CAPITOLO 4 - Diamoci un taglio (1978-79)


«Fondamentalmente pensavamo che non avrebbe giocato molto come sophomore nella varsity, così lo abbiamo tagliato destinandolo alla JV. Ci sentiamo ancora di aver fatto la cosa giusta. È questo che la gente non capisce: il Michael Jordan che vedete ora non è il Michael Jordan che si presentò alla Laney High School da sophomore. Tanto per cominciare, non era 1,96...».
– Fred Lynch, junior varsity coach Laney HS (1979-1981)

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Michael Air Jordan
© Rainbow Sports Books

Nonostante i progressi compiuti, nell’autunno 1978 Michael non riesce a passare il decisivo tryout per la prima squadra e si sente a pezzi perché pur ammettendo che, rispetto a lui, il giocatore che lo ha scavalcato per l’ultimo spot libero nella varsity, Leroy Smith, sia sì più alto e più grosso fisicamente, il quindicenne Jordan è anche profondamente convinto che il rivale (solo nella circostanza, perché i due sono grandi amici) sia notevolmente inferiore dal punto di vista tecnico. 

Un passo indietro per comprendere che cosa era accaduto e come mai Mike, agli inizi del suo secondo anno di liceo, riponesse tante speranze di potercela fare, si rende necessario. 

Quando, come consentito dal regolamento, in occasione del torneo dello Stato , si libera un posto nella formazione varsity per un giocatore in un primo momento destinato alla formazione della junior varsity, Jordan, indubbiamente il miglior giocatore di quella JV dove ha trascorso, indossando il numero 45, tutta la sua prima stagione di high school, immagina che sarebbe toccato a lui. 

Una volta giunto però il momento delle convocazioni, quando nella bacheca degli spogliatoi viene appeso l’elenco dei prescelti, stilato in ordine alfabetico, Mike e gli altri compagni della seconda squadra di basket del liceo, bramosi di leggerlo, vi si affollano intorno e si accorgono che la scelta degli allenatori è stata diversa. Quel posto in più sarebbe appartenuto a Leroy Smith, un’ala che nel corso dell’estate precedente quell’anno scolastico è cresciuto fino a raggiungere il metro e novantasette. 

I ragazzi della junior erano consapevoli che per la prima squadra ci sarebbe stato spazio per un solo nome, ma quando Michael si accorge, con somma sorpresa, che quel “solo nome” non è il suo, stenta a credere ai suoi occhi. «Mi ricordo di aver letto e riletto quella lista quattro o cinque volte, così da non potermi sbagliare; niente da fare, il mio nome non c’era proprio. Andai subito dal coach per chiedergli qualche spiegazione, se c’era stato un errore; ma fu tutto inutile…». Nessun errore: coach Herring e i suoi assistenti, Fred Lynch e Ron Coley, avevano deciso. Pro Smith.

Appresa la ferale notizia, il futuro leader… di nuovo della junior varsity torna a casa dalla mamma ed scoppia a piangere, raccontandole, sempre in lacrime – riferiscono i puntuali biografi –, quanto accaduto. 

Mamma Deloris, però, dopo averlo opportunamente coccolato, con il suo caratteristico piglio da condottiera, esorta il proprio figliolo a non desistere, a convertire quella momentanea “sconfitta” in uno sprone a migliorare, a farsi trovare pronto per la prossima occasione. Che, è ovvio, non sarebbe potuta mancare. 

A parte il “taglio”, come vedremo tra poco, solo presunto, una cosa aveva dato particolarmente fastidio a Jordan: «Quel che fu più difficile da mandare giù – ricorderà anni dopo – fu quel foglietto con le convocazioni che rimase appeso in bacheca, lì in bella vista, per parecchi giorni. Io mi sentii mortificato e pensai addirittura di piantarla con la pallacanestro». Quell’elenco visibile a tutti, gli altri che ti danno la pacca d’incoraggiamento sulla spalla e la tua voglia di spaccare tutto: sensazioni che… solo chi ha “bucato” degli appelli scritti universitari può capire!

Michael ha sempre dimostrato, fin dall’alba della sua vita, che il perdere è per lui “esercizio” particolarmente poco congeniale. A qualsiasi livello. Quanto ai presunti propositi di precoce abbandono dell’attività agonistica da parte del quindicenne prodigio, sorridetene pure, perché non ci avrebbe mai creduto nessuno: è troppo il furore agonistico che ci mette, troppo irrefrenabile la sua passione. Mike è nato per giocare a pallacanestro e, anche se fino a quel momento non può saperlo con certezza, anzi, in quel frangente tutto lascia pensare il contrario, lui dentro di sé avverte quel “calore” che solo il fuoco di ciò che proviene dal profondo di se stessi può sprigionare. 

