CAPITOLO 2 - The Natural (del baseball)


«Il mio sogno è sempre stato quello di trovarmi sul monte di lancio a proteggere il vantaggio della mia squadra nell’ultimo inning.»
– Michael Jordan 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

Ben presto, al numero 4647 di Gordon Road di Wilmington, dov’è ubicata, in mezzo al verde e dall’altra parte della strada rispetto alla St. Paul’s Missionary Baptist Church, la graziosa villetta da middle-class dei Jordan, l'interesse principale diventa lo sport giovanile: nell’ordine, baseball, football e atletica. Si noterà l’assenza del basket, e non è una semplice dimenticanza. 

Come di solito accade in tali situazioni, anche in questo caso il più piccolo della cucciolata, non fa altro che seguire passo passo le orme dei fratelli maggiori, nella fattispecie James e Larry. Come ogni buon bambino nato sotto la bandiera a stelle e strisce, pure Michael ha come primo amore una palla, ma non quella grossa, arancione e a spicchi: la sua prima passione, che avrebbe poi avuto modo di coltivare a scuola, alla Odgen Elementary School, e di condividere con l’inseparabile amico d’infanzia David Bridgers, è il baseball. 

“Mike”, come veniva chiamato Michael a quell’età, e il diminutivo gli rimarrà fino al primo anno di università, è uno dei soli tre bambini neri della squadra e riesce subito bene come pitcher (lanciatore), scagliando due no-hitters nella Little League, il campionato per giovanissimi nel quale transita in pratica ogni bambino americano. 

I due “gemellini”, Mike e David, si alternano nel lanciare e nel ruolo di esterno centro in quella compagine che riesce a qualificarsi per i playoff del proprio distretto per poi cadere ad una sola partita dal traguardo delle World Series di Little League (Jordan lancia un two-hitter ma i suoi perdono per 1-0 nell’ultimo incontro). «Prima di ogni lancio, guardavo Mike al centro e lui mi alzava il pollice di in bocca al lupo» ha ricordato Bridgers. «Quando toccava a lui sul monte [di lancio], io facevo lo stesso». 

Sarebbe andata meglio, in seguito, nella Babe Ruth League. «Il mio ricordo d’infanzia preferito, la mia più grande impresa fu quando ottenni il premio di Most Valuable Player con la mia squadra che vinse il campionato di baseball dello Stato», confidò una volta Michael a Sam Smith del Chicago Tribune, prima che i rapporti tra i due s’interrompessero per causa di The Jordan Rules, il libro-scandalo scritto dal giornalista dopo la stagione NBA 1990-91. «Quella fu il primo grande traguardo che ho raggiunto nella mia vita, e ci si ricorda sempre della prima volta. Mi ricordo di aver battuto con oltre il 50%, di aver realizzato cinque fuori campo in sette partite e di aver lanciato un one-hitter che ci portò in finale». 

Era il 1975 e Mike aveva guidato la propria formazione alla vittoria nel campionato statale della sezione locale di quella lega. L’appena dodicenne Michael era già stato eletto, dalla Dixie Youth Association, “Mr. Baseball” dello Stato per le sue doti come lanciatore e interbase e, dopo che nelle annate precedenti era stato inserito nelle formazioni dei migliori, nel ’76, a 13 anni, fu nominato Dixie Youth Baseball Player of the Year in virtù di miglior giocatore di Little League. Per le sane abitudini è sempre bene incominciare da piccoli.

Se per tutta la sua fanciullezza il piccolo “Mike” sembra non aver particolari problemi, superata l’età della pubertà, il giovane Michael patisce un po' gli inevitabili cambiamenti portati dall'adolescenza. 

Sempre irrequieto, viene sospeso tre volte nel suo primo anno di liceo: la prima, pare, perché esce dal recinto della scuola durante la ricreazione per andare a fare due tiri in un campetto. O così almeno narra la leggenda, visto che la madre, che della vicenda ha un ricordo meno… tecnico, rammenta nitidamente che a 13 anni il suo discoletto era fuggito dal cortile della scuola saltando una lezione per andare con alcuni compagni a caccia di dolci e altro junk food assortito, al piccolo supermercato posto dall’altra parte della strada.

Come avrebbe ricordato la stessa mamma Deloris: “Il preside ci comunicò la sospensione di nostro figlio: e così io, invece di lasciarlo in casa a guardare la tv, lo portai con me in banca, ma lo lasciai chiuso in macchina con i libri. Non gli piacque per niente». Mamma Deloris aveva “dimenticato” di sottolineare che quella fu l’unica volta in cui fu costretta a dargliele (con la cintura dei pantaloni) di santa ragione, ma crediamo fermamente che non fu il dolore fisico a far capire a Mike che aveva sbagliato. Fatto sta che, dopo aver studiato per tutto il giorno, a quell’età una punizione implacabile per tutti i ragazzi del mondo, da allora Michael ha imparato a seguire le regole, prima degli amici. 

La seconda sospensione arriva quando Michael schiaccia un Popsicle, il ghiacciolo americano per eccellenza, sulla testa di una ragazzina bianca. L’insolita reazione era stata dettata dal fatto che la piccola provocatrice, dopo aver intimato a Mike di cederle il posto in autobus e vistasi opporre un secco rifiuto, prima gli aveva sputato in faccia e poi lo aveva chiamato «negro». Bisogna ammettere che la reazione del ragazzo fu fin troppo controllata in rapporto al comportamento della piccola serpe sotto forma di bambina.

Questo è stato uno dei rari casi in cui a Michael, che in genere si era sempre trovato a suo agio con persone di qualsiasi colore in virtù degli insegnamenti ricevuti, capitò di imbattersi in problemi di razzismo. 

