CAPITOLO 3 - Mio fratello è figlio unico
«Siamo cresciuti a forza di uno-contro-uno. Giocavamo parecchio, ogni giorno, e normalmente lo battevo, anche se l’ultima volta che ci siamo sfidati, lui non ha fatto altro che abbassare lo sguardo sui miei piedi dicendomi: “Ricordati di chi è il nome che porti scritto sulle scarpe”».
– Larry Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air" Jordan
© Rainbow Sports Books
© Rainbow Sports Books
Il Jordan quasi adolescente che si appresta a frequentare il liceo non ha molta voglia di cercarsi un lavoro e, per quel che può interessare, in quel periodo si rivela un fiasco con le ragazze.
«Tutti i nostri ragazzi dovevano sbrigare le faccende, ma talvolta a Michael veniva una delle sue lune storte e le faceva male apposta. Il che ci faceva impazzire. Era il più pigro di tutti: pur di non fare qualche lavoretto che gli assegnavo, rinunciava perfino alla paghetta in favore dei fratelli. Una volta lo scoprii mentre stava tirando fuori i suoi soldi per pagare altri bambini perché gli sbrigassero i “mestieri”. Quello mi mandò veramente in bestia” così ricordava il suo ragazzo papà James, commosso da tanto stacanovismo! Ma, diventato adulto, Jordan avrebbe almeno avuto la compiacenza di non negare: «Faccende domestiche? Lavori manuali? Da bambino per certe cose ero pigro – confessa, confermando i ricordi dei genitori – non ho mai falciato l’erba o svolto lavori pesanti. Un’estate mia madre mi disse: “È ora che ti cerchi un lavoro” e mi trovò un posto come addetto alla manutenzione in un hotel. Ma proprio non faceva per me. Non potevo fare le mie ore e basta, non ero io. Da allora in poi, non ho mai, mai più avuto un altro lavoro». Beato lui.
Il giovane Mike si vergognava talmente di fare quel lavoro, peraltro dignitosissimo, che una volta, appena tornato a casa, si rivolse alla madre dicendole: «Mamma! E se mi vedessero i miei amici? Il padrone mi ha mandato fuori sul marciapiede, a spazzare!». Che il giovane Jordan provasse tanta vergogna in un lavoro normalissimo come quello può apparire sciocco o immaturo, ma non è poi così difficile da capire. Vuoi per misteriosi retaggi culturali che talvolta contribuiscono a restringere l’apertura della mentalità di alcuni bros afroamericani, vuoi perché ogni esemplare maschio della razza umana vede tutto ciò che riguardi pulizie e faccende domestiche come veri attentati alla propria virilità, e, in ultimo ma non per ultimo, vuoi perché il ragazzino era appena qualcosa di più di una semplice promessa del basket, fatto sta che il diciassettenne Michael sarebbe stato disposto a fare tutto nella vita tranne il ragazzo di bottega in una locanda. Come dargli torto?
È proprio vero che la Natura, o chi per Essa, regalandogli il talento che sappiamo, ha dimostrato, almeno questa volta, d’essere perfetta. Perché, se così non fosse stato e se il nostro fosse nato in un ghetto, in uno di quegli immensi casermoni della disperazione che sono i projects delle metropoli americane, quel Michael Jordan qualunque, pur di avere un impiego con quelle che in America si chiamano regular hours, avrebbe probabilmente pagato di tasca propria.
Ma non vogliamo cadere nella retorica e ci limitiamo a ricordare un episodio che in un’occasione ha riportato sua madre Deloris: «Se gli aveste dato in mano una chiave inglese, lui non avrebbe saputo che farsene». Stando al racconto dell’aneddoto della chiave inglese fatto da Michael, quel tentativo di mettergli in mano lo sconosciuto utensile doveva averlo fatto suo padre, un uomo dalle mani d’oro per tutto ciò che concerneva le cose pratiche. «Mio padre era incredibile» ricorda Michael. «A casa mia non si portava a riparare mai niente. Se si rompeva il tostapane, lui lo aggiustava. Se all’auto serviva il cambio dell’olio o se bisognava tirare giù il motore per mettergli i pistoni nuovi, ci pensava lui. Ha incominciato mio fratello Larry ad essere portato per quelle cose e il mio fratello maggiore James (Ronald) aveva già iniziato prima di lui. Mio padre era molto paziente, tutte le volte provava a portarmi giù in garage per aiutarli. Una volta mi chiese di passargli la chiave da 9/16 e io gli risposi: “Che diavolo è la chiave da 9/16?”. La cosa lo faceva diventare matto perché io non seguivo le sue orme e non ero una persona portata per i lavori manuali».
