CAPITOLO 6 - L’arte del reclutamento: una conoscenza esatta


«I ragazzi che escono da North Carolina sono equilibrati e maturi. Là imparano a comportarsi e, innanzi tutto, a diventare uomini. Gli allenatori non si limitano a reclutare gli atleti, è come se ne reclutassero anche le famiglie, e l’ascendente che hanno sui ragazzi arriva anche a noi genitori».
– Deloris Jordan

«La mia sensazione era che Michael avesse il potenziale e le capacità per essere un giocatore da Atlantic Coast Conference. Si sapeva sarebbe diventato forte, ma non quanto forte. E di certo non si poteva intuirne all’epoca la grandezza».
– Bill Guthridge, assistant coach a UNC (1967-1997)

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

Siamo tutti d’accordo che nella vita è chi ti conosce davvero che fa la differenza. Ma vogliamo forse negare che quando sei agli inizi, in qualunque campo, a fare la differenza sia soprattutto… chi conosce te? Non stiamo dicendo «chi conosci», che è tutto un altro paio di maniche, soprattutto in Italia, ma semplicemente «da chi sei conosciuto». Stiamo solo cercando di far capire come talvolta, nella vita, il Caso o il Destino o chiamiamolo come vogliamo possa incidere in maniera determinante sul proseguimento dell’esistenza stessa. Per il junior Jordan tutto questo discorso si traduce in una partita, o forse sarebbe meglio dire la partita.

In quella sua terza stagione al college, infatti, c’è una gara in particolare, e precisamente quella contro la New Hanover High School, che serve a Michael come vetrina personale per mettersi in mostra. In quello che sembra un normale incontro di stagione regolare, Jordan, proprio davanti agli occhi “giusti”, si scatena. Verso quasi la fine del match, con New Hanover in vantaggio, quel fantastico giunco con la maglia numero 23 dei Buccaneers decide improvvisamente di assumere il comando: Michael esplode in attacco segnando gli ultimi 15 punti della partita, non soltanto della sua squadra, ma dell’intera gara. Cioè: con un parziale di 15-0 Jordan, da solo, batte l’intera New Hanover High.

Il fato vuole che, tra gli sbigottiti spettatori di quella, per molti versi, storica partita, ci sia un dottorando della University of North Carolina, tale Mike Brown , il quale, una volta fatto ritorno al campus di Chapel Hill, avrebbe, diciamo così, sussurrato a qualche orecchio “importante” che forse sarebbe stata una buona cosa andare a dare un’occhiata a quel ragazzino tutto pelle e ossa che proviene da Wilmington. Guarda caso, poco tempo dopo, coach Dean Smith spedisce laggiù un assistente (Bill Guthridge) per andare a controllare quel «certo Jordan» di cui ha tanto sentito parlare...

Incredibile ma vero, Jordan, all’epoca, dappertutto avrebbe voluto andare tranne che… da Dean Smith a North Carolina. Intendiamoci, Michael prova grande ammirazione per il Santone di Chapel Hill, è solo che ne non condivide la filosofia cestistica. Il basket giocato dai Tar Heels , secondo lui, permette ai biancoblù (blu-Carolina , per carità!) di “rubare” le partite sfruttando il loro collaudatissimo Attacco a Quattro Angoli. 

L'occupazione dei quattro angoli della metà campo avversaria consente a Smith, con i suoi in vantaggio, di gestire l’incontro facendo muovere la palla fino a che la difesa avversaria non mostra quella smagliatura che consente alla sua squadra di entrare nel varco e segnare. È un modo di giocare perfettamente adatto per quel college basketball che non doveva ancora preoccuparsi del limite di tempo per andare al tiro, ma al giovane Michael, artista di una pallacanestro tutta balzi, spettacolo e velocità supersonica, non può piacere. 

Jordan, che ha ben presenti quali siano le quattro grandi squadre delle sue parti (oltre a UNC, ci sono Duke, North Carolina-State (un gradino più sotto) e Wake Forest (qui i gradini sono forse un paio) si limita solo a manifestare le sue preferenze: lui tifa espressamente per i biancorossi Wolfpack di NC-State. Al di là del tifo, però, il brillante junior della Laney High ha un sogno nel cuore: continuare a vestirsi di gialloblù, stavolta però non intendendo i colori del liceo Laney ma della grande UCLA, la celeberrima University of California at Los Angeles.

