CAPITOLO 8 - Ottanta voglia di college (1981-82)


«Faceva cose che le matricole non sono tenute a fare. 
A volte risolveva lui le partite.»
– Sam Perkins, ala/centro UNC (1980-84)

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

Quando la matricola Michael Jordan, nel settembre 1981, incomincia l’università, sono in pochi ad avere la sensazione che il periodo che di lì a poco sarebbe seguito sarebbe stato uno dei più grandi momenti di tutta la storia del college basketball.

L’intero decennio degli anni Ottanta, infatti, sarebbe stato caratterizzato da giocatori dominanti e, cosa ancora più rara, sparsi un po’ dappertutto. Una simile distribuzione di talento avrebbe permesso anche ad atenei di non sempre nobile pedigree cestistico di aspirare ad accedere a traguardi (leggasi playoff) da loro tradizionalmente mancati data la pochezza tecnica.

Gli anni ’80 si erano aperti con il campionato NCAA 1979-80 vinto dai Cardinals della University of Louisville, i quali avevano nella guardia Darrell Griffith (mancino, gran saltatore) e nell’ala al suo primo anno Rodney McCray i propri punti di forza. Pilotata alla grande in panchina dall’eterno coach Danny Crum, Louisville aveva superato in finale, per 59-54, una sorprendente UCLA che, pur reduce da una appena mediocre regular season, era finalmente riuscita, anche se solo per un breve momento, a tornare agli antichi splendori del passato .
In quella stagione, i Bruins avevano battuto in semifinale la gloriosa DePaul University, numero uno del ranking , negando ancora una volta a Ray Meyer, il vecchio nocchiero dei Blue Demons, la chance di giocarsi il titolo della National Collegiate Athletic Association.

Già a partire dalla stagione successiva, quella del Michael esordiente, il numero di giocatori importanti che imbellettano i roster della NCAA sembra, se possibile, crescere ulteriormente. La University of Indiana allenata dal “Generale”, al secolo Bobby Knight, ha come cavallo di ritorno una guardia straordinaria, quell’Isiah Thomas che l’anno prima (’80-81) aveva trascinato gli Hoosiers al titolo ottenuto a spese, guarda che coincidenza, proprio dei Tar Heels (battuti 50-63) di coach Dean Smith. 

Il freshman Jordan, quindi, va ad inserirsi in una squadra il cui telaio è già di primissimo livello. North Carolina, la stagione precedente l’arrivo di Michael, oltre alla valida coppia di Jimmy (la point guard Black e la seconda guardia Braddock) nel backcourt, aveva avuto probabilmente la migliore front line di tutto il pianeta universitario, potendo disporre di una batteria di “lunghi” comprendente la matricola Sam Perkins al centro, il sophomore James Worthy come small forward e Al Wood , ala forte e stella di quella formazione, che però non avrebbe potuto ripresentarsi a Chapel Hill perché, essendo un senior, aveva appena completato il suo quadriennio accademico. 


Ali per volare

Dando una rapida occhiata allo sconfinato panorama tecnico di quella stagione, ci si rende conto della qualità media di una gran generazione di giocatori, soprattutto – eccezion fatta per il già citato Thomas – nel reparto davanti. 

I Cavaliers della University of Virginia, per esempio, puntano molte delle proprie fiches su Ralph Sampson, un “centrone” di 2.22 m dalla mano “morbidissima” che, al termine del campionato, sarebbe stato inevitabilmente nominato Giocatore dell’anno. La cattolica DePaul può contare su due ali del calibro di Mark Aguirre (futuro compagno di Thomas nei “Bad Boys” di Detroit) e Terry Cummings (altro buon pro in varie piazze NBA); mentre alla Brigham Young University la stella è la guardia Danny Ainge, noto caratterino e insignito dell’ambitissima etichetta di All-American e tuttora idolo incontrastato delle legioni di sostenitori biancoblù di oggi. 

