CAPITOLO 7 - Mai dire Mike (1980-81)


«La Laney può solo augurarsi che… possiate far crescere il vostro talento in modo da rendere gli altri orgogliosi di voi così come lo siamo stati noi. Ricordatevi sempre della Laney come parte del vostro mondo».
– The Spinnaker, 1980-81

«Quello è un movimento che fanno solo i professionisti».
– Marshall Hamilton, coach di Southern Wayne

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

All’inizio della sua quarta e ultima stagione di high school, la reputazione sportiva di quel certo Mike Jordan, il primo liceale di Wilmington a ricevere una borsa di studio per meriti cestistici e per di più assegnata da una delle storiche super potenze del college basketball come UNC, incomincia a espandersi in tutta la contea, per non dire l’intero Stato. La sua popolarità, però, avrebbe avuto un’impennata ancora maggiore dopo le sue prestazioni nel tradizionale torneo di fine anno.

In quella stagione, il quintetto base della Laney prevede Parker e Brown nel backcourt, Jordan ancora nello spot di small forward, Johnson in quello di power forward e Smith, l’unico vero lungo dei Buccaneers, in quello di centro.

Era chiaro che le attese di tutti sono caricate sulle minute ma robuste spalle del magrissimo prospetto col numero 23, ma, saggiamente, “Pop” Herring deve fare, come si dice in situazioni del genere, il pompiere. Per non aggiungere altro peso al già sovraccarico fardello di responsabilità che gravava sulla sua star, a chi gli chiedeva dove sarebbe potuta arrivare la Laney con quel fenomeno in squadra, il coach rispondeva che sarebbe arrivata fin dove l’avrebbe portata… Leroy Smith. A fare la differenza, quindi, secondo Herring, sarebbe stato il solo lungo presente nel roster dei Bucs, non Jordan. Era il gioco delle parti, ovviamente, ma c’era un fondo di verità: Jordan avrebbe bellamente continuato a fare i suoi bravi miracoli, ma la squadra, più di tanto, non avrebbe potuto dare. Il momento delle necessarie verifiche, però, non avrebbe tardato ad arrivare.

La stagione era partita subito bene per Mike, che aveva già saputo fornire prova di saper infilare i tiri “pesanti”, quando contava. Il 12 dicembre, per fare un esempio calzante, in una delle sue prime partite la Laney affronta la Hoggard ed è proprio Jordan a realizzare il tiro dalla media che dà la vittoria alla sua squadra, 73-71, a una dozzina di secondi dallo scadere. In quella gara, lo stesso Mike aveva peraltro posto solide basi per quel suo show negli ultimi secondi segnando, nel solo secondo quarto, ben 14 punti consecutivi, e addirittura 20 dei 23 del proprio team.

Il liceo Hoggard, suo malgrado, sarebbe poi passato alla storia iconografica jordaniana perché nella partita di ritorno, disputata in gennaio, uno dei suoi studenti, un biondone sceso in campo con la casacca numero 25, era stato immortalato in una delle rare foto di Jordan in maglia Bucs in volo a canestro. In un’immagine particolarmente spettacolare, che in seguito avrebbe fatto un paio di volte il giro del mondo, per un curioso effetto ottico, il “23” volante sembra quasi sbattere la testa sul soffitto della palestra e la sua ombra addirittura farne capolino, tanto appare impressionante la sua elevazione. Fa ancora un certo effetto, anche oggi, vedere la smorfia di totale smarrimento dell’incolpevole difensore della Hoggard, rimasto a bocca ed occhi spalancati, che non sembra capacitarsi di dove sia capitato lui e di dove sia finito il suo avversario che intanto gli era… alle spalle. Una scena quasi irreale.

Quattro giorni dopo quella prima gara con la Hoggard High, il 16 dicembre, altra recita e altro spettacolo: la Laney batte la Kinston, come detto una delle migliori formazioni della zona, per 70-61, in virtù dei suoi 26 punti, 12 rimbalzi, 9 assist e 3 stoppate. Mike, in una normale partita di stagione, aveva sfiorato la tripla doppia. Era solo al quarto anno di liceo, ma se il buongiorno si vede dal mattino…


Il Torneo di Capodanno

Jim Hebron, allora coach della New Hanover HS e lo stesso che, assieme a Fred Lynch, aveva portato Michael e gli altri dodici prospetti liceali al Bobby Cremins Camp tenutosi a Boone l’estate prima, non si sarebbe più scordato di quel torneo dicembrino e di quel magrissimo ragazzino che, all’occhio esperto di tecnico, non poteva che apparire di un'altra categoria.