Quando Michael è adolescente, non si è ancora spenta del tutto l’eco di quella straordinaria epopea dei Bruins che, a cavallo dei decenni Sessanta e Settanta, li aveva visti letteralmente dominare il mondo del basket universitario. Al Pauley Pavilion, l’impianto di gioco di UCLA, in quegli anni erano transitati due califfi del calibro di Lew Alcindor prima e di Bill Walton poi, e quelle squadre, sotto la sicura mano di coach John R. Wooden, erano state capaci di portare al sole della California ben dieci titoli in dodici anni . Appare perfettamente logico, quindi, che i giovani di allora vedano il naturale approdo dei loro desideri cestistici in quella che si sarebbe rivelata come la dinastia più dominante dello sport di college sicuramente e, assieme a quella, nella NBA, dei Boston Celtics di Bill Russell e di Red Auerbach, forse anche dell’intero sport americano. Michael non è diverso da quelli della sua generazione. 

E dire che Jordan ci prova anche concretamente a vestirsi della rinomata casacca con la scritta «UCLA» sul petto. Nell’agosto del 1980 , infatti, Michael, assieme al suo coach Clifton Herring, scrive una lettera all’allenatore del prestigioso ateneo, all’epoca Larry Brown, futuro collezionatore di panchine NBA, esponendogli di essere interessato ad essere considerato tra i possibili candidati per una athletic scholarship, la borsa di studio che viene assegnata per meriti agonistici (nel suo caso cestistici) agli student-athletes ritenuti più meritevoli, con l’intento, nell’eventualità, di beneficiarne nella stagione successiva al suo anno da senior, vale a dire per l’anno accademico 1981-82. 

Nel frattempo, per quanto sia bello volare con le ali della fantasia, è anche salutare tenere i piedi ben piantati a terra e così Mike, sempre dotato di quella sana concretezza ereditata dai genitori, e in particolare da sua madre, decide di coprirsi le spalle scrivendo anche alla University of Virginia, che, seppure ben lontana dall’aura di mito che circondava l’ateneo angeleno, presentava comunque notevoli vantaggi. Intanto, dal punto di vista puramente tecnico, la squadra era forte visto che stava assurgendo agli onori delle cronache per le prodezze compiute dalla brillante matricola Ralph Sampson , col quale Jordan, qualora fosse stato accettato da VU, avrebbe eventualmente potuto giocare due anni (mentre MJ avrebbe completato il suo quarto anno di liceo, la star dei Cavaliers avrebbe giocato il suo anno da sophomore). Inoltre, dal punto di vista logistico, Virginia non era troppo distante da casa e, infine, anche se può sembrare sciocco, ai piedi dei Cavalieri ci sono… le Adidas, e l’azienda tedesca, ai tempi sponsor tecnico di quella università, come vedremo più approfonditamente in seguito, sul Nostro ha da sempre un particolare ascendente. Anche quello che all’apparenza può essere considerato un insignificante dettaglio, quindi, avrebbe potuto influire.

Ma, ahilui, né a UCLA né a Virginia la richiesta fatta da Jordan e dal suo allenatore muovono particolari entusiasmi. Non si va oltre alla tradizionale lettera ciclostilata che le università inviano come risposta a coloro che si autocandidano senza che sia lo staff tecnico dell’istituto a cercare di reclutarli. Nelle poche righe destinate al numero 4647 di Gordon Road di Wilmington, si ringrazia il potenziale candidato per aver scelto il proprio college, lo si “illude” con infondate possibilità di sviluppi futuri e poi non ci si sente più, come in certe storie d’amore finite ancor prima di incominciare. Insomma, non è che un modo elegante per dire: grazie lo stesso, ma non ci interessi.

Per Michael, allora, le fatiche di ricerca prima, e di selezione poi, del college più adatto a lui non sono che agli inizi. L’unica consolazione, però, arriva dalla buchetta della lettere di casa, che di lì a breve necessiterà di un ampliamento: almeno a livello locale, infatti, c’è solo l’imbarazzo della scelta viste le oltre duecento richieste di recruiting, come si chiama in America quella sorta di fallibilissima “scienza” - che invece è tutto tranne che tale - del “reclutamento” (termine che stona, quasi paramilitare) dei migliori giocatori di liceo in procinto di andare all’università.