Il ragazzino magro di Wilmington avrebbe continuato a tutti i costi. «Sicuro che continuai» dichiarò una volta divenuto professionista. «E in tutti quei momenti in cui mi ritrovavo là da solo ad allenarmi, quando ero stanco e mi veniva voglia di mollare tutto, provavo a chiudere gli occhi e in quell’istante era come se rivedessi nella mente quel foglio delle convocazioni appeso nella bacheca degli spogliatoi, e subito mi tornavano le motivazioni per continuare». 

Anche se in un primo momento, per la delusione, Mike medita addirittura di lasciare il basket, poi, decide saggiamente di impiegare la propria frustrazione per rafforzare i suoi propositi svegliandosi alle sei ogni mattina per un supplemento d’allenamento. 

Nella vita, siamo tutti d’accordo, le avversità ti possono fare due cose: o ti forgiano lo spirito o ti spezzano. O le schiacci o ti schiacciano. E per l’adolescente Michael, quell’incidente di percorso, chiamiamolo così, è una specie di sveglia, un campanello d’allarme che gli fa capire tante cose. «Quella è stata una lezione importante per me, per scavare dentro me stesso. Dovevo meditare su tutte le cose che mi erano state insegnate dai miei genitori e provare a combinare qualcosa di buono nella vita». A quel punto era ora di fare sul serio, ma veramente sul serio, con il basket. 

Ma quella della mancata promozione alla varsity è solamente una parte essenziale della leggenda (appunto solo tale) jordaniana del periodo liceale, una sorta di romanzo d’appendice che, come tutti i generi troppo popolari, pretende l’immancabile immagine di un Michael col naso a lungo appiccicato a quella bacheca. Coach Herring, fin dal principio, ha sempre sostenuto che per Mike, in quella formazione, non c’era mai stata la concreta possibilità di giocarvi. E questo perché, in realtà, quello ricevuto dopo le selezioni era stato, più che un “no”, un “sì” mancato. In altre parole, non si era trattato di una bocciatura bensì di una non promozione, e per giunta fondatamente motivata. 

Anche se la differenza può apparire sottile, più un equilibrismo dialettico che una diversa valutazione tecnica, essa è invece sostanziale. Come avrebbe spiegato anche il secondo assistente di Herring, Ron Coley, «Anche se per Michael non approdare in prima squadra significò automaticamente esserne escluso, non è così che andarono le cose». Che lo stesso Coley sia un suo estimatore, seppure a scoppio ritardato, è testimoniato da una sua successiva dichiarazione: «Michael è stato uno dei segreti meglio mantenuti del Paese. È stato baciato dalla grazia divina, con quel fisico che si ritrova, ma non ho mai visto un individuo più competitivo di lui. Ha lavorato più duro di tutti, sebbene avesse probabilmente abbastanza talento da non essere costretto a doverlo fare». 


Il taglio che non doveva ferire

Su questo episodio, il (soltanto fittizio) taglio al secondo anno di liceo di quello che sarebbe diventato il più forte giocatore d’ogni epoca, si è fatta tanta, troppa letteratura. 

Senza paura di essere smentiti, va detto che, all’epoca, quel Jordan quindicenne, un ragazzino tutto pelle e ossa, di appena 1.78 m, è appunto solo un sophomore, mentre a quei tempi, per tradizione, il nucleo portante della squadra è formato dai terzo e quarto anno. E già questo potrebbe essere una prima, più che esauriente spiegazione della scelta dello staff tecnico del liceo. 

Ma se non bastasse va precisato che l’allora coach della Laney, Clifton “Pop” Herring (ancora oggi è, a causa di quest’“errore”, sovente dipinto come una specie di macchietta, un “cabarettista” più che un allenatore liceale), non considera per nulla Jordan scarso, anzi, al contrario. Herring però sceglie di… non sceglierlo proprio perché, essendo consapevole di non potergli dare molto spazio in prima squadra, ritiene più utile per il ragazzo essere aggregato alla junior varsity. 

Nella JV, una sorta di seconda squadra composta da coetanei di Mike e allenata dall’assistente Fred Lynch, la giovane promessa avrebbe avuto l’occasione di poter giocare molti più minuti e accumulare esperienza invece di ammuffire in panca, seppure ad un livello superiore. 

Un ragionamento talmente logico e coerente, quello del coach, che, come spesso accade, non viene compreso. Non solo da Jordan, che in fondo ha solo 15 anni e tante, giustificate ambizioni, o da parenti e amici, che sono in ogni caso parte in causa, ma anche da addetti ai lavori e gente comune. 

