CAPITOLO 10 - Il bambino d'oro (1983-84)
«In allenamento, provare a fermarlo era impossibile. Se anche lo forzavi sulla linea di fondo, andava a schiacciare lo stesso. E poi, in spogliatoio, te lo faceva pesare per tutta la sera».
– Buzz Peterson
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air"Jordan
© Rainbow Sports Books
Michael "Air"Jordan
© Rainbow Sports Books
Se nel primo anno di università Michael aveva spesso viaggiato a corrente alternata, a partire dalla sua seconda stagione sarebbe stato semplicemente inarrestabile. The Shot, Il Tiro che aveva deciso la finale per il titolo l’anno prima, gli aveva dato una sicurezza e una fiducia in se stesso straordinarie.
Lo stesso Dean Smith, ripensando in seguito alle stagioni in cui ebbe Jordan alle sue dipendenze, non poté far altro che rilevare con entusiasmo i progressi fatti registrare da quel sophomore che, ormai, partito Worthy (destinazione NBA, Lakers), era l’indiscussa stella della sua formazione: «Michael migliorò moltissimo dopo la sua prima stagione. Era cresciuto di circa quattro centimetri, era maturato fisicamente ed era diventato un giocatore semplicemente sensazionale. Il suo primo anno era stato molto incostante anche se era già uno dei più competitivi durante gli allenamenti. Voleva davvero migliorare ed aveva le capacità per farlo». Detto da Smith, sempre… “controllato” tanto negli elogi quanto nel gioco, suonava come un’incoronazione.
UNC era la squadra campione nazionale in carica e, più che naturalmente, i riflettori erano puntati su ciò che accadeva dalle parti di Chapel Hill. UNC era data per favorita, ma fu un grosso errore di tutti, addetti ai lavori e non, quello di sottovalutare la perdita di un giocatore fondamentale per l’economia dei Tar Heels, il futuro “Big Game” James, ormai vestito di gialloviola.
Conference che vai, regolamenti che trovi
La stagione partì con il piede sbagliato per i caroliniani. UNC perse la gara d’apertura del campionato, giocata il 20 novembre in trasferta a Springfield , Massachusetts, dove, dopo un tempo supplementare, fu sconfitta da St. John’s per 78-74. Il 27 dello stesso mese, secondo stop consecutivo, ancora in trasferta, a Saint Louis, 60-64 per mano della University of Missouri. Tre giorni dopo sarebbe arrivata la prima vittoria, ma che fatica! Dopo ben tre overtime, i biancocelesti sconfissero (70-68) Tulane ma le circostanze che portarono a quel successo furono a dir poco rocambolesche. Prima di addentrarci nello specifico, va fatta una piccola premessa.
Nella ACC, a partire dalla stagione ’82-83, furono introdotte due rilevanti innovazioni regolamentari. Abbiamo già spiegato, nella nota di presentazione del funzionamento del mondo della NCAA , di come ogni conference godesse di particolari spazi di autonomia, dal punto di vista del regolamento tecnico di gioco e della struttura del calendario. Ebbene, proprio da quell’anno, la Atlantic Coast aveva disposto l’introduzione del limite dei 30 secondi per tirare e quella del tiro da tre punti.
Entrambe le variazioni, è palese, avrebbero influito profondamente sull’evoluzione del gioco universitario, soprattutto tenendo conto del fatto che i cambiamenti apportati al regolamento vigevano all’interno della ACC, ma poi si doveva tornare alle vecchie “abitudini” negli scontri con college appartenenti ad altre conference.
Attenzione: non abbiamo fatto questa premessa per sottintendere che, dovendosi abituare a due basket diversi, l’avvio di stagione sottotono dei Tar Heels dovesse attribuirsi a un riadattamento poco riuscito.
Il preambolo si è reso necessario per raccontare semplicemente quanto accaduto nella incredibile, pazza sfida contro Tulane. Rimane scontato, però, che le due innovazioni avrebbero portato degli inevitabili stravolgimenti tecnici all’intero torneo NCAA ma anche al modo di giocare l’intero college basketball.
E l’affermazione rimane tanto più vera se riferita ai Tar Heels di North Carolina che facevano del gioco attendistico una delle proprie armi principali e che, proprio per questo, potevano sentirsene minacciati: soprattutto l’introduzione del limite dei 30” per andare al tiro, infatti, era parsa a molti un duro colpo assestato alla filosofia offensiva dei Quattro Angoli.