Inutile precisare che, in mezzo a quelle di qualche ottimo ateneo, ci siano anche delle richieste talmente improbabili da chiedersi come mai quegli istituti abbiano anche solo speso dei soldi per… l’obbligatoria affrancatura. Vi immaginate un Mike Jordan che, pur non essendo ancora noto a livello nazionale ma comunque con già in bacheca il trofeo come miglior giocatore del Five Star Camp, che decide di iscriversi a un misero Community College ? 

Michael e la sua famiglia, per raccapezzarsi in quel mare di richieste, decidono di fare la cosa più ovvia, incominciare a scartare quelle più ridicole. Spariti dalla scena CC e JC vari, non resta che mettersi pazientemente a valutare, richiesta per richiesta, quale sia la scelta migliore da compiere. Non contano, ovviamente, solo il nome dell’allenatore, la forza della squadra e la tradizione cestistica dell’università, o la serietà del suo program sia accademico sia agonistico, ci sono da considerare anche altri dettagli solo all’apparenza secondari, come la sede del campus, le strutture sportive di cui l’istituto è dotato e altre cose del genere.

Fra le prime bocciate è la proposta del preside della Emsley Laney, Kenneth E. McLaurin, che in un impeto di entusiasmo (e di bonaria invadenza) caldeggia al proprio studente la soluzione della Air Force, l'Accademia Aeronautica degli Stati Uniti, la stessa nella quale si era arruolato papà James. «È un’ottima scelta educativa» si sbilancia a tal punto da… cadere nella sponsorizzazione il principal del liceo frequentato da Mike. «E poi, arruolandoti, puoi sempre trovare un impiego sicuro». Michael però non è suo padre James (che la carriera militare l’aveva provata e poi mollata) o suo fratello Ronald (tuttora in carriera): a lui una divisa e soprattutto il sempre rigido codice di disciplina che caratterizza una qualsiasi arma sarebbero andati decisamente troppo stretti. E poi, fattore tutt’altro che trascurabile, non è che presso la Air Force il programma cestistico brillasse particolarmente per tradizione e livello tecnico. Quindi… 

A parte quello del suo preside, ci sono altri suggerimenti accademici, alcuni abbastanza esilaranti, che sarebbero poi entrati a far parte della leggenda jordaniana una volta che questi sarebbe diventato… se stesso. 

Fra questi è  risaputo il consiglio che la sua insegnante di matematica, Janice Hardy, diede a Michal invitandolo a… «darsi alla matematica, perché è lì che si fanno i soldi». Anni dopo la signora Hardy avrebbe cercato come di “riabilitarsi” scherzandoci su: «E pensare che gli avevo detto di studiare la matematica, perché avrebbe fatto i soldi. Adesso mi viene da ridere, e anche a lui, credo...». 

In Michael, allora, convivono sentimenti ed aspirazioni contrastanti. Oltre alla naturale avversione per il gioco “disciplinato” di UNC, Jordan è anche tanto attirato dal “nome” dei Tar Heels che, dando il benvenuto al compare Buzz Peterson, durante la seconda settimana del Five Star Camp, gli fa balenare la stimolante prospettiva di andare insieme a North Carolina, di diventare compagni di stanza e di vincere assieme un titolo NCAA (cosa, in effetti, poi accaduta realmente ma al tempo ipotesi di pura fantasia). 

Il richiamo per NC-State è invece forte perché per il Michael adolescente, che pure – secondo lo stesso Jordan maturo – non ha mai avuto “idoli”, è ancora accesa la passione per il grande David Thompson , una guardia-ala dall’incredibile fluidità di movimenti che, per quanto fatto vedere limitatamente alla sua carriera universitaria, ancora oggi viene unanimemente considerato il miglior giocatore ogni epoca (Jordan compreso!) della ACC, la conference in cui giocano i Wolfpack e gli stessi Tar Heels.

Prima di addentrarci nel cuore del laborioso iter che porterà Jordan a North Carolina può essere utile fare una breve panoramica su come funziona il non sempre trasparentissimo mondo delle borse di studio per meriti agonistici; analizzare le procedure per la loro assegnazione e cercare di illustrare i meccanismi di quella che ormai è considerata come l’“arte” (si fa veramente per dire) del reclutamento: in una parola, il sistema che consente ai college di…, come dire, “darsi da fare” per avere i talenti migliori. 

