CAPITOLO 9 - Un sogno a occhi aperti
«Tanta gente neanche sapeva della mia esistenza, fino a quando non segnai quel tiro. Capii subito che sarebbe cambiato tutto: avevo vinto un titolo nazionale, si incominciava a riconoscere il mio talento e a pubblicizzarlo. Quel canestro mi ha messo sulla mappa».
– Michael Jordan
«Quel tiro mi diede più fiducia, per migliorare come giocatore, di qualsiasi altra situazione. È impressionante pensare a come le cose sarebbero cambiate se avessi sbagliato».
– Michael Jordan
«La tua vita non sarà più la stessa, dopo quel tiro».
– James Jordan
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael "Air"Jordan
© Rainbow Sports Books
Michael "Air"Jordan
© Rainbow Sports Books
La mattina presto, avrebbe in seguito confessato la matricola pelle e ossa proveniente da un piccolo liceo di Wilmington, aveva provato una strana sensazione e, mentre era in viaggio nel pullman della squadra verso il Superdome, l’immensa arena di New Orleans, in Louisiana, aveva fatto un sogno. Un sogno a occhi aperti. La scena è questa. Gli ultimi secondi scorrono sul cronometro, mentre in migliaia attendono in silenzio, trattenendo il fiato, tutti con gli occhi fissi sul pallone che si arresta nell’impatto con le lunghissime, dinoccolate dita, protese ad afferrare la palla, di quel freshman che si ritrova tutto solo, piazzato là nell’angolo. Il ragazzo abbranca quel passaggio, fa un passo in palleggio, poi si stacca dal parquet. Ma ecco che, ehi!, quel fascio di muscoli e nervi sembra non smettere più di salire e tutti, ma proprio tutti, in campo come in panchina, sugli spalti come nei salotti e nei bar di un’intera nazione diventata pazza per questo sport, si chiedono se mai ridiscenderà. Poi, improvvisamente, quel grissino snodabile ha smesso di librarsi in volo, si arresta lassù nell’aria per quella che le cronache inevitabilmente descriveranno come «un’interminabile frazione di secondo», il tempo comunque sufficiente a far partire il pallone per quello che, in quella partita, sarebbe stato il suo morbido, ultimo viaggio effettuato a così alte quote.
Gloria imperitura o macchia eterna, tutto si riduce ad un tiro. A quel tiro. Decisivo. Dentro o fuori. “Vita” o “morte”. Non c’è remissione: è il basket, è la vita. Di cui, talvolta, lo sport della palla a spicchi si diverte a diventare metafora. In quegli istanti infinitesimali, non esiste altro: solo quella perfetta parabola che va a morire nella retina senza neanche sfiorare, quasi non volesse “sporcarsi”, il ferro. Nothing but the net. Nient’altro che la retina. Le immagini che sfumano. Fine del sogno.
Un copione fin troppo banale, se proprio vogliamo dirla tutta, la stessa sciocca (o forse no?) fantasia che ciascuno di noi ha avuto da bambino e che passa per la testa di ogni ragazzino che in vita sua abbia mai provato a infilare una palla in un canestro, che fosse in una palestra o in un playground vuoto o in giardino o perfino nella propria cameretta. Il tutto magari contornato dallo stupendo scenario rossastro che regala il calar del sole, perché, si sa, il tramonto rende sempre l’atmosfera più poetica. E poi, Il Tiro, lo swish o, se siamo al di qua dell’Atlantico, il "ciuff", la vittoria e, naturalmente, l’adorazione dei tifosi in delirio.
Ma il ragazzo sa già che la vita reale ha un pessimo carattere: spesso le piace fare a pugni con i sogni. E vince, quasi sempre. Questo è uno di quei “quasi”.
La voce del Santone
Data: 29 marzo 1982. Luogo: Superdome di New Orleans, in Louisiana. Evento: finalissima del campionato della National Collegiate Athletic Association. Protagonisti: gli Hoyas della Georgetown University affrontano i Tar Heels della University of North Carolina. Chi vince sarà celebrato ed entrerà nella storia, chi è sconfitto sarà commiserato e, nella migliore delle ipotesi, si perderà nell’oblio. Sono due grandi squadre, guidate da due grandissimi allenatori, quelle pronte a sfidarsi per il titolo nazionale universitario 1981-82, ma di immortale, dopo quell’incontro, ne rimarrà soltanto una perché l’altra, la sconfitta, ne uscirà ineluttabilmente ridimensionata. È un’ingiustizia, perché perfino un piccolo episodio, non necessariamente tecnico, può fare la differenza in un senso o nell’altro; la sottile linea della vittoria privilegia una sola squadra ma chi arriva in fondo a una maratona come il torneo NCAA ha comunque compiuto un’impresa straordinaria. Che però non basta. Per la gloria, serve un punto in più dell’avversario.
