Riccardo Magrini: «Sappada, una bastardata a tavolino»
Riccardo Magrini non ha bisogno di presentazioni. Istrionico, carismatico, competente, per conoscenza dell'ambiente e accesso agli addetti ai lavori, è una specie di Federico Buffa del pedale. Shakerate il tutto con la sua proverbiale toscanità e avrete (con Silvio Martinello) la miglior voce tecnica della tv.
Superati con la grinta che lo contraddistingue i problemi di salute, ho aspettato qualche mese prima di contattarlo. E in quel frangente ho capito - dalle testimonianze d'affetto degli appassionati e del suo mondo - quanto sia amato e rispettato. Soprattutto dai corridori. Perché è ancora uno di loro, uno di noi.
Riccardo del ciclismo è un innamorato sincero, e starebbe a parlarne per ore. Con me lo ha fatto e senza reticenze. Il Magro è stato velocista per dieci anni nei pro' e direttore sportivo prima di diventare color analyst per Eurosport. Chi meglio di lui per farsi raccontare, da Sappada in poi, gli ultimi trent'anni di ciclismo italiano. Su e giù di bici.
Redazione di Sky Sport
Rogoredo (Milano), 14 dicembre 2017
- Riccardo Magrini, se ti dico “Sappada”, trent’anni dopo, che cosa ti viene in mente?
«Mi viene in mente una grande sorpresa, soprattutto dalla radio, il sapere della situazione in corsa. Io ero direttore sportivo della Magniflex allora e avevo una squadra di giovani. E quindi al Giro d’Italia cercavamo di farci vedere e di darci un po’ un tono, per andare a cercare qualche vittoria di tappa, non certo per la classifica. La classifica era roba per altri. In maglia rosa c’era Roberto Visentini. A un certo punto la radio, gracchiando, ci dice che il suo compagno di squadra Roche era in fuga con altri corridori e stava prendendo vantaggio e che Visentini in quel momento, attenzione, perché la radio fu chiara: attenzione, Visentini sta perdendo le ruote, sta perdendo contatto dal gruppo in cui era. La maglia rosa. Grande sorpresa. Mi ricordo questo fatto. Non pensavamo, lì al momento, a quello che stava maturando: il dramma di Roberto, che si sentiva tradito dalla propria squadra. Perché quello poi è il succo. Io poi fui anche protagonista, in ammiraglia, seguendo e superando i corridori che si staccavano su questa salita, fra l’altro neanche così dura – perché Sappada non è una salita dura, lì fu proprio un crollo psicologico di Roberto –, perché con Roberto, anzi qualche metro avanti, c’era Santaromita, che era un mio corridore e andava bene in salita. Naturalmente tutta l’attenzione era sulla maglia rosa che si staccava. Si sta parlando dell’87, trent’anni fa, quindi la tecnologia… Non c’era una regia così… Eran bravi, per i mezzi che avevano, però una telecamera era fissa sulla maglia rosa e io, a quel punto lì, pur di farci vedere [in tv] andai da Santaromita e gli dissi: “Antonio, aspetta Roberto, dagli una mano, così almeno t’inquadrano. Gli dissi proprio preciso così: almeno ci si fa vedere. Tanto è vero che De Zan poi evidenziò questo momento quasi decoubertiniano. Quasi non ci stava che un corridore aiutasse Roberto a fare l’andatura su quella salita che, ripeto, neanche era difficile. Poi, all’arrivo, si scoprì tutto il dramma di Roberto, che aveva un diavolo per capello. Dichiarazioni, il suo famoso “Stasera qualcuno pagherà, e andrà a casa!” ai microfoni della Rai, un imbufalito Roberto che cercava qualcuno contro cui scagliarsi addosso. All’arrivo non trovò né Boifava né altri. Era un ciclismo di altri tempi. Oggi ci sono i massaggiatori, o l’addetto stampa, una serie di figure che aspettano il corridore all’arrivo, sul traguardo. Prima no. Prima arrivavi e sì, c’era qualcuno che magari con compassione ti metteva un asciugamano addosso, o una coperta se faceva freddo, però non era più di quello. Lui cercava quelli della squadra».
- Tu sei stato corridore, direttore sportivo, sei commentatore tecnico per Eurosport. Mettiti nei panni magari del capitano, in maglia rosa, vincitore del Giro l’anno prima, che viene attaccato da un compagno. Poi mettiti nei panni di Roche, che attacca il suo capitano (in rosa) perché sente di avere più gamba, di andare più forte. Poi ti metti nei panni di Boifava e ti dici: io, di qua o di là, il Giro devo vincerlo. E infine ti metti la giacca da commentatore: che valutazioni fai?
«Da commentatore avrei sottolineato la bastardata, perché un capitano in maglia rosa non s’abbandona. Il capitano è il capitano. La maglia rosa è la maglia rosa. La dimostrazione te la dà Froome quando [al Tour 2012] aspettò Wiggins. Froome andava il doppio di Wiggins. Però il capitano era Wiggins e Froome rimase attaccato a Wiggo. È quello il concetto. Il concetto, la tradizione, la regola. La regola non scritta, quello che t’insegnano da ragazzino. Se c’è un capitano, lo devi rispettare».
- Gianni Mura su questo ha un parere diverso. Dice: ok, tu sei il gregario e andavi più forte, ma magari non c’era bisogno di farlo vedere in maniera così smaccata. Per Mura quel gesto di Froome a Wiggins fu quasi uno sgarbo. Sei d’accordo?
