla notte maledetta al Palace di Auburn Hills.
Indy (7-2) quella sera divelse, forte e cattiva, proprio i Pistons campioni in carica.
Sarebbe stata una statement game, se non fosse scoppiato il finimondo: a 45,9" di un incontro ormai finito, il 19 novembre 2004, esplode (e finisce) quella NBA.
Artest, con il radiocronista Mark Boyle che tenta di bloccarlo (cinque vertebre rotte, il risultato...), sugli spalti, alla caccia di chi gli gettò addosso una Diet Coke.
Gli spettatori, ubriachi, che scappano e lanciano oggetti e sputano contro i giocatori.
Jackson che aiuta Artest e tira un cazzotto a un tipo, il fratello di Rasheed Wallace (David) che colpisce Ron, da dietro, alla testa.
O’Neal che affronta due dei tifosi più esagitati, uno lo centra con un pugno alla mascella: non fosse scivolato un po’, su una pozza di birra, l’avrebbe ammazzato?
Paura e delirio al Palace: quei Pacers, fortissimi e cattivissimi, spirarono nella più celebre rissa dello sport americano.

COACHING GENIUS. TYRESE HALIBURTON AND THE HIGH FLYING OFFENSE. YES’CERS
L’asterisco è da mettere all’Indiana versione Paul George, all-around ghepardesco, che nel 2013 costrinse i Miami Heat di LeBron James a East Finals tiratissime.
C’erano pure Roy Hibbert, David West in quella combo: chissà come sarebbe andata, se George – in un’esibizione di Team USA nell’estate 2014 – non si fosse spezzato la gamba destra, in un incidente dalla dinamica raccapricciante.
Il trait d’union di questa storia, negli anni ’20 del nuovo secolo, è ancora Rick Carlisle; che tornò ad allenare Indy, nel 2021: con Kevin Pritchard, in poche annate, mette insieme i Pacers volanti di Tyrese Haliburton, il terzo attore protagonista di questa avventura.
Haliburton è una point, un play, speciale; che gioca nel flusso e lo determina, lo sviluppa, col suo ritmo (palleggio, passaggio, taglio).
Lo impone alla partita, compiendo gesti tecnici che sono, in teoria, proibiti dal manuale del gioco.
Quel gomito sollevato mentre esegue il jumper, passa la palla saltando.
Carlisle lo circonda di two-way disposti a ogni aggiustamento: il tuttofare Pascal Siakam, principe dei sottovalutati, muscolo cardiaco e un bell’arsenale dalla media, Myles Turner, stretch-5 che stoppa, il 4x4 Bennedict Mathurin, la qualità di Aaron Nesmith, la quantità di Andrew Nembhard e le missioni speciali di T.J. McConnell e Obi Toppin.
Un collettivo che gioca, di lettura e adattamento istantaneo e istintivo.
Transizione o metà campo, il Wilson tocca terra il giusto, pochi palleggi, più passaggi: l’High Flying O mostra cose mai viste, tipo il 67,1% dal campo nella gara-7 del secondo turno dei playoff ’23, contro i Knicks.
Febbraio 2025, scatta qualcosa (in più) dopo la pausa per l’All-Star Game: 20-9 e l’impressione che siano in missione.
Tyrese Haliburton pare posseduto dallo spirito di Roger Brown.
Con l’High Flying O, nel loro flusso, modificano l’inerzia dell’incontro continuando ad attaccare e a difendere.
337 passaggi di media, a incontro, in regular season.
Primo turno coi Bucks, gara-5, Pacers sotto 111-118 a -33,3" del tempo supplementare.
Secondo coi Cavs, gara-2, Cleveland avanti 119-112 a -48″.
Finali orientali, clamoroso al Cibali, i Knicks a -6’11” erano 111-94, prima della grandinata di triple di Nesmith.
Gara-1 delle Finals, Thunder 108-99 a -2’37”.
Tutte ribaltate da un canestro di Haliburton: nei playoff, cinque rimonte dal meno 15.
OKC, una portaerei costruita su un impianto difensivo devastante, aveva condotto la partita per 47 minuti e 59,7 secondi, prima del canestro da due di Haliburton.
“Mercati piccoli? Non ci sono superstar? Così torna al centro il gioco, che è l’unica cosa che dovrebbe interessare.” (Rick Carlisle)
Finali bellissime, le più interessanti tatticamente da eoni, contro una Oklahoma City cucita dal sarto (Sam Presti) per questo basket.
La produttività martellante dell’MVP Shai Gilgeous-Alexander, l’universalità della piovra Jalen Williams, l’unicorno Chet Holmgren, la classe operaia di Alex Caruso.
Gli Yes’Cers sono meno forti, ma non muoiono mai, perché Carlisle e Haliburton implementano uno 0.5 basketball, costruito su mille variazioni dello spartito, i giochi a tre che diventano a cinque.
Sprint, space, cut, roll, screen, switch.
Non si basano (solo) sul Pace, ma sull’attività (senza soluzione di continuità) dagli elbows.
Un’azione nella (trionfale) gara-6 alla Gainbridge Fieldhouse.
7’01” del primo quarto, canestro OKC: rimessa, 8 passaggi in 19 secondi, 3 ribaltamenti del lato, assist di Nesmith a Nembhard che finta su SGA, lo fa saltare, e piazza la tripla.
Primo vantaggio Pacers, 13-12.
Gara7 al Paycom Center, odore di zolfo dal salto a due: Haliburton, infortunato (consumato), pronti-via infila tre triple.
A 5’02” dalla fine del primo quarto, lo spirito di Roger Brown si dissolve.
Tyrese Haliburton si rompe il tendine d’Achille: se giochi col polpaccio stirato, può accadere.
Hali aspetterà a fine partita i compagni, in lacrime, all’entrata dello spogliatoio, con le stampelle.
Una delle Finals più significative dell’evo moderno, le più crudeli.
Una favola, nello Stato della palla con estro, che si incrocia a volte con la tragedia greca.
La storia sentimentale degli Indiana Pacers sta tutta qui.
Commenti
Posta un commento