Herring, che ormai si è ritirato, ha invano più volte descritto la situazione tecnica della sua squadra di quell’anno: Jordan non è certo meno dotato tecnicamente e atleticamente (figuriamoci!) rispetto agli altri compagni della varsity, ma proprio perché, trattandosi pur sempre di un secondo anno, ha meno esperienza di loro e soprattutto è ben lungi dall’aver completato la sua maturazione fisica, prima ancora che cestistica. 

Ricordiamo che all’epoca Jordan gioca point guard, ruolo che aveva incominciato ad occupare sotto Larry Boylan, il coach che lo aveva allenato quando Mike frequentava l’ottava classe alla Trask Junior High; purtroppo, però, i Buccaneers sono stracoperti in quel ruolo e di un altro regista, per di più filiforme e troppo basso, per quanto bravo, non sanno che farsene, necessitando, invece, di avere in formazione ben altri centimetri e chili . 

«Sul fatto che Michael fosse un giocatore più bravo di Leroy [Smith] nessuno di noi aveva dubbi,» ha cercato inutilmente di spiegare per anni Coach Herring «ma non avevamo scelta».

Universalmente noto per essere uno dei responsabili del taglio di quello che sarebbe diventato semplicemente… Jordan, anche il buon Lynch in un'intervista, quasi a “scusarsi” per essersi reso reo di chissà quale lesa maestà cestistica e ormai rassegnatosi all’incomprensione eterna, dichiara: «Sì, sono io l'allenatore che ha tagliato Michael dalla squadra. Lo abbiamo fatto nel suo interesse ed in quello della scuola. Lui stava ancora crescendo ed anche se era già un buon giocatore, non lo ritenevamo in grado di dare quel contributo che ci serviva. A quei tempi, era prassi normale per un sophomore giocare nella junior varsity. È così che funzionava. Un sacco di gente si è fatta l’idea che Michael Jordan non fosse un bravissimo giocatore e che solo poi sia diventato un grandissimo, ma non è il suo caso. Sarebbe una bella storia poter raccontare che fu tagliato e che non giocò, ma non è quello che accadde realmente. Mike è sempre stato un buon giocatore: non era una di quelle situazioni in cui sei di fronte ad uno che prima era sempre stato uno dei tanti. Quando giocava per me in nona classe, era lui il miglior giocatore che avevo in squadra. Ed era lui il miglior secondo anno che avevamo nella formazione della JV. Fu il miglior giocatore in tutti gli anni che giocò con noi. Non era come quei ragazzi che di punto in bianco sbocciavano e diventavano dei giocatori decenti». 

La realtà, quindi, è che il quindicenne numero 45 dei Buccaneers della Laney è ben lontano dall’essere un fuoriclasse. Molto semplicemente, non è ancora pronto, come lui stesso avrebbe ammesso in seguito: «Non ero bravo abbastanza da entrare in squadra, ero davvero un pessimo giocatore». E in un’altra occasione sarebbe stato ancora, se possibile, più esplicito: «Non era stato l’allenatore ad essere “cieco”, ero io ad essere scarso». 

Uno dei primi video interamente dedicati a Jordan, il notissimo Michael Jordan’s Playground, in Italia andato subito esaurito, era incentrato sulla vicenda del suo taglio al liceo. Una vicenda che, come è stato riportato da quelli che avrebbero dovuto esserne gli stessi protagonisti, NON è esistita.

Lo script è questo: MJ si presenta in un campetto dove c’è un ragazzino (che ovviamente interpreta il Jordan adolescente) che si allena da solo al tiro sacramentando tra sé e sé contro il mondo cattivo e crudele perché il coach di una immaginaria Eastside H.S. (ma si potrebbe tranquillamente leggere, e neanche tanto fra le righe, Emsley Laney H.S.) lo ha tagliato, secondo lui ingiustamente e premeditatamente, nei tryout per la varsity, la prima squadra. 

Il coach, in un impeto d’americanismo da lieto fine, o, se preferite, da americanissimo lieto fine, ricorda ai tagliati che anche Michael Jordan aveva subito la stessa sorte al liceo, ma poi prosegue ricordando che questi si era ripresentato l’anno successivo come un «giocatore migliore». A questo punto viene inquadrato il Jordan vero che chiede a quello “finto” (l’interprete di se stesso ragazzino) se sa chi sia un certo Leroy Smith, il ragazzo gli risponde di no e allora Michael gli riassume brevemente la vicenda del taglio, chiarendo come Smith fosse stato l’ultimo essere umano al mondo a farlo finire fuori squadra e, all’esclamazione «Allora è vero!» dello stupito adolescente, Jordan (quello vero) – bontà sua – conclude così il flashback: «In un certo senso, sì. Poi ho lavorato duramente sulla mia tecnica. Sì, sono pure cresciuto un po’, il che mi ha anche aiutato, ma a dire il vero penso siano serviti di più il mio impegno e la mia determinazione».