Capitan UNC
Reduci da una poco lusinghiera partenza di 0-2 in campionato, i Tar Heels, a 1’29” sono sotto di due anche nel terzo incontro, quello appunto contro Tulane. A quel punto, Jordan prende un rimbalzo in attacco e segna: 51 pari; poi c’è un fallo pro Tulane e susseguente 2/2 degli ospiti dalla linea: 51-53 per l’Onda Verde. Con 4’’ rimasti sul cronometro, ecco che, anziché diventare il salvatore della patria (per fortuna solo cestistica), Michael per poco non combina il patatrac: commette fallo in attacco e quello che si pensa essere l’ultimo possesso palla dell’incontro va a Tulane. Rimessa dei Green Wave, Perkins tocca ma non trattiene, arriva come un falco indovinate chi e tira da distanze siderali. Swish. Vittoria, direte voi, invece no, perché l’incontro era fra squadre di conference diverse e l’ipotetica tripla di Jordan era “regredita” a un normale tiro da due. 53-53 e via al supplementare. Alla fine della maratona cestistica, i Tar Heels avrebbero vinto per 70-68, ma che sudata!
Anche se contro Tulane Jordan aveva salvato capra e cavoli, l’inizio di stagione dei Tar Heels non era certo stato esaltante, ma tutto sarebbe cambiato a partite dall’anno nuovo.
Nei primi due mesi del 1983 UNC si mise a volare sulle ali della sua stellina: i Tar Heels incamerarono 18 vittorie consecutive schizzando al numero uno del ranking nazionale.
Michael, intanto, aveva incominciato a segnare valanghe di punti: a Tulane ne aveva rifilati 21, poi c’erano stati i 22 contro Santa Clara, i 28 contro Tulsa, anche se in quell’occasione la squadra era stata di nuova battuta, e, ancora, i 27 contro la University of Chattanooga-Tennessee, poi i 22 contro Oklahoma e i 32 (in tutte e due le occasioni) contro Duke, nella gara (vinta 103-82) del 23 gennaio.
Jordan sembrava ormai lanciato a raccogliere quelle vagonate di punti che avrebbero caratterizzato i suoi primi anni nella NBA. Il suo high stagionale, 39, arrivò contro Georgia Tech al Coliseum di Greensboro.
Altre vette toccate: 24 contro Clemson, sia in casa sia fuori. Il ragazzo ormai aveva spiccato il volo. Ora si trattava “solo” di fare lo stesso con la squadra e questo, per una power house come UNC, non poteva che significare una cosa: seconda Final Four consecutiva.
L’impresa sarebbe stata resa più difficile, però, da un brutto scherzo del destino: il compagno di stanza e grande amico di Michael, Buzz Peterson, si era infortunato in modo grave ad un ginocchio in una vittoria contro i Cavaliers della Virginia University, e l’assenza di quello che l’anno prima era stato il miglior liceale dello Stato proprio davanti a Michael si sarebbe fatta pesantemente sentire.
Proprio per manifestare la sua solidarietà con lo sfortunato amico Peterson, da quel giorno MJ ha incominciato a portare quello che sarebbe diventato uno dei suoi simboli più riconoscibili, il polsino tirato su fino all’altezza dell’avambraccio e diventato, negli anni, una specie di irrinunciabile talismano. Non “serviva” a niente, è ovvio, ma era un modo per ricordarsi in ogni momento del compagno al quale era più legato e che aveva subìto un incidente di gioco.
Dopo l’infortunio del numero 22 dei Tar Heels, la squadra ebbe una certa flessione perdendo tre partite in fila per poi riprendersi vincendone quattro consecutive. E la quinta si disputò in una circostanza importante, visto che si trattava del primo turno del Torneo di conference: si giocò all'Omni di Atlanta e UNC batté Clemson 105-79 con un Michael capace di segnare 28 punti (11/21 dal campo, 4/9 da tre, 2/3 dalla lunetta) con ben 10 rimbalzi e un recupero.
Nell’incontro successivo i Wolfpack si aggiudicarono “il derby” contro UNC sfruttando un mediocre 4/12 di Michael dal campo, parzialmente rimediato da un 3/4 dall’arco e da un 2/3 dalla linea, ma i 13 punti totali, seppure conditi da 3 rimbalzi, un assist e 2 palloni rubati, non potevano bastare. Comunque la sconfitta non pregiudicò nulla, adesso si entrava nel torneo NCAA. Nel segno della continuità ma della sfortuna più nera che più nera non si può, oltre a quello di Peterson, ci si era messo pure l’infortunio al primo anno Brad Daugherty, e, a quel punto, l’organico di North Carolina non poteva non mostrare la corda.