Il tradizionale appuntamento cestistico di fine anno, denominato “Star News/New Hanover Tournament” essendo organizzato dall’omonimo giornale, lo Star News appunto, si giocava alla Brogden Hall, l’impianto casalingo di New Hanover.

«Era una gara pomeridiana e ad un certo punto lui fece un movimento lungo la linea di fondo», avrebbe frugato nella sua memoria Hebron, in un’intervista rilasciata tre lustri dopo. A fianco di Hebron era seduto Marshall Hamilton, il coach di Southern Wayne, la squadra che alla fine dell’incontro avrebbe contato nel proprio cesto 29 “pere” infilate da un incontenibile Jordan: «Marshall mi disse immediatamente: “Quello è un movimento che si fa solo nei professionisti!”. È stato quindici anni fa e mi ricordo come se fosse ieri». Ci crediamo.

La Laney, guarda caso, avrebbe poi finito per incontrare proprio i Wildcats dello stesso Hebron, nella finale del torneo, prevista per il 30 dicembre sempre nella stessa palestra.

Contro le Linci, che all’epoca schieravano il centro il 2.02 Kenny Gattison, futuro giocatore NBA con gli Charlotte Hornets, e l’ala Clyde Simmons, una montagna di 1.97 per 100 kg, in seguito professionista, tuttora in attività, di football come defensive end nei Philadelphia Eagles e in altre squadre della NFL, Jordan mise in scena uno di quegli spettacoli che lo avrebbero reso famoso.

Segnò solo 9 punti nelle prime tre frazioni dell’incontro, e la Laney restò indietro di nove, 38-29, dopo i primi tre quarti di gara. Poi esplose, segnando 18 dei 22 punti finali della sua squadra di cui gli ultimi 15 in appena 4’40’’, incluso il decisivo tiro in sospensione a 2” dal termine che diede il successo, per 51-49, alla formazione del numero 23 dei Bucs. “Swish” puro e score personale di 31.

I Buccaneers avevano vinto il torneo e sembrava più che giustificata la susseguente, inevitabile invasione di campo da parte dei tifosi del piccolo liceo che aveva finalmente posto il primo mattone nell’edificazione della sua tradizione cestistica. «È un grande, grandissimo giocatore ed è capace di fare a chiunque quello che ha fatto a noi» commentò coach Hebron dopo la sconfitta.

Il generale “caduto” in battaglia, consapevole della forza di chi lo aveva battuto, otteneva però il meritato onore delle armi rinfrescando la memoria al suo auditorio su come il suo collega Herring disponeva la formazione della Laney HS quando aveva bisogno di un canestro.

Lo schema forse non appariva molto elaborato né granché nuovo, ma era adatto alla sua star e soprattutto risultava tremendamente efficace, visto che tutti i coach che Michael avrebbe avuto in seguito glielo avrebbero ritagliato su misura, sempre uguale e sempre diverso: quattro giocatori sparsi per il campo, preferibilmente larghi ai quattro angoli , e palla a lui, che poi andava in uno-contro-uno sullo sventurato difensore. O difensori, al plurale, se veniva, come accadeva ormai con impressionante regolarità, raddoppiato o addirittura triplicato.

Questo “gioco”, come vedremo, sarebbe stato presto una costante di tutte le squadre in cui Michael avrebbe militato, o almeno fino all’avvento del celeberrimo e strombazzatissimo Attacco a Triangolo. E hai voglia, povero allenatore avversario, a lambiccarti il cervello nel tentativo di limitare Jordan: puoi costruirgli attorno tutte le box and one del mondo, tanto quello là, se ne ha voglia, te le smonta e rimonta pezzo per pezzo. A suo piacimento.

Sul modo di affrontare Jordan si sono da sempre scervellati tutti gli allenatori che hanno dovuto affrontarlo, quindi nessun stupore se non ci furono eccezioni per quelli che lo avrebbero incontrato nel suo ultimo anno di high school.