Rimanendo nello Stato dei Mormoni, i “cugini” Utes della University of Utah volano sulle ali dell’entusiasmo e su quelle di ruolo: queste ultime rispondono ai nomi di Tom Chambers e di Danny Vranes, mentre Louisiana State University è anch’essa guidata da un’altra ala, Rudy Macklin. A parte i due buoni centri Steve Johnson di Oregon State e Sam Bowie di Kentucky (che rincontreremo…), tanto per completare l’elenco di un’annata di grandissime forwards, perlomeno a livello di college, vanno citate quelle di Wichita State, Antoine Carr e Cliff Levingstone (qualche anno dopo compagno di squadra, come panchinaro doc, e uno dei pochi amici, di MJ ai Bulls); e quella di Notre Dame, Kelly Tripucka.

Ma se è vero, come è vero, che i grandi tornei sono tali perché vi partecipano grandi giocatori, c’è anche da aggiungere che il ritorno di interesse per il basket universitario si deve in parte anche al nuovo formato di apertura del campionato, una fase alla quale possono finalmente partecipare anche piccoli, qualificati istituti. 

Un’altra tradizione a venire meno in quel periodo di inizi anni ’80 è quella della ormai anacronistica “finalina” di consolazione . A quel punto ormai è chiaro: il torneo ha già ottenuto tante e tali attenzioni, da parte di pubblico e media, da convincere gli organizzatori che forse un incontro del genere, alla fine, sarebbe stato inutile se non addirittura controproducente per il “richiamo” del campionato stesso. 

Anche nell’edizione del torneo NCAA 1981-82, nuovi grandi giocatori e nuove contenders, vale a dire le squadre in lotta per il titolo, sembrano spuntare come funghi. Georgetown University entra di diritto nel mai così ampio novero di favorite, per essersi assicurata quella che sembra essere l’ultima tessera del magnifico mosaico che coach John Thompson stava già componendo con i suoi Hoyas, il centro di 2.13 m Patrick Ewing. Pat, che aveva già incontrato Michael negli All-Star per i migliori prospetti liceali della nazione, va a far coppia con l’altra star della squadra, la guardia, anche lui All American, Eric “Sleepy” Floyd, per andare a formare l’asse portante della formazione di Washington che proprio in quell’anno, come avremo modo di seguire da vicino, arriverà a un passo dal titolo.

La stessa North Carolina, però, non sarebbe stata da meno. Anzi. Dopo aver perso la finale dell’81 con gli Hoosiers di Isiah Thomas (23 punti per lui con ben 11 rimbalzi di Ray Tolbert), i Tar Heels appaiono ancora una superpotenza, tanto più dopo aver aggiunto quella guardia freshman così promettente di nome Mike Jordan. 

Onestamente, però, il Jordan di allora, parliamo dell’autunno 1981, in tutto questo florilegio di grossi nomi, c’entra ben poco. Come avrebbe ammesso lo stesso MJ molti anni dopo: «Una volta terminata la high school non ero molto conosciuto, almeno fino a quando non approdai a North Carolina. Nessuno, a Wilmington, credeva che avrei giocato molto, erano tutti convinti che sarei stato quattro anni in panchina per poi tornare a casa e andare a lavorare in qualche distributore di benzina». E visto che suo padre è pure meccanico, il pericolo di andare a finire in qualche autofficina ci sta tutto. Brutto affare, se non si sa neanche cosa è una chiave da 9/16. 

Le vere stelle, lo si sarà capito, che avrebbero consentito ai Tar Heels di mantenere il numero uno del ranking per buona parte della stagione, sarebbero state ben altre. Chi manda avanti la baracca, tecnicamente parlando, non può essere certo quello smilzo al suo primo anno, che, pure, al William Donald Carmichael Jr. Auditorium , ha già fatto vedere buoni numeri durante gli infuocati allenamenti di preseason. I cardini di quella squadra di UNC sono i big men Worthy, junior che è anche la prima scelta offensiva, e Perkins, sophomore dal tiro mancino tanto inusuale nel caricamento quanto preciso nel far frusciare la retina, che gli fa da spalla. 