Dopo le illusorie (perché troppo “comode”) vittorie con James Madison (68-49, il punteggio con Michael, perfetto dalla lunetta (4/4) e un po’ meno dal campo (6/8), a raccogliere 16 punti, 3 rimbalzi e 3 assist), e Ohio State (17 punti, con 7/9 ai liberi, e 7 rimbalzi nel successo per 64-51), arrivò la più scozzese delle docce, quella contro Georgia.
I Tacchi Incatramati questa volta non ce l’avrebbero fatta: al CarrierDome di Syracuse, Jordan, nonostante i suoi 26 punti (11/23 al tiro, 4/5 nei personali), i 6 rimbalzi e l’unica palla recuperata, non aveva potuto ripetere le prodezza che l’anno prima aveva saputo regalare al Superdome di New Orleans. North Carolina tornava a casa, battuta 82-77, e Michael, dopo due anni di basket praticamente ininterrotto, aveva chiesto al coach di poter tirare un po’ il fiato. Richiesta più che lecita e permesso accordato. Cosa fece per riposarsi? Il giorno dopo, uno degli assistenti di coach Smith, quel Roy Williams che tanto lo aveva seguito fin dai tempi del Dean Smith Camp e che poi lo aveva caldamente raccomandato al Five Star, lo aveva visto aggirarsi dalle parti di un playground. Jordan stava giocando…
Il sophomore d’oro aveva chiuso l’annata con una grossa delusione di squadra, ma, individualmente, di certo non si poteva lamentare: 20 punti, 5.5 rimbalzi e 1.6 assist a partita, una media stagionale che, unitamente all’assoluto senso di superiorità sugli avversari, gli sarebbe valsa il premio di The Sporting News College Player of the Year 1982-83. Michael però non riusciva a gioire.
Voli PAN-AMericani
Il primo volo a propulsione… non umana effettuato da Michael era stato quello a bordo dell’aereo che lo aveva portato, nell’estate 1979, assieme a Leroy Smith, al primo dei suoi due Five Star Camp consecutivi, a Pittsburgh (Pennsylvania). Ora, un altro volo importante sarebbe stato quello che doveva portarlo, assieme alla nazionale statunitense, ai Giochi Panamericani, in programma nell’agosto che seguì la sua stagione da sophomore, a Caracas, la capitale del Venezuela.
Anche se può sembrare strano per un paese latino-americano, in Venezuela il basket è forse più seguito del calcio e, probabilmente anche perché nel fùtbol i locali non hanno mai ottenuto strepitosi risultati, ha sempre vantato discreta tradizione.
Quella di Caracas è la prima volta in assoluto di Michael in maglia USA, anche se nel 1981 aveva partecipato, con una selezione dilettantistica (di cui faceva parte anche Buzz Peterson) degli Stati del Sud dell’Unione ad un certa manifestazione denominata National Sports Events (oggi si chiama invece Olympic Festival), ed è quindi all’occasione fornita da quei Panamericani ’83 che si ha il vero esordio di Michael sulla scena delle competizioni internazionali. Com’era facilmente prevedibile, gli Stati Uniti, in quell’inverno australe (in Sudamerica in agosto hanno quello che noi abbiamo in inverno, vale a dire il freddo) regalano generosamente “cappotti” a tutte le squadre che hanno la sfortuna di incrociarli. Finisce naturalmente con Jordan capocannoniere del torneo, capace, nonostante una fastidiosa tendinite al ginocchio, di regalare numeri a sensazione (la rappresentativa messicana ricorderà per l’eternità almeno un paio dei suoi "schiaccioni"). Gli Stati Uniti si aggiudicarono la manifestazione battendo, nella finale del 25 agosto, punteggio 87-79 (per Jordan 16 punti), un ottimo Brasile.
La pantera nera
Tornato dai panamericani e prima di incominciare il suo terzo anno di college, nell’ottobre 1983, a Michael Jordan, che ancora è “solo” il sophomore Jordan, eletto miglior giocatore universitario del campionato precedente, capita un evento memorabile: incontra, da avversario, il nostro editore Riccardo Morandotti. Be’… forse dobbiamo aver sbagliato qualcosa, probabilmente l’ordine dei fattori, e perciò, in questo particolarissimo caso, non ci sentiamo proprio di giurare sull’applicabilità della proprietà commutativa. L’aneddoto, però, è curioso e simpatico ed è per questo che lo raccontiamo.