«Quando Michael era senior,» ha dichiarato Lynch a Bill Woodward, l’inviato che copre per il Raleigh News & Observer lo sport liceale della zona, «contro di noi incontravamo parecchie “zone” per causa sua, ma non abbiamo riscontrato tante trovate ingegnose. Lui è sempre stato un realizzatore e in quella stagione era capace di segnare tutte le volte che voleva. Era cresciuto fino a quasi 1.96 e quindi era difficilissimo da fermare. Vedendolo ogni giorno, non stavi mai lì a notare quanto bene saltasse. Se lo vedi tutti i giorni, non fa poi tutto quell'effetto. Credo che già allora avesse quella capacità di stare così a lungo in elevazione, ma quando lo osservi in palestra ogni giorno, tendi a non accorgerti di tutte quelle cose che le altre persone ritengono siano davvero speciali. Noi le vedevamo in continuazione e per noi quello era semplicemente Michael. Eravamo convinti che sarebbe andato veramente forte al college e, per via del tipo di gioco che si praticava, questa convinzione non aveva fatto altro che rafforzarsi sempre più: nel lasso di tempo che lo avrebbe fatto arrivare al terzo anno d’università, sarebbe stato un buon professionista. Nel momento in cui gli avversari non sapevano applicare la “zona” o eseguire tutti quei raddoppi, avevo la netta sensazione che il gioco pro sembrasse proprio fatto apposta per lui».

Fra le altre imprese della star dei Bucanieri, tanto per far capire la forza offensiva di quella specie di arma letale dei canestri liceali che andava sotto il nome di Mike Jordan, va citata la gara contro Eastern Wayne, nella quale Michael era arrivato a quota 42, ad un passo dallo stabilire il primato assoluto della scuola per punti realizzati.

Coach Herring, dopo averlo fatto rientrare in campo nel corso del terzo quarto, lo lasciò giocare abbastanza a lungo da consentirgli di segnarne 44 e di eguagliare il record d’istituto (tuttora valido), prima di farlo sedere in panchina, non si sa bene perché, per gran parte del quarto periodo.


Polvere di stella

Ormai era chiaro che tutto l’ambiente del liceo e, più in generale, quello riguardante la piccola Wilmington di lì a poco sarebbero incominciati ad andare un po’ stretti a Michael ed alla fama, per ora di portata poco più che locale, che iniziava a seguirlo.

Eppure, a detta del suo allenatore Herring, la piccola (d’età), grande (di mezzi) star era rimasta “allenabile”, disciplinata e rispettosa dei compagni, coi quali – almeno allora! – sembrava sempre essere andato d’amore e d’accordo.

Inoltre, stando a quanto affermato dal preside McLaurin pare anche che Michael fosse un bravo studente, il che non guastava. «Lo ricordo da ragazzo al liceo – torna indietro con la memoria il principal dell’istituto – era sempre pronto a giocare, a fare i dispetti, a ridere e scherzare. Era un grande atleta ma questo non lo faceva rientrare nella categoria di quelli che pensano di essere chissà chi».

Dopo quel torneo di fine anno, come già anticipato, la fama di Jordan non era più circoscrivibile al solo agglomerato di Wilmington e ogni trasferta dei Bucs diventava un piccolo happening per quelle zone che raramente hanno visto all’opera dei grandi talenti dell’“arancia” di cuoio.

McLaurin, per esempio, ha ancora bene impresse nella mente quelle faticacce sopportate, seppur ben volentieri, nelle occasioni in cui per le gare casalinghe era costretto a chiudere la sua palestra da 1600 posti addirittura un’ora prima dell’incontro perché nell’impianto non ci stava dentro più nessuno neanche a spingerlo.

Per chi fosse ancora scettico sul richiamo e la notorietà che il talento e la spettacolarità di Michael esercitavano, basti il riferimento ad una partita in trasferta della Laney alla Pender High School, altra potenza della zona assieme alla stessa New Hanover e alla Kinston. Quella gara fu spostata a Wallace, ad una quindicina di chilometri da Wilmington, così che una maggiore affluenza potesse beneficiare della possibilità d’essere testimone dell’“evento”. E tutto questo soltanto per una normale partita di un appena diciottenne al suo ultimo anno di liceo.

Lo stesso preside ama ricordare una particolare occasione in cui la propria rappresentativa vinse a Goldsboro, altra cittadina del North Carolina, situata a nord di Wilmington, nella quale, dopo l’incontro , un bambino si mise a correre e palleggiare su e giù per il campo eseguendo qualche sottomano o dei tiri in sospensione, tenendo… la lingua penzoloni come aveva appena visto fare a quel grillo col numero 23.