Da una parte, ci sono gli Hoyas, guidati dall’imponente (in tutti i sensi: è alto 2.06 m), severissimo coach John Thompson, i quali, trincerati alle spalle del loro fenomenale centro Patrick Ewing, si sono scatenati per tutto il torneo. Quella dell’82, per Georgetown, ultima volta finalista nel mesozoico 1943, era la prima partecipazione alle Final Four dell’era moderna e, quindi, già di per sé, quella fase finale sarebbe stata in ogni caso un evento storico. Ad aggiungere altro pepe alla già piccante pietanza servita a New Orleans, ci si mette pure il destino. Per la prima volta nella storia della NCAA, alle Final Four giunge un allenatore dalla pelle nera, e caso vuole che a fare quel debutto sia proprio Thompson. Il tecnico di Georgetown, da sempre paladino della razza nera, che naturalmente anche nell’istruzione universitaria mai ha potuto disporre delle stesse opportunità di quella bianca, già allora è noto per le barriere che aveva contribuito ad abbattere come allenatore nero in una delle maggiori università degli Stati Uniti. Il rigido codice accademico imposto da Thompson ai propri ragazzi, inoltre, è uno splendido esempio di come si debba condurre un serio program cestistico di college. Il coach, con il prezioso aiuto di un’apposita tutrice che si è in prima persona preoccupato di assumere, cerca di assicurarsi che gli student-athletes, status richiesto per regolamento dalla stessa NCAA a chiunque partecipi alle sue competizioni , non siano solo sportivi di alto livello ma anche studenti diligenti. Il pallone da basket sgonfio che da sempre Thompson tiene nel suo ufficio serve più di mille discorsi pedagogici. Quella massa informe di cuoio e plastica è un simbolo e serve per ricordare a tutti coloro che varcano la soglia che, senza aria dentro, quell’oggetto è perfettamente inutile: non rimbalza, non ci si può giocare. La metafora, evidentemente, ha lo scopo di illuminare gli studenti che puntano troppo sulla pallacanestro e troppo poco sullo studio. La caducità delle cose del basket – questa la morale thompsoniana - non deve far perdere di vista che esiste una vita fuori dalle bianche righe del parquet; e la prima preoccupazione di Coach “T” è da sempre quella di forgiare degli uomini che, a prescindere da come vada poi col basket, possano avere un avvenire davanti. Poi, se quel futuro può essere cestistico, tanto meglio per tutti ed è lui il primo a gioirne.
Dall’altra parte, ci sono i Tar Heels di UNC, che seguono gli insegnamenti di un (serve dirlo?) altrettanto famoso e rispettato santone, quel Dean Smith che già all’epoca è l’uomo più popolare del North Carolina, James Worthy (in quell’annata, star e leader della squadra) permettendo. Attenzione alla sottigliezza: abbiamo scritto del North Carolina, non di North Carolina, e c’è una bella differenza, che non può certo essere spiegata dalla evidente diversità grammaticale esistente tra una preposizione articolata ed una semplice. Smith è davvero l’uomo più in vista e, come tale, necessariamente tanto amato quanto invidiato, dell’intero Stato , non solo dell’ameno ambiente di Chapel Hill, la sua università. Eppure anche il candido intonaco di carisma e ascendente di quest’uomo che tutto l’ambiente del college basketball ha sempre descritto come persona integerrima, prima ancora che grandissimo tecnico, capace, come vedremo, nel corso della sua carriera, di incidere profondamente nella storia del basket, aveva bisogno di essere in qualche modo ripassato dalla sbiancante mano di vernice che solo le vittorie sanno dare. Nonostante gli ormai diversi trips, come si chiamano in gergo i “viaggi” alle Final Four NCAA, Coach Smith, infatti, non è ancora riuscito a portare a casa il tanto ambito titolo e ormai anche i suoi più fedeli, acritici sostenitori incominciano a domandarsi se La Leggenda Vivente sarebbe mai riuscita, un giorno, a conquistare il cosiddetto big one.