In vista della stagione agonistica di college 1983-84, coach Smith decide di portare i suoi Tar Heels in tournée per far vedere loro cosa c’è al di là dell’Atlantico, e non solo sul pianeta basket. In una delle tappe di quel tour europeo, che per dei ragazzini di vent’anni scarsi deve essere stato più un’allegra vacanza che un probante test delle loro doti cestistiche, UNC accetta l’invito di partecipazione a un torneo amichevole in programma nella bella città greca di Salonicco, una delle piazze storiche della Grecia cestistica e, quindi, considerata la tradizione di cui gode la palla a spicchi in quel Paese, di tutta l’Europa dei canestri.
In quella competizione prestagionale, il primo avversario che UNC si trova ad affrontare è la Berloni Torino, la formazione allenata dal grande maestro (per molti, di basket e di vita) Dido Guerrieri, all’epoca una delle più belle realtà della nostra Serie A-1. La partita la vince North Carolina, 87-81, ma, incredibile a dirsi, l’evento più “spettacolare” accade a gara conclusa: Dean Smith, dopo essersi complimentato col collega, chiede a “Didone” lumi su quella stellina col numero 13 che aveva appena finito di fare impazzire i suoi Tar Heels mentre il pubblico greco si era dilettato le pupille con le giocate ad effetto di Jordan e, soprattutto, di Sam Perkins.
A Morandotti, che a quei tempi era uno degli astri nascenti della pallacanestro azzurra tanto da potersi permettere di… abbassarsi le brache mostrando il posteriore al “veteranissimo” Dino Meneghin che gli “ricordava” in modo non particolarmente ortodosso il rispetto di certe “gerarchie”, Smith domanda se è interessato ad un’eventuale borsa di studio per meriti agonistici , ma Guerrieri, che per nulla al mondo si sarebbe privato del suo pupillo (nonché star della squadra accanto ai mitici Renzo Vecchiato, “Meo” Sacchetti, “Charlie” Caglieris, tutta gente campione d’Europa con gli azzurri a Nantes 1983), ha risposto picche. «Stai tranquillo, Ricky: tu non vai da nessuna parte, stai qua con me» è la ferma rassicurazione del Professore al suo figlioccio, il quale, in ogni caso, essendo già al suo terzo anno di professionismo, non avrebbe potuto accettare la athletic-scholarship.
Attenzione, però: non dovete pensare ad una bieca forma di egoismo tecnico di Guerrieri volta a tenersi stretto in squadra quello che allora era comunque un “uomo” (be’, giovanotto) da trentello buono a partita, non solo l’alacre randellatore di oggi. All’epoca la realtà cestistica di un giocatore di Serie A italiana era tutta e solo qui, e l’America dei canestri, lontana l’era di lustrini e paillette della NBA e delle sue sovraesposizioni televisive, era solo un bellissimo pensiero da tenere in serbo per sé, ma non un sogno da realizzare. «La mia realtà era qui, era qua che prendevo i miei “soldini”» ha detto Morandotti quando lo abbiamo invitato a rievocare l’episodio. Il Sogno Americano, perlomeno col basket, Ricky non l’ha mai coltivato ma ha comunque avuto la bella soddisfazione di “provare” per gli Atlanta Hawks di coach Mike Fratello: «L’America era una cosa distante, lontana, ma in tutti i sensi: per me è stata una bella esperienza, mi sono fatto una vacanza, ma finiva tutto lì…».
Okay, Rick, più chiaro di così… Ma parlaci di Michael, Riccardo, com’era Jordan a vent’anni e mezzo, tu che te lo sei trovato di fronte sul parquet: si intravedeva “qualcosa” o, come si è sempre detto in tutti questi anni, «Era bravo, sì, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe diventato così bravo»?
Il ricordo di Morandotti, sedici anni dopo quel torneo, è ancora nitido e ricco di particolari. «Mah, a quei tempi, per quello che mi ricordo io, c’era questo grande spauracchio di Sam Perkins: Perkins di qua, Perkins di là… Sentivo che parlavano tutti di questo qui che giocava pivot e che tirava da tre, e poi era un mancino, con quel suo tiro strano, tutto “attorcigliato”… Io, poi, con i mancini ho sempre fatto una gran “fadèga” [fatica]». Anche nel basket, come nel pugilato, i “guardia-destra” stanno sullo stomaco a tutti.
