CAPITOLO 5 - La prima svolta (1979-80)


«Pop Herring fece una grandissima mossa prima della stagione da senior di Michael. Avevamo provato ogni tipo di difesa su di lui da junior, avversari che lo raddoppiavano o triplicavano. Per risolvere il problema di come servirlo, lasciavamo che fosse lui a portare palla».
– Ron Coley, assistant coach Laney HS

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

In seguito al suo vertiginoso e rapidissimo sviluppo verticale – Michael, passato dal metro e settantotto del suo secondo anno di liceo al metro e novantuno del terzo, cresce di quasi tredici centimetri in appena un anno –, Jordan si presenta agli allenamenti per la nuova stagione con un fisico che in non pare il suo. Ora ha un corpo da ala vera, ovviamente a livello di high school, con doti tecniche da point guard pura e la ormai acquisita proverbiale, ineguagliabile etica lavorativa. «Michael si arrabbiava quando, secondo lui, facevo terminare l’allenamento prima del tempo» ha raccontato in più di un’occasione Herring. «Ricordo che mi diceva: “Coach, abbiamo bisogno di lavorare ancora”». 

«Mike era il miglior giocatore che avevamo - lo segue a ruota negli elogi Fred Lynch - anche da junior. Lui ha sempre avuto delle buone qualità cestistiche e in precedenza aveva sempre giocato guardia perché era il più basso. Crescendo, il suo talento e la sua esperienza non fecero che rendergli tutto più agevole. Tutti rispettavano il suo modo di giocare perché giocava sempre duro. È sempre stato un gran lottatore ed è questo che ammiravamo di più in lui. Già allora giocava quasi come fa oggi: per vincere».

Coach Herring, in seguito sostituito come head coach della Laney High dallo stesso Lynch, il primo dei suoi assistenti, che, evidentemente, alla prima occasione gli avrebbe fatto un bel paio di… “scarpe” nuove, è tutt’altro che uno sciocco e quindi non solo finalmente si decide a scegliere Jordan per la varsity ma, considerata la sua spaventosa e rapidissima crescita, non ci pensa due volte a schierarlo addirittura come... ala titolare. 

Per dovere di cronaca, sulla questione del ruolo va però precisato che quell’anno i Bucs giocano, presumibilmente per esigenze d’organico, con un quintetto piuttosto basso. Lo starting five comprende, infatti, un terzo “piccolo” nello spot di numero “3”, quello classico di small forward, oltre ai due del backcourt, per andare a comporre un quintetto base che vede Schrivar e Parker come guardie, il già citato Mike Jordan all’ala piccola, Bragg all’altra ala e il solito Smith nel mezzo. E Larry Jordan dov’è finito, vi chiederete. In panca, vi sentirete rispondere. 

Nella sua prima partita con la varsity, esordio datato 30 novembre 1979, Michael, che indossa il 23 di maglia (il 45 ce l’ha il fratello, che però non è più titolare), segna 35 punti nella vittoria (per 81-79, dopo due tempi supplementari) della Laney sulla Pender. Una prestazione - già di per sé eccezionale per qualsiasi debutto e a qualsiasi livello - che tuttavia gli vale solo la seguente lapidaria menzione nell’edizione del Morning Star del giorno successivo: «Mike Jordan ha fatto 35 punti accendendo la scintilla che ha innescato la vittoria dei Bucs». Tutto qui, una misera ultima riga di un piccolissimo “pezzo” che, assieme al tabellino (Smith, 14 punti, fu il secondo miglior marcatore), riassume tutta la partita. 

Un’altra tappa decisiva nel cammino fitto d’impegni della rising star, l’astro nascente, dei Bucanieri, capita nell’ormai consueto torneo di fine d’anno. 