Ma la notorietà, si sa, è una medaglia con due facce, e quella nascosta, il rovescio, talvolta può non essere altrettanto bella. Il giovane Michael se ne accorse in occasione di una trasferta, e precisamente la gara di ritorno con la Eastern Wayne. 

Reggie Johnson, l’ala forte dei ai Bucs, sarebbe rimasto colpito dall’incredibile competitività che Mike avrebbe messo in mostra proprio in quell’episodio all’apparenza semplicemente antipatico. «Un tifoso della Eastern Wayne si avvicinò a Mike prima della gara mentre stavamo facendo il riscaldamento» avrebbe raccontato in seguito un quasi compiaciuto Johnson «Quel tifoso chiese a Michael un autografo, lui glielo concesse, ma poi il tifoso gli strappò il pezzo di carta proprio davanti alla faccia. 

Mike finì quella partita avendo tra i 27 e i 30 punti e fece qualcosa come cinque schiacciate, quando, prima di allora, da quelle parti non si era mai sentito neanche parlare di un liceale che fosse capace di schiacciare. E quelle di Michael, in quell’incontro, furono schiacciate molto più “pesanti” di quanto lo fossero di solito. Dopo la gara, quello stesso tifoso gli si avvicinò di nuovo, ma Mike non lo riconobbe nemmeno». Anche se, forse, sarebbe più vicino alla verità sostenere che Jordan fece finta di non riconoscerlo. Michael aveva compiuto la sua vendetta e lo aveva fatto nell’unico modo che conosceva. Sul campo.

Dopo quella vittoria al torneo di Natale, la brillante stagione (regolare) della Laney sarebbe continuata sull’onda delle eccellenti prestazioni di Michael.

Nella gara disputata in casa contro Goldsboro, pur sconfitto (58-60), Jordan molla un quarantello tondo, ma questa volta fallisce il tiro decisivo all’ultimo secondo. Un fatto già insolito per uno come lui.

Il 3 febbraio, a due settimane dal diciottesimo compleanno di Michael, la Laney supera la Kinston High per 64-56, con 39 punti di Mike che, a detta di molti, proprio in quell’occasione realizza la sua miglior prestazione di sempre a livello di high school.

Il giorno 10 arriva invece un’altra sconfitta, stavolta in trasferta e per 71-67, con Goldsboro, quell’anno autentica bestia nera dei Bucs.

Guardandola a posteriori, sarebbe stata una battuta d’arresto particolarmente indicativa non tanto per il proseguimento della stagione quanto per il modo con il quale era avvenuta, perché quella vecchia volpe di Norvell Lee, il coach di Goldsboro, aveva intuito uno dei pochi punti deboli, assieme alla difesa non micidiale e alle doti di passatore ancora da affinare, dell’ancora per forza incompleto arsenale tecnico di Jordan, il tiro da fuori. Lee riuscì ad ottenere dai suoi ragazzi di portarlo lontano da canestro e, di conseguenza, complice anche una sua giornataccia al tiro, a vincere l’incontro.

A Jordan, già da allora, piaceva molto tirare in sospensione, e difatti nella sua carriera di professionista, di jump shot, più di un paio ne avrebbe azzeccati, ma Herring gli imponeva di ottenere la maggior parte dei propri punti giocando in contropiede. Lanciato in campo aperto, infatti, Michael era semplicemente inarrestabile. A briglie sciolte come un purosangue nella prateria, nessuno poteva resistergli.

Ancora oggi, dopo che tutti noi abbiamo impresso in maniera indelebile nella mente ogni suo possibile highlight, non possono non colpire le vecchie immagini di quelle scorribande coast-to-coast compiute dal filiforme numero 23 con la scritta “Bucs” sul petto.

Evidentemente in buona giornata, il fenicottero della Laney infila invece 28 “perle” nella vittoria (62-54 su New Hanover) che chiude la regular season. Quella gara aveva visto coach Herring votarsi alla sperimentazione in difesa: aveva schierato Michael come perno centrale in quel primo, appena abbozzato tentativo di “zona” 3-2. I Bucs, intanto, chiudevano la prima fase del campionato con un bilancio totale di 18-3, e uno parziale di 13-3 nei confronti degli altri avversari di division.


Bucanieri senza bottino

Era finalmente arrivato il momento dei playoff e la “giovane” Emsley A. Laney High School, aperta da appena un lustro e quindi totalmente priva di passato, di tradizione cestistica, grazie a quell’acerbo fuoriclasse che aveva nelle sue fila, si sarebbe ritrovata di botto con una formazione tecnicamente superiore alla rivale dell’altra parte della città, quella New Hanover che pure aveva una delle più grandi tradizioni di basket liceale, non solo di Wilmington ma dell’intero Stato del North Carolina.