Per quanto riguarda la situazione dei Tar Heels, dovrebbero essere sufficienti i ricordi di quello allora è il loro numero due del gruppo, Sam Perkins appunto. «Dopo aver creduto di poter vincere il campionato nazionale l’anno prima – dichiara nel 1998 al giornalista Eddy Landreth – arrivò quel certo Michael Jordan per darci un’altra forza su cui poter contare per la stagione 1981-82. All’epoca, non potevamo certo sapere quanto forte sarebbe diventato o che tipo di impatto avrebbe avuto ma avevamo la netta sensazione che con James Worthy e quel supporting cast attorno a lui, avevamo una “squadra”. Non vedevamo l’ora di scendere in campo e giocare. Tutti ci sceglievano come numero uno [del ranking], non che vivessimo per questo, anzi, per la verità non è che ci prestassimo molta attenzione, ma sapevamo di avere del talento in quella formazione». 

Di Indiana e di North Carolina si è già detto ma, all’orizzonte della corsa alla corona NCAA, come serie pretendenti alla vittoria si stanno lentamente delineando anche altre credibili concorrenti. Fintanto che può contare su Sampson, Virginia è sempre da ritenersi una delle contendenti per il successo finale e, nel frattempo, una forza nuova sta emergendo anche nel Southwest, dove la University of Houston sta facendo sfracelli sotto la guida della “confraternita” universitaria di “schiacciatori” denominata “Phi Slamma Jamma”: Clyde (non ancora il “The Glide” di Portland) Drexler, Larry Micheaux e il giovane centro nigeriano Akeem Olajuwon (all’epoca ancora privo dell’americanizzante lettera “h” davanti, e certo lontano parente del “The Dream” dei Rockets). 

La questione, adesso, è sapere quale fra tutte queste grandi squadre sarebbe riuscita ad emergere quando più contava, nelle finali. 


On the Tobacco Road

Usciti dalla statale 501 e seguite le indicazioni per Chapel Hill, ci si imbatte nel magnifico verde che fa da cornice allo splendido campus sede della University of North Carolina, nel cuore della Tobacco Road. A questo punto accade un cosa strana: uno crede di aver appena raggiunto quella che, per chi “vive” di “arancia e tabella”, è la terra santa del college basketball e invece si accorge che, una volta arrivato lì, non può lanciare un sasso senza colpire un’altra delle sacre istituzioni del basket universitario. 

Sempre lungo la Via del Tabacco, infatti, nel giro di qualche miglio, si incrociano, oltre alla già menzionata UNC, altre cattedrali della boccia a spicchi che rispondono al nome di Duke, North Carolina State e, forse a un paio di livelli più sotto, Wake Forest. Con tutti questi college di gran nome sparsi nel raggio di pochi chilometri , la Atlantic Coast Conference (ACC) che li comprende tutti e quattro – oltre ad altre autentiche corazzate quali Virginia, Georgia Tech, Clemson, Maryland – appare naturalmente come uno dei migliori raggruppamenti dell’intero panorama del college basketball. Sapevamo dei pericoli del tabagismo, ma non credevamo desse anche le vertigini…

Quella dove sorge la casa dei Tar Heels è una zona che da sempre “profuma” di grande tradizione cestistica. Con vicini di casa che su un parquet lucido sono capaci di diventare particolarmente inospitali e che sono più conosciuti come Blue Devils, a Durham, con i quali la rivalità è fortissima (i tifosi si odiano), e Wolfpack, a Raleigh: da queste parti o sai giocare, e bene, a basket o è meglio che cambi aria. 

Se, invece, lo studente che decide di iscriversi da queste parti non è un fenomeno dei canestri, allora o è ricco sfondato, vista la retta annuale che non definiremmo esattamente popolare – a Duke si “viaggia” almeno a trentamila dollari l’anno (!) e a North Carolina siamo lì –; o è un gran cervellone, perché la lista di “teste d’oro” che si sono laureate qui è impressionante; o è tutte e due le cose. A Chapel Hill, premi Pulitzer, maghi della chimica, politici o quant’altro si voglia non si contano più; a Duke, medici e avvocati la fanno da padrone; insomma, chi esce da atenei del genere, ammesso e non concesso che non riesca a campare col basket, non rimane certamente a spasso. 