«Per quanto riguarda Jordan, quello che mi colpì fu quella sua pelle liscia e scurissima, sembrava una pantera nera: faceva impressione per la velocità degli scatti, per i balzi, saltava così», mima Morandotti ponendo una mano all’altezza delle costole, solo che le sue costole (è alto 1.98 m) stanno a metà Everest. «Ma più che Jordan, mi ricordo che per tutti era così: correvano come dei pazzi, saltavano come grilli e facevano tutto a una velocità supersonica. E poi la determinazione, una concentrazione assoluta: lo vedevi proprio che ci mettevano l’anima, per loro [il basket] era una cosa troppo importante, era tutto. Solo che qualcuno era un “caprone”, tecnicamente io facevo quello che volevo: bastavano due finte e quelli andavano dall’altra parte, poi facevo finta di tirare mi appoggiavo e tac: fallo, tiri liberi e via andare. Solo che fisicamente erano devastanti, ti ammazzavano… Ma Jordan era più intelligente, e a quei livelli, col fisico che hanno, se uno è intelligente, lo vedi che è una spanna avanti a tutti». Messaggio ricevuto, Rick. Il fenomeno era ancora in pectore, ma era, appunto.
Il giorno dopo la vittoria su quella che ai tempi si chiamava Cucine Berloni-Torino, North Carolina affronta prima la formazione locale del Paok, riportando un altro successo, questa volta per 100-83, e, poi, per le solite assurde esigenze televisive, la sera stessa la Stella Rossa Belgrado. Quella contro gli allora jugoslavi - oggi non ci verrebbe neanche in mente di chiamarli così, visto come da quelle parti prendono seriamente certe differenze di etnia - era la finale del torneo ma, per quelli che avrebbero dovuto essere gli stanchi semifinalisti del pomeriggio, non cambiò nulla: vittoria (sofferta, 105-104) e trofeo portato a casa.
Per apprezzare l’andamento delle prestazioni di Jordan in quel torneo in generale, e in quelle due ultime partite in particolare (per non voler fare differenze, Michael ne rifila 34 in entrambe), può senz’altro bastare la definizione di Buzz Peterson che, esausto come tutti i suoi compagni (tranne uno…), si limitò ad osservare che «poteva diventare come Dr. J». Serve altro?
L’anno da junior
Tanto per cambiare, anche la stagione agonistica che andava a incominciare vedeva North Carolina tra le più serie pretendenti al titolo di reginetta cestistica delle università.
Nei nuovi Tar Heels di quell’annata ’83-84, si erano salutati gli inserimenti in quintetto del pivot al secondo anno Brad Daugherty, della matricola Kenny Smith in regia (entrambi da subito in quintetto) e Dave Popson, e si era registrato l’addio di quello che l’anno prima era stato il miglior “triplista” di tutto il campionato, la guardia Jimmy Braddock. Il resto del quintetto, oltre ai già citati spot di prima guardia (Smith) e di pivot (Daugherty), vedeva Matt Doherty all’ala piccola e, naturalmente, le star Jordan, come seconda guardia, e Perkins, passato, in virtù dell’inserimento in quintetto-base di Daugherty come centro, al ruolo di ala forte, spot a lui più congeniale vista la spiccata tendenza ad uscire sistematicamente dall’area per andare a concludere da fuori (e possibilmente da tre).
La squadra, il cui roster si completava con elementi quali, oltre al veterano Buzz Peterson (non ancora del tutto recuperato dall’incidente della stagione precedente e perennemente ad un filo sotto il votarsi completamente alla causa), Cecil Exum e Steve Hale (che forse rappresentò il primo di una lunga serie di “problemi di spogliatoio” della carriera di Michael), era forte, ma non fortissima, anche se i futuri reclutamenti operati dalle franchigie NBA avrebbero potuto, in teoria, far pensare il contrario: con l’eccezione del centro Daugherty, infatti, l’intero starting… -four di North Carolina sarebbe stato scelto di lì agli anni immediatamente successivi con le primissime scelte del draft (la procedura con cui vengono ingaggiati i giocatori universitari che passano professionisti).