Chissà, magari è lì a chiederselo pure lui, in quei momenti conclusivi di quella partita così tirata, mentre l’intero Louisiana Superdome pulsa per l’energia dei 60mila indemoniati, divisi tra il grigioazzurro di GU e il biancoceleste di UNC, il cui ruggito sembra farlo barcollare fino a minarne le fondamenta. La pressione, e non intendiamo quella atmosferica, è enorme. Per tutti. O quasi, visto che c’è un esordiente che, quella pressione, almeno nelle ultime ore di vigilia della gara, non sembra patirla più di tanto. Il freshman Jordan non è famosissimo né ancora granché considerato, quindi ci può anche stare che avverta meno le responsabilità che una partita del genere comporta. Lo stesso non crediamo avrebbero potuto dichiarare, per esempio, un Worthy, la stella e, conseguentemente, la prima opzione offensiva della squadra, o anche un importante secondo anno come Perkins, la seconda bocca da fuoco dell’attacco e compagno di reparto di Worthy nella front line. Ma il bello, nelle squadre guidate da Dean Smith, è sempre stato che il gioco “collettivo” e la distribuzione delle opportunità là davanti, hanno nella propria ragion d’essere la capacità di disinnescare gli ordigni della tensione che in altre formazioni esplodevano in faccia agli stessi protagonisti. Ma forse, molto più realisticamente e semplicemente, la spiegazione di tutto sta nel fatto che quel ragazzino al suo primo anno di college non si rende ancora ben conto di che cosa lo sta circondando.
«Ero conscio dell’importanza della partita,» avrebbe confermato, sedici anni dopo, l’ormai maturo professionista, prossimo al capolinea della sua carriera, raccontando di quella diciannovenne e pressoché sconosciuta matricola dei Tar Heels, ovvero se stesso. «Ma non avevo ancora compreso appieno cosa significasse. Era il 1982 ed io ero freshman a North Carolina. Dovevamo giocare al Louisiana Superdome la finale del campionato nazionale contro la Georgetown di Patrick Ewing. Ricordo il trasferimento alla volta dell’impianto, stavo per addormentarmi in pullman e sognavo a occhi aperti che sarei stato io a segnare il tiro decisivo. Ricordo di essermi sentito calmissimo, molto rilassato. Non ero completamente sveglio e non ero del tutto addormentato. Mi trovavo in un posto comodo, da qualche parte verso la metà. Mi ero immaginato di essere l’eroe della partita, mi vedevo segnare il tiro vincente. Riuscivo a distinguere i miei compagni di squadra, James Worthy, Sam Perkins, e Coach Smith. Il sogno non faceva riferimento a una partita in particolare, quindi non sapevo se il tutto sarebbe accaduto di lì a poche ore, contro Georgetown, o contro un’altra squadra, in un altro anno. Ma dopo che battemmo gli Hoyas per il titolo, raccontai a mio padre del sogno. Lui si fermò un attimo e mi disse: “La tua vita cambierà, figliolo”. Io pensai: “Be’, non sono altro che le parole di mio padre, è ovvio che pensi questo di suo figlio. E poi, nessuno può realmente sapere come andranno le cose, se in una maniera o nell’altra». Le ultime parole famose. È vero, James non poteva sapere come sarebbero andate le cose, poteva solo sentirlo dentro di sé.
“The Shot”
La gara si accende subito con un avvio scintillante, con Ewing a cacciare via tutto quello che North Carolina tira dalle parti del canestro degli Hoyas. Per quattro volte al freshman di GU viene chiamato goaltending , mettendo così automaticamente in conto i primi otto punti dei Tar Heels senza che questi avessero mai avuto la sensazione di sentire il magico fruscio dello strofinio del pallone nella retìna. Ma nonostante quell’iniziale 0-8 per UNC, la prova disputata da Ewing quel 29 marzo 1982 sarebbe stata una delle prestazioni difensive più temibili della storia del torneo. Nonostante le quattro infrazioni d'interferenza a canestro fischiategli consecutivamente, un inizio di partita che avrebbe ucciso un toro, in un modo o nell’altro Ewing riesce a spedire un messaggio a quelli di North Carolina: come a dire, non ci pensate neanche a penetrare a canestro, the middle is mine, «lì nel mezzo è roba mia», ovvero è meglio per te se giri al largo. Infatti, durante i primi tredici minuti e mezzo di Ewing in campo, Carolina è assolutamente incapace di mettere dentro un solo canestro dal campo. Dietro quell’insuperabile schermo difensivo, gli Hoyas ne approfittano per catapultarsi in avanti, accumulando un vantaggio iniziale di 6 punti, ma poi UNC si rifà sotto fino ad arrivare ad impattare l'incontro sul 18 pari; nessuna delle due squadre sarebbe mai stata in testa per più di 4 lunghezze. Worthy ha una fiammata delle sue a metà del primo tempo, mentre Ewing e Floyd rispondono per Georgetown dando agli Hoyas un vantaggio di 32-31 all'intervallo. Sommo stratega, Smith escogita degli schemi appositi per liberare Worthy lungo la linea di fondo, vale a dire a valle di Ewing, e chiede alla sua squadra, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, di cercare di battere la difesa grigioazzurra in profondità. Tuttavia, Georgetown fin lì riesce a mantenere un lieve vantaggio, ma poi “Sleepy” Floyd, dopo essersi liberato, sbaglia un sottomano con la sua squadra avanti 47-43 e i Tar Heels approfittano per invertire l’inerzia dell’incontro: rimontano fino ad assumere il comando. Ma la gara resta tirata e la tensione continua a montare. Jordan porta il vantaggio dei Tar Heels a tre punti, 61-58, ma Ewing, come in un palpitante botta e risposta, segna in avvitamento: 61-60 per Carolina.