Anche se i campus di Duke e di UNC distano un pugno di chilometri l’uno dall’altro, in questo fazzoletto di terra baciata da quella divinità dei tabelloni che un Gianni Brera cestistico avrebbe definito la Eupalla del parquet, per misurare la “distanza” tra i due college si deve adottare un altro sistema di misura che non sia quello delle lunghezze. 

A North Carolina si iscrive la “crema” della gioventù dell’alta borghesia locale, il Sud “più sud” degli USA, con tutto il suo carico di tradizione ed ospitalità ma anche coi suoi bravi soldini. A Duke vanno invece gli yankees di buona famiglia, i ricchi rampolli del Nord-Est dell’Unione (non solo di New York e di Washington ma anche, per esempio, dello Stato del New Jersey), i quali, anziché andare nei “soliti” college di casa loro (Harvard, Yale e tutto il nobile resto della Ivy League ), decidono di diventare Cameron crazies, i “pazzi” che dormono nelle tende di fronte all’impianto di gioco dei Blue Devils, il Cameron Indoor, la notte prima delle gare per fare la fila al botteghino.

Con questo tipo di backgorund cestistico, non appare blasfemo asserire che il buon Mike fosse in buona sostanza un illustre sconosciuto quando mise piede per la prima volta a Chapel Hill, quella specie di paradiso terrestre che, più che un campus universitario, è una vera e propria città (162 edifici accolgono ogni anno circa 25.000 studenti!). Anche se il debuttante Jordan è sicuro del fatto suo, certo di essere pronto per essere gettato sin da subito nella mischia di biancoceleste vestito, coach Smith, osservati attentamente gli allenamenti autunnali e nonostante il suo occhio clinico sia ben consapevole del talento del giovane prospetto, non ne condivide appieno l‘opinione, anche perché a North Carolina i freshmen devono, per tradizione e rispetto delle gerarchie, compiere la necessaria gavetta. Ma il tecnico deve ricredersi, in quanto, durante gli allenamenti, Jordan si guadagna indiscutibilmente il suo bravo posto da titolare nella squadra ai vertici del ranking del Paese, prima ancora di aver mai giocato una sola partita ufficiale a livello universitario. Michael sarebbe andato così a completare uno starting five che comprende Sam Perkins nel mezzo, James Worthy all’ala forte, Matt Doherty all’ala piccola e Jimmy Black come point guard.

Durante gli esercizi d’uno-contro-uno negli allenamenti autunnali di precampionato, Smith si è reso conto che «non avevamo nessuno che riuscisse a marcarlo»; la cosa certamente vuole significare che Jordan è stato pressoché immarcabile, ma, vista da un’altra prospettiva, anche che a UNC non c‘è nessuno capace di marcarlo. Il ragionamento è corretto perché difficilmente nella ipercompetitiva ACC, una delle conference più probanti di tutto il tabellone universitario, sarebbe sempre andata così. Anzi. 

Il sistema di gioco di Coach Smith da sempre enfatizza la disciplina tattica e il gioco di squadra; il suo sistema, che impropriamente si è soliti definire “egualitario, è l’apoteosi della democrazia (intesa nel senso della distribuzione della palla) e delle pari opportunità (di tiro). Anche se non faremo la figura barbina di sostenere che uno più scarso toccasse il pallone o tirasse lo stesso numero di volte di uno più bravo, diciamo perlomeno che, con il gioco di Smith, lo squilibrio è meno accentuato. 