Nella postseason di quell’anno, i Bucs, proprio per via delle eccezionali prestazioni dell’ormai acclarata superstar, erano accreditati, se non proprio dei favori del pronostico, di avere almeno buone chance di vincere il tanto agognato campionato statale.

E, infatti, dopo aver agevolmente superato un non proibitivo primo turno, la Laney riuscì a spingersi fino alle semifinali del torneo di conference, la competizione che avrebbe proclamato la squadra campione fra i licei dello Stato.

L’incontro che avrebbe potuto portare i gialloblù in finale si sarebbe disputato in casa contro la “solita” New Hanover High, squadra piazzatasi al quinto posto in classifica nonostante gli scontri diretti (tre su tre) ceduti durante la regular season a Jordan e compagni. 

Nella quarta sfida stagionale, quella che in ogni caso sarebbe stato decisiva, New Hanover partì subito forte allungando di 14 all’intervallo. La Laney, guidata da un ispirato Jordan, recuperò fino a portarsi in vantaggio di sei, 52-46, a 45’’ dalla conclusione. Ma i Wildcats furono capaci di segnare ancora un paio di volte, riducendo così lo svantaggio a due miseri punti a 33 secondi dal termine, per poi commettere fallo su, ma guarda un po’, Jordan. Michael però sbaglia entrambi i personali, e New Hanover impatta la gara. Jordan sbaglia di nuovo un tiro e poi, per raggiunto limite di falli, deve uscire. Ronald Jones trasforma i due liberi e porta i Wildcats di New Hanover in finale.

La ragguardevole carriera di high school di Michael Jordan, pur con gli inevitabili onori di All-American delle prep schools, si conclude. Ma male, da perdente.

Il preside McLaurin, non dimenticherà tanto facilmente l’aria pesante che tirava nell’impianto subito dopo la partita. Per i sostenitori dei Bucs era stato un brutto colpo: quella sconfitta non l’avevano presa bene. «Pensai che non sarei più riuscito a far pulire la palestra» avrebbe in seguito raccontato il primo tifoso della Laney. «Ci fu della gente che rimase là ben oltre l’una di notte. Sembrava di stare al cimitero». Esagerazioni verbali a parte, che si manifestano, puntualmente, ad ogni latitudine, il rammarico per aver sprecato la grande occasione fu grosso.

Jordan pianse a lungo dopo quella sconfitta, e con lui lo stesso fece l’intera squadra della Laney. Ma quelle erano forse lacrime “sane”, uno sfogo naturale che chi ha fatto sport, a qualsiasi livello, è perfettamente in grado di capire.

Un’altra testimonianza indicativa è quella portata da Fred Lynch. «Proprio non gli piace perdere» ha dichiarato nel 1998 l’ex assistente di Herring, scoprendo… un’inesauribile falda acquifera di temperatura bollente. «Quando uscimmo dai playoff del torneo dello Stato nel suo anno da senior, ci rimase malissimo, in modo particolare perché perdemmo contro una diretta rivale di contea. Lui è sempre stato così competitivo, in quello non è cambiato e credo che mai lo farà. Così come, fin dai tempi del liceo, ha sempre messo in mostra buona parte delle sue doti di leadership».

Qualche giorno dopo, smaltita un po’ la forte delusione, Coach Herring si rese conto di dove la giovane stella sarebbe voluta arrivare nella sua carriera. Presentatosi al suo allenatore, Jordan, dopo aver chiuso una stagione alla fantastica media di 27.8 punti, 12 rimbalzi e 6 assist a partita, aveva in testa… “un’idea meravigliosa”. Secondo quanto ricordato anni dopo dallo stesso Herring, «Michael prese il suo completo da gioco – quindi non solo la canotta, pure i calzoncini! – e lo pose davanti alla bacheca dei trofei, poi lo portò in palestra, l’appoggiò sulla porta e mi guardò immobile. Voleva che la sua maglia fosse ritirata». Ma forse era ancora troppo presto, magari, chissà, fra qualche anno... Tre , per la precisione.