Per quanto riguarda invece l’altra metà del cielo, sono dolori, soprattutto dopo la “buca” più sofferta seguita ad una cotta memorabile per una compagna di scuola, tale Angela West, alla quale Mike riservava invano il posto vicino al suo nello scuolabus. Forse per un paio di altri “due di picche” rimediati da compagne di classe che non vogliono saperne di uscire assieme a lui, di sicuro per le insicurezze tipiche dell’età ed aggravate dal suo aspetto fisico in fase di sviluppo (magrissimo, orecchie grandi e stranamente sporgenti verso l’esterno ma dalla parte del lobo, quindi non le classiche a sventola) e da un’innata timidezza di fondo nei confronti dell’altro sesso, il giovane Michael è talmente complessato e imbranato con le donne da autoconvincersi di essere destinato a rimanere scapolo. Ne è convinto a tal punto che a scuola s’iscrive a dei corsi d’economia domestica. Gli scopi delle “lezioni” sono quelli di imparare come si amministra e si gestisce una casa, a stirare, a lavare, a cucire, come si prepara da mangiare, a stare dietro ai conti di casa, e non sappiamo a quanto altro occorra nel curriculum del perfetto “massaio”, insomma tutto ciò che serve se alla bisogna…
Anche il liceo è una specie di sfida per Michael, ma non nel modo che avrebbe sperato. «Parecchi ragazzi se la prendevano con me, e lo facevano proprio di fronte alle ragazze» avrebbe dichiarato Jordan molti anni più tardi al mezzobusto televisivo Diane Sawyer. «Mi prendevano in giro per il mio taglio di capelli e per il modo in cui giocavo, con la lingua fuori, e per diverse altre cose. E le ragazze avrebbero… razza di…, beh, loro avrebbero riso di questo, e a quel punto ero spacciato. Non riuscivo ad ottenere un appuntamento con nessuna”.
Se solo Michael avesse potuto sapere allora che, un giorno, milioni di ragazzini si sarebbero rasati la testa per imitare il suo taglio di capelli e che avrebbero “allenato” la lingua a penzolare sul mento quando andavano in entrata a canestro! Ma ai tempi della high school, però, quelle prese in giro facevano male, e Michael incominciava ad avere paura di non poter mai incontrare una ragazza alla quale poter piacere. «Se c’era uno che aveva meno probabilità di avere successo nella vita, quello ero io» ha raccontato Michael a David Breskin, inviato di GQ Magazine. Presto le cose sarebbero cambiate.
Una cosa però appare subito abbastanza probabile, se non certa: da tutte le ricostruzioni biografiche che sono state fatte sulla giovinezza di Michael e da tutte le testimonianze riportatevi, sono autentiche balle spaziali le presunte storie che Mike avrebbe avuto al liceo con ragazze che, una volta divenuto famoso, si sarebbero spacciate come la «ex fidanzata di Michael Jordan al liceo». Un film già visto.
A parte queste amene preoccupazioni, la sua intrinseca competitività, che diventerà di lì a qualche anno semplicemente leggendaria, incomincia piano piano ad affiorare, fino a farlo trasformare in uno studente più tenace e in un giocatore migliore.
A quei tempi il giovanissimo Jordan gioca point guard, ruolo che aveva incominciato ad occupare in ottava classe, alla Trask Junior High, quando era allenato da coach Larry Boylan. Mike, come ancora era conosciuto in quel periodo, a sentire Boylan, era alto solo circa 1.59 m e quindi egli non poteva fare altro che schierarlo nella posizione di playmaker.
«Era una buonissima point guard, ma era molto basso – ricorda Boylan – parecchi suoi tiri finivano schiaffeggiati via. Vincemmo qualcosa come tre partite appena». Boylan tiene la sua point guard a passare la palla ai compagni per gran parte dell’anno, ma il piccolo Mike, pur paziente, incomincia a sentir crescere dentro di sé la frustrazione man mano che le sconfitte si vanno accumulando. «Una volta mi stancai e interruppi l’allenamento - è il ricordo divertito dello stesso coach - e gli dissi: “Va’ avanti e tira!”. Ecco come, probabilmente, vincemmo le tre partite che vincemmo».
L’anno successivo, però, Michael, quasi all'improvviso, scopre di saper volare (l'assenza di virgolette è d'obbligo). «Quando avevo cinque anni – ricorda ai giorni nostri l’erede dell’Uomo Volante per antonomasia, alias Julius “Doctor J” Erving – schiacciavo nei bidoni dell’immondizia stando carponi, aspettando il giorno in cui sarei stato capace di farlo davvero. Ed un giorno, poi, accadde. Ero un ninth grade, stavo giocando una partitella ed ero alto solo 1.72 m. In allenamento non ero mai andato così in alto, ma l'adrenalina scorreva e decollai quasi senza accorgermene. Successe tutto così velocemente da non esserne quasi sicuro, ma io adoravo già quella sensazione».