Il tradizionale appuntamento, da quelle parti molto sentito, ha la particolarità di avere sempre tra le iscritte, una formazione proveniente da un altro Stato, e ogni anno gli organizzatori si industriano nell’invitare compagini di buon livello tanto per dare un po’ di sale tecnico alla manifestazione; quell’anno tocca alla Holy Cross High School, un liceo di Flushing, periferia orientale di New York. E guarda caso è proprio la Holy HS che i Bucs devono affrontare nella semifinale del torneo. 

L’antivigilia di Natale del 1979 poco meno di 1500 spettatori, dopo un tempo supplementare, assistono all’eliminazione della Laney, sconfitta 65-61, ad opera del liceo il cui nome tradotto suona come “Santa Croce”. Mike segna 22 punti ma non coglie l’attimo in ben due momenti decisivi. 

Sotto di due a 45’’ dal termine, i Bucs, con Jordan in lunetta, hanno la possibilità di pareggiare le sorti dell’incontro, ma il punteggio, che è di 51-53 per gli ospiti, rimane tale anche dopo l’esecuzione dei due liberi, entrambi non a bersaglio. 

Michael poco dopo avrebbe avuto una seconda chance. I Buccaneers riescono lo stesso ad impattare il match grazie a Dave Lettire, che segna a 31” dalla fine. Holy Cross, nel tentativo di chiudere la contesa prima della sirena, perde palla e Michael, sul ribaltamento di fronte, a 2’’ dallo scadere dei tempi regolamentari, esegue un jumper dall’altezza della linea del tiro libero, ma la sua conclusione muore sul ferro. 

All’overtime, per i Bucanieri si ripropone una situazione analoga: con la sua squadra in svantaggio di due (60-58) a 26’’ dalla fine dell’incontro, Michael ha la palla in mano ma è chiuso bene dagli avversari; intelligentemente Jordan non forza la conclusione e “scarica” al compagno Murphy, la point guard, che però si fa fischiare ingenuamente uno sfondamento. Sull'immediato intervento difensivo dei gialloblù della Laney, mirato a recuperare il possesso di palla, c’è un altro fallo al quale seguono reiterate proteste. Morale? Due “liberi” per il fallo commesso più un personale aggiuntivo per il fallo tecnico diretta conseguenza delle parole grosse che sono volate. Tutti e tre i tiri vengono realizzati, punteggio di 59-63 e palla in mani newyorkesi. 

I Bucs fanno subito fallo per fermare il cronometro, ma Preston Johnson, l’infallibile guardia della Holy, realizza un altro 2/2 dalla lunetta portando il punteggio sul 59-65 per la Holy HS e, di fatto, tagliando le gambe alla Laney. Jordan chiude la gara con una schiacciata a fil di sirena che però serve ormai solo agli statistici: partita conclusa sul 61-65 e “dannati yankees”, come chiamano al Sud tutto ciò che proviene dal Nord-Est dell’Unione, in finale. 

Se in quella rara occasione del torneo natalizio edizione 1979 Michael Jordan non è stato all'altezza delle attese, in mille e più circostanze, nel corso della stagione, si sarebbe rifatto venendo fuori nei momenti decisivi. 

Del giovane MJ va per esempio ricordata una gara di fine gennaio 1980, che viene da lui decisa con due tiri liberi realizzati a tempo quasi scaduto. Nell'occasione, la Laney batte la sempre quotata Kinston (Jerry Stackhouse non vi dice niente? Be’ lui ha giocato lì) facendo leva sulla premiata ditta “Jordan Bros.”: prima incomincia il maggiore, Larry, segnando in penetrazione a 25” dalla conclusione portando il punteggio sul 53-51, poi, il più piccolo, Michael, completa l’opera infilando i due liberi decisivi con appena 3’’ rimasti sul cronometro. Che coppia quella coppia! Sentite Herring, quello che ebbe la fortuna di allenarli: «Se invece di 1.72 m Larry fosse stato 1.90 m, adesso staremmo a parlare di un certo Michael Jordan come del fratello di Larry e non viceversa». Capita l’antifona?