Il numero 23 di UNC, allora ancora con una divisa incontaminata, priva di quegli ornamenti (polsino sull’avambraccio, scaldamuscolo all’altezza del polpaccio) che nel tempo sarebbero diventati una sua immancabile caratteristica, fino a una manciata di secondi dal termine appare nervoso, quasi “freddo” e il suo gioco sembra discontinuo, la sensazione che dà è quella di un atleta non in serata. Poi, all’improvviso, l’esplosione. Come se quella fantomatica “pellicola” che credeva di aver visto in mattinata, in più o meno cosciente dormiveglia, mentre sonnecchiava seduto nel pullman durante il trasferimento all’arena, sia stata, tutta ad un tratto, finalmente messa a fuoco: Mike avrebbe segnato, a velocità supersonica, tre canestri consecutivi, con il contorno di un pallone rubato e un rimbalzo conquistato. Con quel rush finale, quel semisconosciuto freshman mantiene i Tar Heels in possesso di palla mentre il cronometro si avvicina paurosamente allo zero. In sostanza, Jordan li tiene a galla proprio quando può essere più facile affogare. La battaglia a colpi di canestri ormai infuria. Ewing, il gigantesco centro di Georgetown, abbranca un rimbalzo e si spinge in avanti alla ricerca dei punti-sicurezza per i suoi, cerca e trova la propria guardia “Sleepy” Floyd, che afferra il passaggio di Ewing, quindi supera il diretto avversario e va a depositare un morbido ancorché difficile jumper. Tutto questo a meno di sessanta secondi da giocare e sul 61-62 in favore degli Hoyas. Panico. Coach Smith chiama time-out quando sul cronometro restano solo 32”. Provate a immaginare quale sia la pressione che grava su tutti i partecipanti a quell’ultimo conciliabolo che coach Smith tiene coi suoi ragazzi. Le sorti di un’intera stagione e, per qualcuno (vedi Worthy, che, terminata quella gara, avrebbe lasciato il college con un anno di anticipo per passare pro), dell’intera carriera universitaria, sono appese ad un esilissimo filo. Lo stesso filo che tiene assieme le speranze di vittoria anche sull’altra panchina, quella dei ragazzi di coach Thompson. L’unica cosa certa, in quei 32” a venire, era che quel filo sarebbe stato spezzato, ora si tratta “solo” di vedere da chi. Le due (uniche vere) star di UNC, Worthy e Perkins, costituiscono le migliori chances per quell’ultimo tiro, ma coach Smith, che in quel momento si gioca tutto, è adesso costretto a puntare anche le proprie mutande per non dover tornare a casa nudo. E, guarda un po’ com’è la vita, i coprivergogne glieli salva chi non avresti mai detto. Altroché stelle e stelline: il santone di Chapel Hill deve inventarsi dell’altro. Il “vecchio” Dean sa che tutti gli Hoyas avrebbero aggredito a sciame quei due ancor prima che potessero anche solo abbozzare un tentativo di tiro, e che lì, nel mezzo della lane, la corsia centrale, non ci sarebbe stato altro che un impenetrabile mare grigioazzurro: è ovvio che Georgetown si precipiterebbe a chiudere dentro. Rimane allora una sola possibilità, la più rischiosa. Quell’ultimo tiro, un comodo jumper dalla media, intima Smith, lo scoccherà il freshman, e se non dovesse andare dentro, crollerebbe tutto, baracca e burattini e burattinaio. Tutto ciò che pare abbia sussurrato, nel drammatico frangente, Dean Smith al suo pivellino volante, non appena la squadra rimette piede in campo, è: «Make it, Michael», vale a dire, per i poco amanti della lingua d’Albione, «Fallo, Michael». Come si suol dire: poche parole ma ben dette.