Il nuovo Magic? No, grazie

La carriera di Mike con la maglia dei Buccaneers era terminata, ma prima di dichiarare concluse le competizioni liceali, rimaneva un’ultima, importantissima vetrina per coloro che erano considerati i migliori prospetti in vista del college, quella degli All-Star che si giocavano in lungo e in largo per il Paese.

Queste partite tra selezioni dei migliori giocatori di high school di tutti gli Stati Uniti avevano però un piccolo impedimento di carattere regolamentare: uno studente di liceo, fino a che fosse rimasto tale, non avrebbe potuto disputarne più di due a meno che non fosse arrivato agli organizzatori il placet che ne sanciva il riconoscimento ufficiale da parte dell’apposito ente supervisore dell’intera attività agonistica liceale dello Stato. 

Naturalmente era tutto interesse dei ragazzi scegliere di presentarsi nelle sfide più importanti, guarda caso quelle promosse dalla McDonald’s, lo sponsor unico che aveva fiutato l’affare. Inoltre, Michael, decidendo di partecipare ad un secondo All-Star Game, avrebbe perso lo status di giocatore liceale e, con esso, la possibilità di continuare a giocare a baseball con la Laney, ma la cosa ormai non lo riguardava più di tanto.

Il 5 aprile Mike gioca il suo primo incontro a Landover, Maryland, dove davanti a una folla di 16.055 pazzi di basket liceale si godono le evoluzioni dei 24 migliori talenti in sboccio della nazione. Le stelline furono suddivise in due formazioni: una, denominata U.S. All-Stars, comprendeva, fra gli altri, Jordan e l’amico e futuro compagno a UNC (anche se all’epoca questi non aveva ancora deciso) Buzz Peterson e Aubrey Sherrod ; l’altra, detta Capital All-Stars, era imperniata sull’interessantissimo Patrick Ewing, un centro di 2.13 m dotato di mano “educata” ma dalla potenza devastante sin dai tempi della Cambridge Rindge and Latin High School.

Le due stelle fecero entrambe un figurone: Mike segnò 14 punti contro i 18 di Ewing, il protagonista assoluto, che di lì a poco sarebbe andato alla vicina Georgetown, la maggiore università della zona. Michael era andato bene, ma ovviamente la caratura di compagni e avversari, tutti di alto livello, non gli aveva permesso di spiccare come accadeva normalmente con la Laney.

Meglio sarebbe andata nel secondo appuntamento, tenutosi, sei giorni dopo, alla Henry Levitt Arena di Wichita, Kansas, dove Jordan regalò ai 10.006 presenti un saggio della sua classe, questa volta corroborato anche dai numeri, che in casi come questo non fanno mai male: per lui 30 punti, con un buon 13/19 dal campo e soprattutto, a 11” dalla sirena, il decisivo 2/2 ai liberi che diede alla propria squadra (la selezione East) la vittoria per 96-95. 

Pur non avendo vinto il premio di MVP di quella gara, andato sorprendentemente a Adrian Branch , futuro freshman alla University of Maryland, Jordan si consolò andando a Springfield, Massachusetts, dove era prevista la cerimonia di premiazione dei dodici migliori prospetti liceali d’America. Michael, assieme a Ewing, anch’egli tra gli eletti, era sulla rampa di lancio.

Un aneddoto curioso chiude la prima fase, quella del liceo, della vita agonistica di Michael. La rivista Parade, che tradizionalmente stila tutti gli anni un accurato elenco dei migliori giocatori di high school di tutti gli Stati Uniti, lo aveva addirittura inserito nel proprio quintetto ideale e per il proprio inserto allegato al numero in cui esso sarebbe stato pubblicato, aveva richiesto alle rispettive scuole di inviare una fotografia degli studenti prescelti. 

Mike Jordan decise di inviare un’immagine speciale, originale, e scelse quella che lo ritraeva appoggiato al cofano di un’auto con una targa particolarissima, Magic Mike, il suo primo soprannome. Ma l’appellativo, su consiglio del suo nuovo coach Dean Smith, che gli avrebbe sussurrato il significato di avere un soprannome proprio anziché riprendere quello di un altro (nel caso specifico il grandissimo Magic Johnson), durò poco.

Così come durò poco il diminutivo di Mike. A Chapel Hill, infatti, l’addetto alle pubbliche relazioni, Rick Brewer, si preoccupò di insistere affinché Michael Jordan fosse chiamato, proprio così, come anagrafe comanda. Ma questa è storia futura perché, ormai, “Mike”, la Laney e il basket di high school erano il passato.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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