La sceneggiatura, così scontata da penalizzare quasi le straordinarie sequenze delle giocate di Michael, prosegue allora con il ragazzino che si allena, migliora e supera quelle tanto temute selezioni che appena dodici mesi prima gli erano state fatali, riuscendo finalmente a far parte della prima squadra. A quel punto ricompare MJ con un altro ragazzo (un altro “Jordan” da piccolo) e le immagini sfumano facendo capire che si ricomincia tutto da capo. Titoli di coda.

Bello, molto americano. Forse troppo. Quando Michael Jordan si ritirò dal basket professionistico per la prima volta, abbandono annunciato ufficialmente in conferenza stampa il 6 ottobre 1993, il quotidiano Wilmington Star-News decise che, assieme all’edizione del giorno successivo, sarebbe uscito, in allegato al giornale, un supplemento speciale su di lui. Il direttore responsabile John Meyer raccontò al giornalista Scott Whisnant di voler finalmente pubblicare le cose come stavano: Jordan NON era stato tagliato dalla varsity team. La fonte di Meyer? Un certo Clifton “Pop” Herring, il coach della Laney, che qualcosina avrebbe dovuto saperla. 

Dal pezzo uscito quel 7 ottobre 1993 sullo speciale delWimington Star News, si evince che quando Herring se ne sta lì ad osservare i tryouts autunnali di basket per la stagione cestistica 1978-79 della Laney High School, nota un ossuto sophomore che le prova tutte pur di essere scelto. Il ragazzo non è male ma arriva a malapena al metro e ottanta, e così per il suo allenatore non possono esserci molti dubbi: “Pop” avrebbe avuto senz'altro un posto per lui, lo stesso nel quale finiscono i secondo anno, magari pure bravini, ma alti solo attorno cinque piedi e undici pollici (1.80 m appunto) o giù di lì, la junior varsity. 

«A dire il vero, Michael non fu poi così strepitoso quel giorno» è il lapidario, orgoglioso commento del coach poche ore dopo l'annuncio del primo ritiro di Jordan. «Michael aveva un punto debole nell'uso della mano sinistra,» aggiunge il buon Herring «così gli dissi di migliorare su quello e di lavorare sul tiro fatto partire subito dopo il palleggio».

Lo sappiamo, ce ne rendiamo conto: abbiamo rovinato un classico. Ma che colpa ne abbiamo noi! Insomma, l’allenatore di Jordan non aveva torto, ma Michael, per dimostrare e dimostrarsi il contrario, si mette a lavorare più duro che mai.

Dopo aver avuto 25 punti di media nella JV, con ogni tanto qualche quarantello a far bella mostra di sé e, cosa ancora più importante, essere cresciuto fino a raggiungere il metro e novanta, in vista del suo terzo anno di liceo, Michael è fiducioso di riuscire finalmente ad approdare in prima squadra. E, in effetti, ora è pronto. Herring e Lynch avevano visto giusto, ma, per anni, i due sono stati obbligati a rispiegare all’infinito il proprio punto di vista. «Quell'anno avevamo parecchi giocatori di talento – attacca il primo – e la maggior parte di loro aveva già giocato nelle stagioni precedenti, così preferimmo che Michael terminasse l'annata nella seconda squadra, alle dipendenze di Sam Avery, un validissimo tecnico che gli insegnò a muoversi in post alto, a spostarsi in post basso, a passare la palla nel mezzo e a saper usare efficacemente entrambe le mani». Suona le stesse note il secondo: «Eravamo già coperti nello spot di guardia e ritenevamo più utile per lui fargli accumulare esperienza nella squadra riserve». 

Nella junior varsity, Michael può migliorare moltissimo, riuscendo a colmare le proprie lacune tecniche, sicuramente ancora evidenti (soprattutto nel tiro da fuori, e nella difesa, non ancora impeccabile), anche in virtù degli insegnamenti dei suoi allenatori, ma naturalmente nessuno avrebbe potuto insegnargli quanto avrebbe poi fatto tra gli anni da sophomore e da junior. Il talento, seppure allo stato di diamante grezzo, c’è, si tratta solo di lavorarci sopra. 