Quello che succede dopo, molto semplicemente, non è che la nascita di una leggenda.
Concluso il time-out, i Tar Heels seguitano a far circolare la palla dentro e fuori dal perimetro fingendo passaggi in post basso per ingannare la retroguardia Hoyas, questo fino a quando il pallone arriva a Michael Jordan. Questi se lo passa e ripassa con l’altra guardia, il numero 21 Jimmy Black, palla a te no a me no a te, finalmente l’“arancia” arriva a Matt Doherty che, intanto, dall’ala sinistra, aveva tagliato verso la key, il vertice (sempre di sinistra) dell’area d’attacco dei Tar Heels; qui il numero 44 biancoceleste la smazza di nuovo sul lato debole a Jordan, che nel frattemp scala, smarcato, in posizione defilata, non distante dall’angolo con la linea di fondo. Proprio mentre due Hoyas, l’ala col numero 32 Eric Smith e il centro Ed Spriggs , si precipitano a rientrare verso di lui in quello che ora, per la sopravvenuta presenza della sfera, torna ad essere il lato forte, Jordan, nell’ordine, riceve il cuoio, “stacca” da terra e lascia partire il tiro. Tutto questo a cinque metri dal canestro e a 17” (non credete agli sparaballe che favoleggiano di 15” o di 25” dalla sirena, sono diciassette secondi, punto e basta: tv docet) dalla fine. Se ci si pensa, ancora una vita, nel basket. La palla fa quello che aveva fatto in quel sogno a occhi aperti di cui sopra. Dopo una parabola stranissima, molto arcuata, sfiora la retina con la dolcezza tipica di una “femmina” e vi cade dentro. 63-62.
Com’era quel sogno? Il Tiro, lo swish, la vittoria e, naturalmente, l’adorazione dei tifosi in delirio…
Georgetown non si riprende più. Nell’ultimo tentativo, quello classico “della disperazione”, GU rilancia rapidamente il pallone dalla parte opposta, senza esitare e senza nemmeno considerare l’ipotesi di un time-out, fa muovere la boccia in attacco per un estremo ma fatalmente disorganizzato assalto al titolo. Mentre il freshman Fred Brown (a ciascuno il freshman che si merita, verrebbe cinicamente da dire) palleggia oltre la metà campo, la folla, imponente, è inchiodata dalla drammaticità del momento. Brown smette di palleggiare e cerca di passare al compagno Eric Smith, che però crede di aver intravisto una smagliatura nel tessuto difensivo dei Tar Heels e taglia verso il canestro avversario proprio mentre Worthy, che nel frangente capisce tutto delle intenzioni di Brown, si fionda sulla traiettoria; non appena Smith compie un passo verso il canestro di North Carolina, Brown, in una delle più memorabili gaffes nella storia dello sport americano, consegna la palla direttamente nelle mani di Worthy. Il junior dei biancocelesti caroliniani palleggia all’indietro verso l’angolo dove viene chiuso e subisce fallo a 2” dallo scadere. Anche se lo stesso Worthy sbaglia (incredibilmente) entrambi i conseguenti, pesantissimi, liberi, Georgetown non riesce più a procurarsi un’altra opportunità di tiro e, al suono della sirena finale, i Tar Heels della University of North Carolina e i loro tifosi possono esplodere nei festeggiamenti: sono loro i campioni NCAA 1982. Ma, assieme a quelle immagini di incontenibile gioia, c’è spazio anche per un attimo di commozione. Quello che vede protagonista Coach Thompson che cerca di consolare un inconsolabile Fred Brown. Coach “T”, un omaccione enorme e dal cipiglio che mette soggezione, si distingue per tutta l’intensità e l’umanità che lo hanno invece sempre caratterizzato: stringe in un forte abbraccio il suo playmaker il quale, anziché dare il via all’ultima azione d’attacco della propria squadra, quella che avrebbe potuto dar luogo al possibile sorpasso, si era lasciato prendere dall’umanissima frenesia dettatagli dal panico che gli aveva fatto consegnare la palla in mano agli avversari.
Quel che rimane, di quella serata, bellissima e terribile, è comunque che, nella maniera più improbabile e drammatica, vale a dire per... mano di uno sconosciuto primo anno di nome Michael Jordan, Dean Smith e la sua UNC hanno finalmente vinto quel titolo nazionale di college che tanto a lungo avevano inseguito. Il famoso big one.
CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan
Michael "Air" Jordan
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