In precedenza, erano passati da Chapel Hill giocatori dal talento straordinario e, come era accaduto a loro, anche da Jordan lo staff tecnico si aspetta che egli sacrifichi la prodezza individuale, la giocata spettacolare per il bene della squadra. Quando Michael, successivamente, diventerà il più prolifico realizzatore dei Tar Heel e quando poi avrebbe dimostrato di saper mantenere straordinarie medie realizzative nei pro, la battuta che inesorabilmente avrebbe preso a circolare sarebbe stata: «Chi è l’unico uomo che è riuscito a tenere Michael Jordan sotto i 20 punti di media a partita? Risposta: Dean Smith». Infatti, MJ, nelle sue tre annate a UNC, avrebbe avuto rispettivamente 13.5, 20 e 19.6 punti per gara, per una media complessiva di 17.7 punti a partita nei tre campionati disputati, cifre comunque ben lontane dai 31.5 punti di media di regular season e dagli addirittura 33.4 di playoff realizzati nei suoi 13 campionati con i Bulls. Che avessero ragione i professionisti della “battuta” in servizio permanente effettivo? 

Scherzi a parte, Smith, che pure predica un gioco controllato e bilanciato tra le posizioni, insegna a Jordan un’inestimabile lezione sull’importanza del lavoro di squadra, che sarebbe poi stata la chiave di volta per la sua successiva evoluzione da semplice, per quanto grande, superstar della NBA a... (sei volte) Campione NBA. Per di più, i totali realizzativi di Michael a UNC possono anche non apparire astronomici, soprattutto se paragonati a quelli che avrebbe ottenuto a Chicago negli anni a venire, ma intanto il Jordan del college non era la prima opzione offensiva, questo perlomeno limitatamente al primo anno, e, in ogni caso, mere statistiche a parte, la sua carriera universitaria sarebbe stata lo stesso eccezionale, fin dalla prima stagione, quella che in genere agli altri, ai freshmen “normali”, serve quasi esclusivamente per imparare. A quelli “normali”, appunto. Solo che quel freshman, sottilissimo come un giunco, tanto “normale” non lo era. «Michael era bravo,» è il ricordo di Perkins nel ’98, a diciassette anni di distanza da quella magica stagione, «naturalmente non quanto lo è oggi. Eppure ebbe subito un impatto, in modo particolare quando giocavamo nella nostra lega [la ACC], ovverosia quando incominciò a crescere sempre di più, esibendo tutte quelle schiacciate e tutti quei movimenti» che sarebbero diventati, aggiungiamo noi, il marchio di fabbrica del primo Michael Jordan, quello tutto scatti e balzi, giocate tanto spettacolari quanto efficaci. Quel Jordan che però basa gran parte del suo gioco sulle doti fisiche, sulla creatività e sull’improvvisazione, prima ancora che sulla tecnica di base e sull’intelligenza cestistica, qualità, queste ultime, all’epoca naturalmente ancora da affinare. «Prese quota rapidamente» continua Perkins. «Era solo una matricola e anche se i primo anno non sono obbligati a giocare “veramente”, quel ragazzino di Wilmington doveva giocare. Faceva cose che i freshmen non sono tenuti a fare. Certe volte risolveva le partite». Un vizio che, evidentemente, ha sempre avuto. E che non avrebbe mai perso.

Il 28 novembre 1981 succede quello che, a partire dalla stagione ’72-73 , era accaduto ad altre sole dieci persone: sotto coach Smith, infatti, soltanto una decina di matricole era riuscita a partire subito in quintetto con i Tar Heels. Michael era l’undicesimo e il primo a stupirsene è proprio lui. Si dichiara «sconvolto nel leggere il mio nome scritto da coach Smith sulla lavagna» ma in cuor suo, crediamo, non può aver fatto a meno di ripensare a un altro appuntamento con le liste, quello che aveva “fallito”, a quindici anni, quando “Pop” Herring e Fred Lynch non lo avevano promosso alla varsity. Sono passati solo tre anni, sembrano tre secoli.

La gara d’esordio di Jordan al college si gioca in casa ma non al Carmichael Auditorium. I Tar Heels, infatti, disputano l’impegno interno... fuori casa (nel caso specifico al Charlotte Coliseum , sempre nel North Carolina) come saltuariamente può capitare per dar modo ai tanti tifosi biancoblù che UNC annovera in tutto lo Stato di ammirare anche a domicilio le prodezze dei propri beniamini. 