Jordan risponde con un'eccellente stagione alla chiamata dell’allenatore ma la squadra chiude sul 15-7 e, cosa peggiore, per ammissione dello stesso Herring, non riuscendo mai, come si dice in gergo cestistico USA, ad essere un factor, né per la vittoria del torneo né lungo il cammino di regular season. 

Ma entro la fine dell’anno, per le sorti agonistiche della Laney ci sarebbe stato sì un “fattore” decisivo e si sarebbe chiamato Mike Jordan. «Era già forte agli inizi del suo anno da junior, ma nelle ultime cinque o sei partite sembrava come sbocciato», sostiene un ammirato Jim Hebron, all’epoca allenatore della New Hanover High e che negli anni avrebbe fatto una buona carriera arrivando fino all’incarico di assistant coach a Georgia Tech. 

Marshall Hamilton, l’allenatore della Southern Wayne, prima di affrontare con la propria formazione Jordan e compagni, coglie degli aspetti che sarebbero potuti sfuggire all’occhio di un normale tifoso ma che costituiscono invece pane quotidiano per gli affilati denti di un coach: «I miei giocatori si trovano in difficoltà ad affrontarlo perché c’è un altro dettaglio che lo rende fortissimo, la capacità di saper aspettare. Se fosse solo un semplice tiratore, riusciremmo a contenerlo obbligandolo, con dei raddoppi, a forzare delle conclusioni, che, inevitabilmente, finirebbero per essere mal selezionate, ma con lui questo non succede mai”. 

Anche se poi nella semifinale di Division II, dopo un supplementare, sono proprio i ragazzi di Hamilton ad avere la meglio sui Buccaneers, ormai in tutto lo Stato sono in pochi a nutrire dubbi: l’ex sconosciuto “Mike” Jordan avrebbe sfondato. 

Come anticipato da Hebron, soprattutto in quell’ultima parte della sua stagione da junior, le sue doti da star del parquet incominciano ad emergere in modo talmente evidente da non poter più essere trascurate. Tanto che perfino qualche non scrupolosissimo giornalista di quelle parti deve imparare a scriverne correttamente il cognome: Jordan e non «Jordon», come era stato erroneamente pubblicato in qualche quotidiano locale. 

Pur essendo ancora solo un ragazzino di diciassette anni, Mike è già convinto che, se vale la pena di fare qualcosa, sia necessario non solo farla bene ma strabene e quindi, coerentemente con le proprie convinzioni, una volta terminati gli allenamenti con la varsity, non di rado gli capita non solo di non lasciare la palestra come fanno tutti gli altri ma di… raddoppiare, partecipando anche alle sedute dei colleghi della junior varsity, sua ex formazione dell’anno prima. 

Come avrebbero presto scoperto i suoi futuri compagni, in tutte le squadre e ad ogni livello, Michael fissa degli standard elevatissimi, ma non solo per sé, indirettamente lo fa anche per loro perché lui è il primo ad arrivare e l’ultimo ad uscire dalla palestra. Michael si aspetta che quelli che giocano con lui continuino ad esercitarsi all’infinito, dando tutto quello che hanno e talvolta anche di più. Non sempre tale atteggiamento sarebbe stato apprezzato da chi lo circondava, e questo vale per tutto l’arco della sua carriera, ma Jordan fin da allora è convinto che una squadra sia tanto più forte quanto lo è il suo anello più debole. La stessa filosofia che lo avrebbe accomunato, molti anni dopo, a Phil Jackson, il coach dei Bulls esacampioni NBA.

La stessa feroce determinazione che in quell’ultima parte del suo terzo anno di liceo mette in allenamento, Jordan incomincia a profonderla nell’insistere a voler avere la palla quando conta, perché sente montante dentro di sé la sicurezza di essere lui, più di chiunque altro nella squadra, a poter realizzare i tiri decisivi. 

La Laney, che pure prende un’altra sonora scoppola fallendo di nuovo la conquista del titolo di conference, si consola per aver trovato la testata d’angolo sulla quale costruire una grande prossima stagione, anche se lo staff tecnico della scuola era ben consapevole che la bella favola sarebbe durata quel solo anno, quello da senior di Mike. 