Dopo il secondo trionfale anno a UNC, campionato in cui Michael era stato semplicemente immarcabile, cui era giustamente seguita la strameritata premiazione di miglior giocatore universitario della nazione, la pressione, via via sempre più forte, data dalle enormi attese riposte su di lui, inizia a non essere più tollerabile dalle possenti ancorché giovanissime spalle di Jordan. Ma questo nuovo stato “naturale” delle cose, in avvio di stagione, incomincia a gravare sul suo modo giocare, anche se la squadra non poteva andar meglio: 21 vittorie consecutive.
Anche Michael si era accorto che qualcosa non andava ma non aveva saputo porvi rimedio. A farlo, secondo quanto raccontato qualche anno dopo dallo stesso Jordan, ci avrebbe pensato ancora una volta il suo mentore «Coach Smith, che mi conosce, mi ha mostrato dei filmati dimostrandomi che ero cambiato. Lui mi ha fatto capire cosa mi aveva fatto il successo tanto che da quel punto in poi sono stato capace di gestirlo. Prima di andare a giocare contro North Carolina State , mi tagliai i capelli a zero per significare che volevo lasciarmi alle spalle l’inizio della stagione e pormi dei nuovi obiettivi, ed infatti incominciai subito a giocare un miglior basket».
Come in una sorta di “reincarnazione al contrario” del celebre Sansone, Michael, perdendo i capelli aveva riacquistato la sua forza, e con lui se ne erano rimpossessati gli interi Tar Heels. Finalmente, reinserito da un punto di vista psicologico, nel disegno collettivo che qualunque sport di squadra necessariamente deve prevedere, Jordan smise di guardare prima alle proprie statistiche, fino a quel momento esageratamente inseguite per far vedere di essere all’altezza delle incredibili aspettative che tutti riponevano in lui per quell’annata, e tornò a pensare all’unica cosa che conti veramente: la vittoria. Il resto sarebbe venuto da sé.
Dopo qualche gara francamente troppo sotto tono per far pensare che col 23 biancoblù fosse sceso in campo proprio lui e non una sua per quanto rassomigliante controfigura, come per esempio la pessima esibizione nella quarta partita stagionale, quella in trasferta contro Stanford (4 punti, 2/6 al tiro con nessun libero, nessun rimbalzo, un assist e un recupero), o l’ottavo turno di campionato, contro Iona (brutto 2/12 dal campo, perfetto 4/4 dalla lunetta, 6 buoni rimbalzi, 4 assist e un recupero ma solo 8 punti in totale), Michael incominciò la lenta risalita. Rileggendo i tabellini dell’epoca, con la sua squadra a chiudere la prima parte di stagione, quella che precede il torneo NCAA vero e proprio, con un totale vinte-perse di 27-2, viene da interrogarsi sulla liceità di quei dubbi di inizio stagione ’83-84 o se, molto più semplicemente, andasse messa in dubbio la salute mentale di chi li aveva sollevati. Può apparire paradossale, ma quando l’attesa è per una squadra che domini la scena, come era accaduto per quella formazione di UNC, e ci si ritrova invece con una pur grande, ma non grandissima squadra, anche il Jordan della situazione può diventare un “caso”.
A parte la sconfitta (75-77) nel torneo di conference proprio con gli arcirivali di Duke, incontro nel quale MJ azzeccò un’incredibile segnatura in acrobazia, “numero” poi esibito migliaia di volte nella NBA, riuscendo a tirare quando era ormai virtualmente già per terra per via di una collisione subita in mezzo al “traffico”, nel resto del torneo della ACC Jordan tornò il se stesso dell’annata precedente, vale a dire il miglior giocatore di tutta la NCAA.
L’avvento della fase della NCAA stessa, però, sarebbe stato foriero di grandi delusioni. Nel primo turno, UNC dovette affrontare Temple e i Tacchi Incatramati se la cavarono con relativa tranquillità: vinsero 77-76 e Michael ne infilò 27 (11/25 dal campo e 5/7 ai personali) accompagnando l’abbondante abbuffata con il contorno di 6 “sostanziosi” rimbalzi. Adesso viene il bello, si pensava dalle parti di Chapel Hill. La sorte invece avrebbe tenuto in serbo una assai poco bella sorpresa. Nel secondo turno, la sfida con la Indiana University si sarebbe rivelata l’ultima fermata del (non lungo come si sperava) viaggio dei Tar Heels del campionato ’83-84: nella partita disputata all’Omni di Atlanta, gli Hoosiers di coach Bobby Knight batterono i Tar Heels per 72-68 e furono loro ad andare avanti.