L‘esordio di Michael è salutato dalla vittoria su Kansas (75-67) e vede come corollario un tabellino che fa registrare cifre più che discrete, tanto più se riferite ad un freshman e per di più al debutto assoluto: con 12 punti (dietro a Worthy, che ne fece 23, è il secondo marcatore dei suoi), 2 rimbalzi, un assist e un recupero, con 2 falli personali. Jordan non tira molto e neanche benissimo dal campo (5/10) ma è preciso (2/2) dalla lunetta; inoltre c’è un segnale di buon auspicio: sono suoi i primi due punti di North Carolina della stagione. E, come vedremo, saranno suoi anche gli ultimi due. Questo, però, la matricola Jordan, non poteva saperlo.

Il 30 novembre i Tar Heels, in teoria alla loro seconda partita “casalinga” consecutiva, si trasferiscono a Greensboro , sempre nel North Carolina, dove al locale Coliseum (la fantasia, nei deputati alla scelta dei nomi delle arene, sembra essere una qualità rara) affrontano la Southern California University. Anche con SCU, però, MJ si rivela “imparziale” e non fa differenze: infatti, rifila loro 12 punti (ma con un brutto 6/14 al tiro, 0/1 ai liberi) e un assist. 

Finalmente, tre giorni dopo, arriva il momento tanto atteso del vero debutto casalingo, a Chapel Hill. Al Carmichael Auditorium (l’avversaria è Tulsa) Jordan segna 22 punti (sarebbe stato il suo high stagionale), con un ottimo 11/15 dal campo, 0/1 in lunetta, 5 rimbalzi, 3 assist e ben 4 recuperi che, uniti a due “affondate” memorabili, incominciano a far circolare le prime entusiastiche voci su quella matricola fenomenale. La stagione procede tra alti e bassi di Michael e tra alti e... basta per la squadra, che perse in tutto appena due partite (entrambe tra i mesi di gennaio e febbraio ’82). 

L'apice, che non si evince dalle nude cifre ma dal modo in cui si sta in campo, MJ lo ottiene il 13 gennaio, quando affronta, nel suo personalissimo derby, la squadra di cui da ragazzino era tifoso, NC-State. Contro i Wolfpack, nella gara (vinta con un margine di venti, 61-41) giocata al Reynolds (indovinate un po’)… Coliseum, Michael raggranella 20 punti, 4 “carambole” colpendo bene (9/12) dal campo e perfettamente (2/2) dalla linea. Altre tappe di avvicinamento al momento-clou della stagione, le Final Four, sono le vittorie in casa contro Maryland (12 punti, con 5/11 dal campo, 2/4 ai personali, un rimbalzo, 3 assist e due palle rubate). 

Curiosamente, la partita di andata, in trasferta, era stata molto simile dal punto di vista delle cifre (in quell’occasione, 5/9 al tiro con 2/3 dalla linea, 4 rimbalzi, ancora 3 assist, un recupero e gli stessi punti totali, 12). Dopo aver chiuso la prima fase della stagione, Michael e compagni affrontano nella prima sfida del torneo di Conference (come detto, la ACC) Georgia Tech e per Michael ci sono 18 punti, segnati tirando benino dal campo (8/13) e maluccio dalla linea (2/4), ai quali si aggiungono 3 rimbalzi e 3 assist.

È il momento della finale del Torneo di Conference e l’avversaria, quel 7 marzo, è la decantata Virginia University di Ralph Sampson, il secondo dei due atenei destinatari (il prima era UCLA, unico vero oggetto dei desideri universitari di Michael) delle lettere che Mike aveva scritto assieme al suo coach di high school, Clifton Herring, per ottenere una borsa di studio per meriti agonistici. 

Nei due scontri diretti di regular season Jordan aveva rifilato a Virginia rispettivamente 16 (in casa) e 17 punti (in trasferta), ma in entrambe le occasioni i Cavaliers erano sempre apparsi particolarmente ostici (i Tar Heels avevano subito proprio da VU la loro seconda sconfitta stagionale) soprattutto per via della dominante presenza di Sampson nell’area “pitturata”. 