Occhio di Lynch 

Ormai rassegnatosi a giocare l’intera annata agonistica ’78-79 nella JV, Mike decide almeno di non lasciarsi scappare l’occasione di poter giocare molti minuti a partita e di giocarli alla grande. 

Che fosse molto più forte, a volte in modo quasi imbarazzante, della media degli altri pari età coi quali doveva “mischiarsi”, sarebbe stato subito fin troppo evidente (memorabile il suo high di 44 contro la Goldsboro HS) e Michael, nonostante la sua squadra abbia vinto appena tre partite, "rischia" di far tornare sui propri passi il binomio tecnico Herring-Lynch che qualche mese prima ne aveva decretato l’esclusione dalla varsity. 

Colpiti dai suoi incredibili miglioramenti e dallo strenuo impegno profuso, infatti, i due coach ebbero a metà stagione un momento di tentennamento durante il quale fecero perfino un mezzo pensierino per “ripescarlo” dalla junior aggiungendo un posto in prima squadra. Poi, però, non fecero seguire i fatti a quelle mezze intenzioni anche per non creare un “pericoloso” precedente. Tanto, devono aver pensato, l’anno successivo chi avrebbe mai potuto precludergli quello che Jordan si era conquistato di diritto, sul campo? 

Mike, però, riuscì comunque ad arrivare ai Regionals del torneo, seppure con la poco glorificante etichetta di manager. In gergo, con tale termine viene indicato il ragazzino che a quei livelli fa da un po’ da assistente tuttofare: porta le borse per i giocatori, distribuisce loro le divise da gioco e gli asciugamani, li aiuta nel fasciarsi le caviglie. Al manager è naturalmente consentito di guardare le partite dalla panchina, oltre che, è ovvio, viaggiare assieme alla squadra. 

Mike, che inizialmente aveva voluto compiere quell’esperienza per godersi lo stesso e da vicino l’atmosfera dei playoff della Division II, una volta trovatosi là, sarebbe voluto sprofondare: si sentiva talmente imbarazzato, soprattutto dopo aver scorto l’espressione sul viso dei suoi genitori, che l’osservavano – a suo dire – depressi dagli spalti della palestra, che giurò solennemente a se stesso che in vita sua non avrebbe mai più scaldato la panchina e guardato qualcun altro giocare.

Avrebbe fatto di tutto per riuscire a far parte della varsity. Non ci sarebbero stati santi. “Mi decisi proprio allora: da quel momento in avanti, non mi sarebbe mai più successa una cosa del genere. Da quel punto in poi, incominciai a lavorare più duro che mai sulle mie doti cestistiche…”. Michael aveva promesso, Michael mantiene.

Durante quella estate ’79 Mike partecipa ad alcuni camp (giorni di lezioni cestistiche, esercitazioni e partitelle, ecc.), sia per incominciare a farsi conoscere sia per progredire nella sua arte cestistica, per ora, in verità, nota ancora a pochissimi. In uno di questi, il Bobby Cremins Basketball Camp, tenutosi a Boone, sempre nel North Carolina, dove ha sede la Appalachian State University di cui Cremins, oggi head coach di Georgia Tech University, era l’allenatore. 

Michael vi era arrivato su suggerimento di Fred Lynch, per il quale aveva già giocato alla Virgo (dove Lynch era capoallenatore) e che ora l’assistente di Herring alla Laney High. Lynch e il collega Jim Hebron, ai tempi coach di New Hanover High, avevano allestito un pulmino carico, oltre che di 13 promettenti liceali, anche di relativi sogni e speranze di mettersi in luce. E Mike non era che uno dei tredici, non certo la stellina della situazione.

Cremins, che pure ha avuto successo e tuttora ha una panca importante, viene ancora oggi assillato dalle domande e dalle insinuazioni sulle sue capacità di allora nel riconoscere il talento in sboccio (quando non sulle sue capacità tout court), ha sempre ammesso candidamente di non averlo notato. Cremins ha provato appena nascondersi dietro il fragile paravento degli impegni che aveva come direttore tecnico del camp (in virtù di organizzatore non è che l’indaffarato Bobby potesse tenere dietro a ogni ragazzo iscritto), ma poi è lui stesso a toglierlo concedendo che, se ci fosse stato qualcosa da notare, i suoi impegni non glielo avrebbero impedito. Mike vinse la gara di uno-contro-uno, ma non fu particolarmente appariscente, “era bravo – disse coach Cremins – ma niente di eccezionale”. Ci vorrà un altro anno per fargli cambiare idea.

CHRISTIAN GIORDANO
Michael "Air" Jordan

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