In realtà, pur avendo giocato benissimo nello scorcio finale del suo terzo anno di high school, Jordan termina l’annata con, tutto sommato, poche attenzioni da parte dei recruiter dei grandi college, quelli, per intenderci, di Division I. 

In quell’estate Michael, appena nominato nella squadra All-Hanover County, una formazione ideale, stilata dal giornale locale Star-News, che raggruppa i migliori giocatori della contea di Hanover, partecipa ad alcuni camp nel North Carolina nei quali però non riesce a fare una grandissima impressione. 

Questo almeno fino a quando Roy Williams , incomincia a tenerlo d’occhio da vicino al prestigioso camp di Dean Smith , tenutosi nel luglio 1980 a Chapel Hill, sede del bellissimo campus della University of North Carolina. Williams, favorevolmente impressionato dalle sue qualità, raccomanda (in senso buono, cioè lo segnala con particolare trasporto) Jordan agli organizzatori del miglior camp della nazione, il Five Star Camp di Pittsburgh, Pennsylvania, gestito dal grande cacciatore di talenti Howard “Howie” Garfinkel e dal fido Will Klein. 

Il Five Star, uno dei più rinomati camp di tutti gli Stati Uniti e dal quale, fra gli ormai oltre cinquemila talentuosi prospetti, sono passati nomi del calibro di Isiah Thomas, Moses Malone, Dominique Wilkins, Mark Aguirre , i fratelli Jim e John Paxson, Alonzo Mourning, è suddiviso in tre sessioni di una settimana ciascuna, e Michael vi arriva per le ultime due, essendo la prima di esclusiva pertinenza dei senior più reclutati. MJ, ancora un terzo anno, non può essere fra questi. 

Quel poco considerato e soprattutto misconosciuto diciassettenne proveniente dalla Laney HS, lascia comunque il segno. Tra i suoi coetanei Jordan è il migliore: vince l'MVP del camp in ciascuna delle due ultime settimane, come detto le uniche in cui può essere presente, accumulando ben cinque trofei personali nei primi sette giorni di allenamenti ed altri quattro premi individuali (un record) nei secondi sette, ed ottiene l’invito anche per l’anno successivo. 

Allenatori provenienti da tutto il Paese rinangono impressionati non soltanto dalle doti di elevazione, peraltro già straordinarie, di Michael, ma anche dal suo talento nel mettere la palla a terra per poi esplodere a canestro. Tutti i dubbi che MJ ha sulle sue qualità, sulla sua capacità di poter competere non solo con i suoi pari della Laney e delle high school del circondario ma anche con i migliori dello Stato, diventano semplicemente risibili non appena i college sudorientali incominciano a chiedere informazioni per reclutarlo. 

Per sua stessa ammissione, quel camp «fu il punto di svolta della mia vita». Anche se Fred Lynch, che è stato il suo allenatore in nona classe (la prima formazione superiore alla media in cui il giovane MJ finora ha militato) ci tiene a sottolineare che «[Michael] è sempre stato sicuro di sé, non ci voleva il camp per far sì che si rendesse conto cdi saper giocare», si era giunti solo adesso al momento cruciale: Mike ora sa di poter diventare una star.

Forse ancora non lo sanno gli altri, visto che Jordan non riesce ad entrare nella lista dei 300 migliori prospetti di high school d’America pubblicata dall’annuario-bibbia Street & Smith’s. Letto e riletto l'elenco, la cosa lo fa infuriare al punto da fargli gettare il popolare almanacco nella spazzatura. A quindici anni il suo nome non era in quella dannata lista per la varsity, a diciassette non figura in questa: adesso basta, enough is enough.

Per tutto questo, e per molto di più, a differenza di tante star del basket di liceo, Michael continua anche a studiare seriamente, non si sa mai.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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