Tralasceremo qui l’altrimenti inevitabile descrizione della rete di contatti, sotterfugi, spionaggio e controspionaggio che c’è dietro l’accaparramento di ogni potenziale stellina liceale. 

Quello che accade (spesso solo in apparenza) è questo: esclusivamente nei periodi consentiti gli atenei possono rimborsare le trasferte della durata di un intero weekend (fino ad un massimo di sei visite, una per ogni college) a gruppi di prospetti liceali che lo staff tecnico di quella data università ritiene di interesse per la propria squadra. 

In quella circostanza, la visita al college prescelto o dal quale si è stati invitati, al giovanotto di belle speranze (cestistiche) viene data la possibilità di visionare gli impianti e le attrezzature sportive – normalmente il vanto di questi atenei –, di familiarizzare con gli allenatori, gli insegnanti e, il più delle volte, le squadre, oltre che l’opportunità di rendersi conto di quella che potrebbe essere l’eventuale sistemazione logistica (collegi, aule, mense, biblioteche, quest’ultime notoriamente sempre molto apprezzate, eccetera) degli studenti.

Quando lo studente ha deciso il college che vuole frequentare, spedisce all’ateneo quella che si chiama Letter of Intent, non serve la traduzione per capire che è una dichiarazione autografa secondo cui lo studente si impegna a pre-scegliere quel dato college, che poi si riserva di concedergli la tanto sospirata athletic scholarship. 

Questo, però, come abbiamo già detto, è ciò che appare sotto la luce del sole, perché, come se si trattasse di un iceberg, ciò che si vede dell’ipocrisia del sistema su cui si basa l’intera attività dilettantistica universitaria USA non è che un terzo (quando va grassa) del totale; i due terzi, quelli “sommersi”, sono un mondo (di violazioni) a parte, ed è lavoro quotidiano delle commissioni investigative della NCAA (e di certe firme del giornalismo sportivo particolarmente attente alla questione) quello di cercare di portarli in superficie . 

Per quanto riguarda il caso di Jordan, dal punto 5 della lettera di intenti che egli stesso firma il 17 marzo 1981 e indirizza alla University of North Carolina, si evince che vige per lui l’obbligo tassativo di non firmare quella stessa lettera prima della fatidica data del 15 marzo. Ma si scopre l’acqua calda quando si afferma che naturalmente tutto si è deciso ben prima di quella scadenza.

Torniamo allora a dove eravamo rimasti e cioè alla fine di quella estate 1980 che tanto avrebbe influito nella scelta del futuro, sia quello più immediato sia quello più lontano, del quasi senior Jordan.

Tra settembre e ottobre, tra le tante lettere piovutegli dai più svariati college, ce ne furono alcune di un certo “peso”. Prima fra tutte quella, datata 4 settembre, di Bobby Knight che, per conto della sua Indiana University, si era messo in contatto con Mike scrivendogli personalmente e comunicandogli di come si fosse divertito nel vederlo giocare in quell’ormai arcinoto Five Star Camp del luglio precedente. Knight aveva approfittato di quelle poche righe anche per sondare il terreno esortando Michael, se interessato ad entrare a far parte dei celeberrimi Hoosiers , a compilare e rispedire il questionario allegato. Tanta fretta, evidentemente non era casuale, ma questa volta il vulcanico Bob, che evidentemente aveva fondate preoccupazioni che qualcuno gli portasse via quel ragazzo così interessante, non poté far altro che aspettare. A vuoto. 

Altro grosso nome, perlomeno dal punto di vista strettamente cestistico, che suonò familiare a casa Jordan in quel periodo fu quello della University of Maryland. Il 18 agosto il coach dei Terrapins, Lefty Driesell, e il suo fido assistente, Tom Abatemarco (improbabile che le sue origini siano state di matrice anglosassone), che si occupava più direttamente del reclutamento, invitarono Michael a visitare il loro campus. 