Anche se era reduce da un’ottava classe, come riferito dallo stesso Boylan che lo aveva allenato, in cui la sua squadra aveva vinto in totale solo tre partite, tutto faceva sembrare che le immediate prospettive della matricola Mike Jordan come prossimo point guard titolare della formazione junior varsity del liceo fossero più che buone. E questo soprattutto in considerazione del fatto che ci si trovava comunque di fronte ad un giocatore di JV, seppur capace di accumulare attorno ai 25 punti a partita, al suo primo anno e di appena 1.77 m.
Nella terra dei fratelli volanti
Se la nascita del miglior cestista di tutti i tempi nella Big Apple, città che respira basket puro fin da quando esso è stato inventato, sarebbe in seguito stata interpretata come segno del destino, che dire allora del North Carolina, terra d’origine del primo essere umano capace di volare “staccando” da oltre la linea del tiro libero? La Carolina del Nord è famosa nel mondo per essere stata testimone, nel 1903, per opera dei fratelli Wilbur e Orville Wright, del primo volo controllato della storia. Era “giusto” che fosse testimone anche dei primi voli del futuro “His Airness” e del suo “nemico”… fraterno, Larry Jordan, all’epoca il vero fenomeno cestistico di casa.
Nel 1977, mentre Michael, al suo primo anno di liceo, cerca di mettersi in luce nella junior varsity, suo fratello Larry, di un anno più grande, è, infatti, già diventato una star della varsity della Emsley A. Laney High School di Wilmington.
L’istituto, all’epoca di recentissima costruzione (cinque anni appena), è immerso nel verde e ubicato nella parte più settentrionale della città, proprio a due passi da quella Trask Junior High che Mike aveva frequentato in ottava classe. Il caratteristico muretto basso con su scritto il nome del liceo e posto invariabilmente all’ingresso della scuola è quanto di più americano ci si possa aspettare da un edificio scolastico pensato per il ceto medio di una cittadina rurale del Sud degli Stati Uniti.
Le origini di buona famiglia della middle-class non urbana del North Carolina cui apparteneva Michael s’intuivano anche da questi “dettagli”. Intendiamoci: non che nuotassero nell’oro, i Jordan, intanto però, nel rispetto delle loro (malcelate) ambizioni borghesi, erano riusciti, probabilmente con lo zampino di mamma Deloris, sempre molto attenta a queste cose, a non mandare i propri figli nella scuola “dove vanno tutti”, ovvero, nel caso specifico, alla New Hanover High.
New Hanover, però – ah, riscatto! –, per gli ovvi motivi dovuti alla maggiore vastità della base di reclutamento e, perché no, per quella “fame” che in certe situazioni è un propellente formidabile, in genere riusciva sempre a produrre le squadre di basket più forti, poggiando sulla consolidata tradizione cestistica che poteva vantare in ambito locale.
Michael, spinto verosimilmente, oltre che dalle amorevoli pressioni della signora Jordan, anche da una certa ammirazione per le prodezze compiute dal fratello titolare in prima squadra, decide di iscriversi al medesimo istituto. In più, come omaggio alle doti cestistiche di Larry e consapevole di aver ancora parecchia strada da percorrere per raggiungerlo, fisicamente prima ancora che tecnicamente, sceglie come proprio numero per la junior varsity lo stesso del suo “idolo”, il 45, sognando di emularne quanto prima le gesta agonistiche e di riuscire, un giorno, a giocare in quella tanto agognata formazione, la varsity.
Per il momento, però, tenete a mente questo numero: lo rincontreremo almeno un paio di volte, entrambe molto significative.
The Jordan Bros. Show
Larry, una futura guardia più bassa (da adulto non avrebbe superato i 172 cm) e tarchiata di Michael ma capace lo stesso di schiacciare in scioltezza, non avrebbe mai avuto una carriera “vera” a certi livelli, pur avendo militato nella USBL, una lega estiva minore americana, e per qualche mese (nel ’92) anche nella World Basketball League, il torneo riservato a giocatori di statura inferiore al metro e novantacinque.
Anche se oggi potrebbe essere difficile crederlo, all’epoca era Larry a battere Michael, e per di più con irrisoria facilità, e non il contrario. Come di prammatica in questi casi – milioni e milioni di ragazzini americani sono cresciuti e crescono così (accadde anche ai fratelli Mark, Mike e Larry Bird, tanto per fare un esempio altisonante) –, i due fratellini giocavano ore e ore di uno-contro-uno nel tipico backyard di casa; si tratta di quel retrocortile diventato immagine della ormai classica iconografia della casetta USA che prevede, nel retro, l’immancabile canestro appeso all’esterno del garage nel quale è quasi sempre parcheggiato il pick-up, il furgoncino scoperto.