Un altro di questi esempi gli era capitato quando, durante un pomeriggio estivo, mentre assieme al solito amico David Bridgers (come detto, di pelle bianca) andava in giro in bicicletta, ai due prese l’uzzolo di saltare nella piscina dei vicini (bianchi pure loro). I proprietari erano usciti, ma Bridgers conosceva la baby-sitter. Quello che non conosceva, però, era l’orario di rientro dei padroni di casa, i quali, neanche a farlo apposta, tornarono subito dopo. 

«Non appena videro Mike ci buttarono fuori tutti e due», avrebbe in seguito rievocato l’episodio Bridgers, «ma il resto della passeggiata in bici fu tranquillissimo. Io gli chiesi se sapeva perché ci avevano cacciato via e lui mi rispose di sì. Allora gli domandai se gli aveva dato fastidio e mi rispose di no. Poi sorrise e basta. Non lo dimenticherò mai. Mi disse: "Io mi ero rinfrescato abbastanza, e tu?” Michael mi ha insegnato tantissimo su come affrontare i pregiudizi. Io sono stato definito “amante dei negri” e “white trash", ma lui mi ha sempre saputo indicare come ignorarli. Una volta mentre andavo a trovare Michael per una festa a Chapel Hill, scoppiò una rissa per motivi razziali. Fu lui a portarmi via e anche alla svelta. Mike mi ha sempre detto: “Non stare a preoccuparti della razza finché qualcuno non ti ci fa sbattere il muso”. Lui è una persona talmente positiva… Ogni volta che lo vedo, sono al settimo cielo».

Il terzo e ultimo provvedimento disciplinare l’ultimo rampollo maschio di casa Jordan lo subisce infine per aver picchiato un ragazzo che, probabilmente per fargli un dispetto, gli aveva cancellato le righe del “diamante” della scuola che Mike aveva appena tracciato con tanto impegno. 

Nell’anno scolastico 1976-77, l’alunno Michael Jordan frequenta la D.C. Virgo Junior High School di Wilmington; lì il giovane studente – com’è prassi comune nella scuola americana – ha la possibilità di praticare a livello agonistico più discipline sportive: Mike decide di scegliere il baseball, il basket e il football (americano, of course). 

Le cronache di Mike adolescente alle prese con svariati sport lo riportano, infatti, come una sorta di precoce Bo Jackson. Per chi non lo sapesse, Jackson è stato, oltre che un campione di baseball e football, anche il protagonista di uno spot della Nike, per un po’ celebre in America ma mai trasmesso in Italia, che era in gran parte imperniato proprio sulle sue proverbiali qualità multidisciplinari. 

In precedenza vi abbiamo raccontato di come già a dodici anni Michael ci sapesse fare con palle “curve” o “veloci”, avendo accumulato esperienze come lanciatore, esterno centro ed interbase, ed essendo perfino riuscito a distinguersi come uno dei migliori giocatori di Little League. Adesso, oltre ai soliti due amori, basket e “batti e corri”, si cimenta anche con la palla ovale anche se a tali propositi la famiglia, preoccupata per l’eccessiva durezza degli scontri di gioco, sembra non reagire granché bene “consigliandogli” ben presto di lasciar perdere. 

Pure se risalenti a periodi diversi da quello trascorso alla Virgo, le “prove” fotografiche di Jordan ragazzino alle prese con altri sport che non fossero il basket sono tuttora conservate e mostrate – ma non commercializzate, per questioni di copyright – ai fan in adorazione presso il Cape Fear Museum di Wilmington. 

Alcune sono davvero “storiche”, come quella di lui dodicenne sul plate che impugna la mazza da baseball con un’espressione già precocemente feroce, le sopracciglia aggrottate dalla suprema concentrazione e in volto la maschera della trance agonistica; o quella che lo ritrae a quindici anni, in cui appare in completo da football con un insolito numero 83. Mike aveva iniziato ad appassionarsi al football incominciando a giocarlo al Cape Fear Park, un parco non molto distante da casa sua, e continuò a praticarlo fino al primo anno di liceo (nella seconda squadra), perché quello sport era troppo violento per i suoi gusti (e soprattutto per quelli della presentissima mammà).

In ogni modo, a Wilmington, antico porto dei Confederati, il baseball è ancora considerato uno sport “bianco”, mentre i neri giocano tipicamente a basket. O forse è più esatto asserire che essi vengono “visti meglio” se giocano a basket. Così, sebbene sia già una stellina, terminata la nona classe (equivalente alla nostra seconda media, cioè a tredici anni) Michael, che fino a quel momento aveva sempre sopportato il gelido silenzio di alcuni compagni di squadra (che era, come detto, virtualmente solo bianca) e, soprattutto, gli scherni dei razzisti dei settori popolari, incomincia a pensare sempre meno al “batti e corri” e sempre più alla pallacanestro. 

Non era stato tanto il suo senso di giustizia sociale quanto la sua incipiente, feroce competitività a spingere il giovane Jordan in mezzo a situazioni dalle quali altri avrebbero potuto tirarsi indietro per paura o imbarazzo, ma ormai in Mike si è insinuato il dubbio che indosserà ancora per poco l’amata divisa biancorossa dei Parkers. E la cosa non può che amareggiarlo, perché il suo sogno più ricorrente era «quello di trovarmi sul monte di lancio a proteggere il vantaggio della mia squadra nell’ultimo inning». 

Un sogno, quello di riprendere mazza e guantone per giocare nei pro, che un giorno, 13 anni dopo la sua ultima partita liceale di baseball, s’avvererà.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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