Invito che Jordan accettò prontamente, dato che fu proprio Maryland il primo college che avrebbe visitato appena tre settimane dopo, dal 5 al 7 settembre. L’impressione che ne ricavò Michael fu buona, nonostante il pressing martellante effettuato a colpi di lettere (un’altra ad appena due giorni dalla visita) dal tono quasi indisponente di quel drittone di Abatemarco, che aveva incominciato ad adocchiare Jordan fin dal Five Star Camp. L’assistente allenatore dei Terps, da buon paisà, pur di avere qualche chance di portarlo in Maryland, aveva battuto parecchio sul tasto della relativa vicinanza col North Carolina, ma Mike non si era fatto mettere fretta. Consigliato anche da coach Herring, che gli aveva fatto capire come fosse troppo presto per prendere una decisione definitiva, Michael non si era sbilanciato molto, anche se più di un segnale aveva fatto capire all’assistente allenatore dei Terps che la scelta finale sarebbe uscita dal “ballottaggio” fra la stessa Maryland e North Carolina, sponda, naturalmente, Tar Heels.

Il campus di quest’ultima venne “visitato” per secondo, e lo scriviamo tra virgolette perché, pur con tutte le differenze del caso, per Michael, l’ambiente di Chapel Hill, non poteva essere una novità, dato che vi era già stato appena due mesi prima per partecipare al camp del santone del college basketball (non solo) nordcaroliniano, Dean Smith. 

Il giorno tanto atteso per (ri)visitare UNC fu il 28 settembre. Inutile dire che Mike ne rimase inevitabilmente incantato – e chi non lo sarebbe stato, visto il campus che si ritrovano i Tar Heels –, e lo fu tanto che, visitando i collegi di Chapel Hill, si sentì talmente a proprio agio che quasi gli sembrava di essere come a casa. Jordan si vedeva già addosso la splendida divisa biancoceleste dei Tar Heels con un bel numero 23 stampato sopra.

Anche mamma Deloris, che pure aveva preso un’iniziale sbandata per una sfumatura di blu un po’ più intensa, quella di Duke, si sarebbe presto lasciata affascinare dall’affabilità dei modi di coach Smith e dei suoi assistenti (be’, insomma, a parte Fogler) e soprattutto dal suo costante insistere sull’istruzione accademica prima ancora che sul basket. Un “dettaglio”, questo, che aveva fatto subito breccia nel cuore della signora Deloris e che avrebbe fatto la differenza rispetto agli altri reclutatori.

La data del 30 settembre della lettera di ringraziamento, che lo stesso Smith in persona aveva avuto la premura di scrivere a Michael ai suoi genitori, testimonia quanta fretta avesse il coach di non farsi scappare una simile preda. Ecco qui di seguito riproposte le poche ma indicative righe spedite dal coach, che ben testimoniano il lato peggiore della professione di allenatore universitario: un maturo professionista di gran nome che, per la suprema ragion (tecnica) di Stato, deve quasi genuflettersi per entrare nelle grazie di un ragazzino di talento così che questi possa far parte della sua squadra.


Carissimi amici,
   abbiamo certamente gradito l’avervi ospiti lo scorso fine settimana qui a Chapel Hill. Abbiamo avuto la fortuna di riuscire a conoscerci molto meglio e sappiamo di poter contare su di voi come buoni amici. Coltiviamo inoltre la speranza che Michael possa aver appreso qualcosa di più sulla University of North Carolina e su quanto significherebbe per lui studiare qui a Chapel Hill. 

Attendo con impazienza il nostro prossimo incontro di domenica 2 novembre lì a Wilmington. Per allora avrete sicuramente ulteriori domande riguardo agli obblighi di frequenza universitaria di Michael e intanto ci sentiremo periodicamente. Desideriamo anche farvi sapere che nel frattempo sarete i benvenuti ad assistere a qualsiasi nostra partita di football.

So che Michael continuerà a lavorare duramente sia nello studio sia nel basket. Per favore, non lasciate che il reclutamento interferisca con la cosa più importante, che è quella di fare bene scolasticamente ed agonisticamente in quello che è il suo ultimo anno di liceo. 
Da parte mia e a nome di tutti gli altri che avete conosciuto, i nostri più cordiali saluti.
    Dean Smith


Michael dentro di sé aveva già tutto ben chiaro e definito. Altroché David Thompson e i suoi Wolfpack di UNC State, altroché UCLA (dove peraltro – parole sue – sarebbe andato anche a piedi) o Virginia, altroché Indiana, Maryland o qualunque altro college l’avesse cercato: Michael voleva togliersi il pensiero di scegliere l’università fatta su misura per lui per essere libero di dedicarsi solo al basket giocato, per fare alla grande il suo anno da senior con i Bucs della Laney, e magari portarli, per la prima volta nella loro storia, al tanto agognato titolo.