Per Dan Dakich , il diretto marcatore di Jordan, l’uomo che nei primi sessanta secondi di gioco si era già preso in faccia quattro punti, sarebbe stata la partita della vita: Michael, dopo quel fuoco di paglia iniziale, si fermò e chiuse a quota 13 (6/14 nelle conclusioni, 1/2 ai liberi) raccogliendo la miseria di una unità in ciascuna delle seguenti categorie statistiche: rimbalzi, assist, recuperi.
Come aveva concluso la sua carriera liceale, Jordan chiude anche la sua parentesi agonistica universitaria: da perdente e con la platonica corona di miglior giocatore del campionato. Sono cambiate le medie: 19.6 punti, 5.3 rimbalzi 2.1 assist a partita in quell’ultimo anno, che portano la sua media in carriera al college a 17.7 ppg, 5 rpg e 1.8 apg, ma non la sostanza.
Michael termina infatti l’annata con tantissimi traguardi personali, capocannoniere della ACC, seconda nomina consecutiva come The Sporting News College Player of the Year (premio al quale, in quella sua fantastica, soprattutto nella sua seconda parte, terza stagione universitaria, si andavano ad aggiungere anche tutti gli altri analoghi riconoscimenti individuali: che fossero di questo o quel giornale, della tal o talaltra associazione, non importava, erano tutte voci dello stesso coro, il migliore era sempre e solo Michael Jordan), ma nessun alloro di squadra, come dire: tutto molto bello, ma un po’ fine a se stesso.
Michael si dovrà abituare - e dovrà incominciare a farlo presto - a riscuotere consensi personali ma a vincere zero, visto che di lì a poco si ritroverà, decidendo di passare professionista con un anno di anticipo sul canonico quadriennio universitario, in una delle squadre più disastrate dell’epoca, i Chicago Bulls.
Dopo un breve tentennamento, dovuto più alla voglia di rivincere il campionato NCAA e al senso di lealtà nei confronti di Dean Smith e dell’intera istituzione di North Carolina, nonché alle pressioni di mamma Deloris che “spinge” molto affinché il figliolo si laurei, che alla reale esigenza di guadagnare dei gran soldi , Michael prende una decisione definitiva (appellandosi alla solita ma mai come in questo caso fuori luogo motivazione dell’indigenza) e si dichiara eligible per il draft della NBA.
Nella conferenza stampa prevista per il 5 maggio, ma annunciata fin dal giorno prima, il che aveva permesso al The Carolina Gazette di uscire l’indomani con l’imprevisto “scoop” sbattuto in prima pagina col titolo a nove colonne di «Jordan leaves early!!!», («Jordan lascia in anticipo!!!», con tanto di tre punti esclamativi fedelmente riportati e, in riquadro, sua foto in primo piano), Michael si limitò a regalare l’immortalità alle seguenti pregnanti parole: «Non volevo portare la cosa troppo per le lunghe, e ho deciso circa un’ora e mezza fa – mente MJ sapendo di mentire, perché altrimenti non si fissa una conferenza stampa ufficiale se non si ha nulla da… ufficializzare –. Ero molto incerto, ma stamattina ho parlato con Coach Smith e con i miei genitori, prendendo questa decisione. Tutto sembra molto promettente e spero che il futuro mi riservi il meglio, così ho pensato che sarebbe stato meglio iniziare adesso che sono giovane».
È un Jordan molto diverso, quello che chiude, il 5 maggio 1984, la sua seconda storica conferenza stampa, da quel Mike che, il 1º novembre 1980, aveva parlato davanti a due-microfoni-due dal divano di casa sua, attorniato da mamma e papà, comunicando la propria intenzione di frequentare il college a North Carolina. Erano passati appena tre anni e mezzo, ma dopo quell’anno da senior, The Shot e altre due stagioni in cui era stato nominato “collegiale” numero uno del Paese, sembravano tanti, tanti di più.
Sarebbe stata una lunga estate calda, quella del 1984, per Michael. C’era tanto da fare per preparare il suo viaggio nel mondo NBA. Prima però bisognava sbrigare un paio di altre “auree” faccende: trovare un agente che lo ricoprisse d'oro, e magari pure conquistarne uno. Quello olimpico. Il primo.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael Air Jordan
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