Dopo un primo tempo chiuso a +3 (34-31 per North Carolina, con un grande Worthy, che all’intervallo è già autore di ben 16 punti), Michael innesca il turbo segnando 4 dei primi 5 canestri, ed è in quel momento che “scende in campo” coach Smith, il quale ordina ai suoi di eseguire quel “frigorifero” del gioco che è il Four Corners Offense. Con i Tar Heels a far circolare la sfera e a congelare la manovra, si arriva senza danni al conclusivo 47-45 che, finalmente, proietta North Carolina nel torneo NCAA.


Finally Four

Nella parte alta del tabellone, i Tar Heels sono i primi a qualificarsi per le Final Four, ma per North Carolina arrivare a tagliare quel traguardo non è esattamente una passeggiata. Nel secondo turno del torneo NCAA, il 13 marzo, UNC batte a fatica (52-50, con appena 6 punti e un rimbalzo per Michael, che tira col 3/8 dal campo e con 0/2 ai liberi) quella James Madison che nel turno precedente aveva eliminato Ohio State. 

Promossa alle Semifinali dei Regional nel girone East, il 19 marzo North Carolina affronta Alabama, testa di serie numero 4, che il giorno 14, quindi con 24 ore di riposo in meno ma pur sempre con cinque giorni per recuperare, aveva superato di un punto (69-68) St. John’s, la testa di serie numero 5. I Tacchi Incatramati vincono 74-69 con un migliorato Michael (per lui 11 punti, raccolti tirando con uno scarso 50% da due, 3/6, e senza errori, 5/5, dalla lunetta), capace di dare un contributo anche in rimbalzi (3) e assist (3) e con una palla rubata. 

Dopo aver vinto un paio di partite molto tirate e giocate punto a punto, il 21 marzo UNC supera, 70-60, anche Villanova (reduce dalla semifinale di Regional vinta 70-66 su Memphis). Jordan è capace di segnare di più (16 punti, con 5/9 dal campo e 5/7 dalla lunetta) ma ha una lieve flessione nelle altre categorie statistiche (un rimbalzo, un assist e 2 recuperi). La prima finale dei Regional va ai Tar Heels, che si sono conquistati così il diritto di andare a New Orleans, sede stabilita per la fase finale del torneo NCAA. 

La seconda a farcela, sempre per la parte superiore del cartellone, è Houston, che batte 99-92 Boston College nella finale dei Regional per il Midwest. Nella parte bassa del tabellone, a staccare il biglietto per New Orleans sono Louisville, che nel Midwest Regional sconfigge 75-68 la piccola Alabama-Birmingham dando così a Coach Danny Crum la sua seconda presenza alle Final Four in tre anni, nel Midwest, e, infine, Georgetown. Assegnati ai West Regionals, il pressing attack degli Hoyas distrugge tutti, compresa Oregon State (battuta 69-45), quarta classificata nel ranking, la cui partecipazione al torneo di quell’anno, come avvenuto per Memphis, era stata sancita d’ufficio.

Con Sam Perkins a raccogliere 25 punti e dieci rimbalzi, il 27 marzo North Carolina sferza Houston 68-63 nella prima semifinale nazionale (per Michael altro 50% dal campo, 7/14, e 100% dalla linea, 4/4, nei 18 punti finali, con la gradita aggiunta di 5 rimbalzi e 2 assist), mentre, nell’altra, giocata nello stesso giorno per ovvi motivi di equità, Georgetown riesce a passare su Louisville dopo un’aspra battaglia vinta alla fine per 50-46. 

I giochi sono fatti: al Superdome, avveniristico e colossale impianto di New Orleans, ci sarebbe stata la finale nazionale fra North Carolina e Georgetown. In Louisiana, il 29 marzo 1982, davanti a 61.612 tifosi vocianti, quella sfida si rivela uno dei più classici match ups (duelli) dell’intera storia del college basketball. Un sogno (ad occhi aperti) stava per avverarsi.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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