Anche se assomigliò più che altro ad una formalità, poiché Mike aveva già preso la sospirata decisione, dopo quella di UNC fu la volta della visita di South Carolina, la cui data prevista era quella del 20-21 ottobre. Il coach Bill Foster, pur di riuscire ad entrare nelle preferenze di Michael, non esitò a fargli balenare la possibilità di giocare all’amatissimo baseball anche a livello universitario, ma l’espediente non funzionò.

La quarta (e ultima) visita, in programma dal 24 al 26 dello stesso mese, sarebbe stata quella dove studiavano i suoi ex beniamini di NC State. Il coach, quel tanto grande quanto sfortunato Jim Valvano, aveva appena sostituito Norm Sloan e per ricostruire il programma cestistico dei Wolfpack non poteva perdere tempo. Il 9 settembre Coach V gli aveva scritto, non brillando per particolare originalità, che non vedeva l’ora di mostrargli gli impianti e di presentargli la squadra.

Quella effettuata ai ’Pack fu l’ultima trasferta compiuta da Jordan, che tanto ormai aveva deciso. Aveva capito che non aveva senso continuare e tanto valeva non prendere in giro nessuno e non perdere tempo prezioso (per sé e per i reclutatori). Mike chiamò allora Duke e Clemson, le ultime due università rimaste dalle quali avrebbe dovuto recarsi alla fine del mese, e comunicò loro di aver già preso una decisione definitiva e di voler così rinunciare alle ultime due delle sei visite esplorative consentite dal regolamento NCAA. 

Ormai la decisione era presa: il “nemo propheta in patria”, nel suo caso, non avrebbe avuto ragion d’essere. Michael si era convinto, sarebbe restato dalle sue parti per studiare e, soprattutto, per giocare a basket e, finalmente, potendolo fare ad altissimo livello, avrebbe misurato le sue vere forze. Ora c’era solo da sistemare un ultimo piccolo dettaglio: dirlo al mondo. 

Il primo novembre del 1980, con il perfetto senso del “tempo” che lo avrebbe caratterizzato per tutta la vita (sportiva e non), a soli diciassette anni e mezzo Jordan convocò la prima delle sue innumerevoli conferenze stampa. 

Il luogo, a dire la verità, era una sala-stampa un po’ particolare, il salotto di casa sua, e anziché un palco, un tavolo o qualcosa del genere c’era un più spartano divano. Le poche fotografie esistenti di quella circostanza, negli anni successivi, avrebbero fatto ovviamente il giro del mondo, e ancora oggi fa tanta tenerezza vedere un timidissimo e impacciato ragazzino del Sud, seduto sul sofà della sua living room, stretto fisicamente tra mamma Deloris a destra e papà James a sinistra e metaforicamente nel rassicurante “abbraccio” della sua famiglia. 

Nella celebre foto di Wayne Upchurch, pubblicata dal Wilmington Star-News e ripresa da numerosissimi altri libri e pubblicazioni, al posto del consueto groviglio di fili e attrezzature, accanto ad un invitante cesto di frutta all’apparenza fresca ma non è dato sapere se di plastica o autentica, ci sono appena due-microfoni-due, uno (appoggiato sul tavolino della sala) di un non meglio precisato terzo canale e un altro di una sesta rete (evidentemente più “ricca” perché fornita anche dell’apposito sostegno per l’attrezzo del mestiere più odiato e invidiato che ci sia, quello del giornalista). 

Appare stranamente stridente il confronto con le analoghe conferenza stampa inscenate, tanto per fare un esempio eccellente, dal giovanissimo Magic Johnson, già allora consumato “padrone” dei media e perfettamente a suo agio davanti a microfoni e telecamere, nei momenti degli annunci degli importanti sviluppi della sua avventura cestistica riguardanti la scelta del college (Michigan State University) prima, e la decisione di anticipare il proprio passaggio al professionismo poi. Non erano passato che pochissimi anni , ma, a partire già dalla capigliatura “afro”, rigorosamente ancora anni Settanta, di Magic, sembrava tutta un’altra epoca. Forse lo era, di sicuro lo sarebbe diventata.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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