Larry e Mike, Jordan non Bird, quasi tutti i giorni si “scannavano” in giardino in una competizione di alto livello, non solo dal punto di vista dell’intensità (quelle sfide erano diventate, a sentire i racconti che ne sono stati fatti, di una crudezza leggendaria) ma anche della valenza tecnica. Simili battaglie cestistiche, però, necessitarono ad un certo punto di un “teatro” più adatto all’epicità di quei duelli.
Fu così che, papà James, accortosi finalmente dell’importanza che il basket andava assumendo nei più giovani membri della sua famiglia, si decise a costruire, tutto per loro, addirittura un vero e proprio campetto in terra battuta, nel cortile dietro casa. Neanche a dirlo, essendo quello il solo surrogato di “playground” nei dintorni, o meglio la sua approssimazione più vicina, quel campo avrebbe attirato come api al miele tutti i ragazzini del quartiere. Non più un canestro scassato, ma un vero campetto (seppure con un solo tabellone)! Ciao libri…
Abbiamo già anticipato come, soprattutto agli inizi della loro “rivalità”, le quotidiane sfide tra Larry e Mike fossero vinte tutte dal primo, e pure a mani basse. Larry, dall’alto (si fa per dire…) dei suoi 170 centimetri, schiacciava abitualmente in faccia al fratello e, in virtù di un’accentuata differenza di corporatura che lo avvantaggiava in modo notevole, gli impartiva delle severe lezioni di gioco. E di botte.
In un fraterno – solo in senso letterale, chiaro! – spirito di competizione, né l’uno né l’altro si risparmiavano. Nessuno di due, com’è normale, ci stava a perdere. Prima cosa, si giocava duro e poi, alla fine, si poteva anche avere la peggio, ma solo dopo aver giocato alla morte. In genere, però, era sempre Larry a spuntarla e in Mike, che, oggi come allora, ha sempre detestato perdere, crescevano sempre di più una profonda frustrazione ma anche un sano spirito d’emulazione. “Ho imparato molto da lui dell’essere competitivo” avrebbe più e più volte ammesso MJ, riferendosi alle torchiate prese dal fratello maggiore.
“Siamo cresciuti a forza di uno-contro-uno. Giocavamo parecchio, ogni giorno, e normalmente lo battevo”, ama invece ricordare il Jordan meno famoso, “anche se l’ultima volta che ci siamo sfidati, lui non ha fatto altro che abbassare lo sguardo sui miei piedi dicendomi: “Ricordati di chi è il nome che porti scritto sulle scarpe””. Siamo certi che anche il lettore un po’ a digiuno di cose cestistiche abbia intuito la marca (e la relativa “firma”) delle calzature che in quella circostanza portava il “povero” Larry.
Ma se la prima affermazione poteva essere la comprensibile, orgogliosa versione del fratello meno dotato da madre natura di talento cestistico, l’altra campana poteva essere ben rappresentata da un giudice presumibilmente imparziale come Jordan senior. Il loro papà, infatti, non aveva dimenticato che “Quello che mandava Michael su tutte le furie era perdere sempre con Larry”. “Credo che sia diventato ipercompetitivo proprio giocando contro il fratello”, ebbe modo di aggiungere nella stessa occasione James Jordan.
Che questa non fosse solo una teoria del padre, che vedeva nella sana competizione familiare uno sprone a migliorarsi, ci viene testimoniato dallo stesso Michael, che aggiungeva: “[Larry] mi ha aiutato a crearmi una determinazione speciale, a credere che se potevo battere lui potevo fare lo stesso con chiunque. Poi incominciai a crescere e a migliorare e, vincendo contro di lui, mi convinsi delle mie possibilità”.
Che il Mike si sentisse un po’ in ombra rispetto alla fama di cui godeva il fratello più grande ci è testimoniato da quest’altro ricordo della sua infanzia: “Quando avevo dodici anni, mio fratello Larry e io partivamo titolari nel backcourt nella Pee Wee League, lui era il difensore e io il realizzatore. Quando segnai il canestro vincente, mentre tornavamo in macchina verso casa mio padre commentò: “Larry, che gran difesa hai giocato!” E io che dico: “Accidenti, io ho rubato palla e sono andato a segnare il sottomano vincente”. Tra me e me pensavo che mio padre evidentemente non avesse visto quello che avevo fatto, quindi dovevo descriverglielo”.
Finalmente, dopo circa un anno e mezzo di batoste, non solo tecniche ma anche e soprattutto fisiche, poco prima del suo anno da sophomore (il secondo), Michael cresce tutto ad un tratto fino ad arrivare al metro e ottanta. “Secondo me, Michael è diventato così forte perché Larry lo batteva sempre” rincarava la dose il signor Jordan “e lui non è mai stato uno che sapeva perdere. Ha incominciato a battere suo fratello solo quando ha iniziato a crescere per davvero. Era come se si fosse imposto di diventare alto”.
Ora l'equilibrio delle forze incominciava a spostarsi.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan
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