«Sì, lo evidenziai anch’io. Lo dissi in telecronaca. Poteva farlo ma in maniera migliore. Non fu un gesto così da signore. Non si fa. Un gregario non lo farebbe mai. Evidentemente aveva già il carisma del capitano, perché sennò poi non vinci quattro Tour de France. Voleva far capire a Wiggo: guarda che io t’avrei lasciato là».
- Ti è mai capitato da corridore o da diesse di subire o vedere episodi simili?
«Così eclatanti no. Poi, sai, a volte qualche defezione voluta nei confronti del capitano sì, perché magari qualcuno che tirava indietro invece di andare davanti a lavorare per il capitano c’è stato».
- Tu da diesse come ti saresti comportato?
«Mi sarei arrabbiato. Mi sarei arrabbiato molto perché quella è la regola. Tu m’hai chiesto di Boifava. A Boifava andava bene lo stesso, perché Visentini, bresciano come lui, tirato su da lui, compagno di squadra alla Vibor, quando Davide smise di correre... C’ero anch’io, perché si parla del ’78. Boifava addirittura mi telefonò, nel ’78, quando alla Vibor aveva Visentini giovane, giovanissimo. C’era anche Bitossi, pensa chi aveva come compagni di squadra, Visentini, da cui imparare. Quindi il Visenta– che poi tutti dicono: eh, bello, qua e là, sopra e sotto – era un corridore che sapevafare il corridore. Era un fuoriclasse. Un fuoriclasse sopraffino, un diamante grezzo».
- Mi tratteggi dal punto di vista tecnico Roche e Visentini?
«Roche è stato un corridore costante nel rendimento. Quell’anno ha vinto il Giro, il Tour e il campionato del mondo. Vuol dire andare forte per un lungo periodo. Roche è irlandese, ed erano già in due – lui e Kelly –. Una nazione [così piccola] con due corridori che andavano così forte era rarissimo. Però ci sono altri esempi. Anche gli svizzeri avevano corridori che andavano forte, ed erano di una nazione piccola. Guarda di recente gli Schleck nel Lussemburgo. Ci sono delle rarità nel ciclismo. Erano completamente diversi. Roche era un corridore anglosassone, quindi freddo nelle valutazioni e nel modo di essere. Allora era già diverso. Poi, era in una squadra italiana e aveva preso un po’ l’influenza dell’italianità, nell’organizzazione… Se guardavi la squadra di Kelly, che correva in una squadra straniera, e quella di Roche, Roche pareva un principe e Kelly un giullare di corte… [Le squadre di Kelly] facevan ridere. Come si presentavano alle corse, già a colazione, li vedevi già lì. Noi italiani tutti organizzati, perché avevi un massaggiatore che ti preparava la colazione. Loro erano naïf, facevano per conto loro. Si lavavano i panni da soli. Oddio, in quei tempi lì anche noi. Io mi portavo, per venti tappe, venti paia di calzini. Io non mi lavavo le cose, io ero un principino, però c’era gente che se le lavava. Oggi hanno tutto. Per quello dico: mi piacerebbe correre oggi».
- E dal punto di vista caratteriale? Più diversi non si può?
«Roberto è un soggetto che va molto a pelle. È un istintivo. È un po’ un “animale”, sotto questo aspetto».
- Tu sei uno dei pochissimi che sono riusciti a intervistarlo.
«Sì, e ha detto anche delle cose forti contro l’ambiente. Di recente [il 30 settembre 2017, nda] c’è stata anche una reunion, lui non c’era… Io ci ho parlato [ride], e mi ha detto: ma che vadano a fare in culo tutti… Lui è contro quelle persone perché ritiene di essere stato tradito. E non c’è peggior cosa che essere tradito da uno dei tuoi. Lui in quella squadra si sentiva protetto, perché comunque era un corridore che andava sempre stimolato. Aveva sempre il compagno di squadra o di camera che lo tirava e lo portava avanti nel gruppo. Scivolava, tendenzialmente, nel gruppo andava indietro, non stava mai nelle prime posizioni. Faceva una fatica… Faceva il doppio della fatica di un corridore “normale”, perché aveva paura, semplicemente quello. Aveva paura a stare in gruppo. Non si sentiva sicuro a stare in gruppo, mezzo coperto. Sai, quando andavi forte, bene o male tutti in fila, uno si metteva a ruota. E stando a ruota c’è un bel vantaggio, risparmi tante energie. Lui era sempre al vento. O comunque aveva sempre un suo compagno che lo riportava davanti. In gruppo lo sentivi: “Oh!”, “Occhio!”, “Occhio!”, “Oh…”. Perché? Perché aveva paura. E quindi spesso e volentieri scivolava in fondo al gruppo. E allora lo riportavano avanti, a destra o a sinistra, mai al centro. E quindi faceva il doppio di fatica. In salita poi andava fortissimo. A cronometro era un fuoriclasse. Andava forte-forte-forte. Io lo conobbi che era dilettante, juniores, e a un certo punto della stagione, dopo un tot di punteggio, da agosto in poi, se non sbaglio, potevi correre con i Seconda serie. Ci fu una corsa con i Prima o Seconda serie. Ci fu una corsa in Liguria, un circuito e lui era campione del mondo juniores. Era bello come il sole. Era un ragazzino. Lo vedevi proprio: questa gamba… Aveva una gamba fine, bella, potente. Stava bene in bicicletta. Con questi capelli lunghi sotto il casco… Arrivò sesto: da juniores, coi dilettanti. “Questo qui è un fenomeno” dissi subito, la prima volta che lo vidi. Era la prima corsa. Glielo dico sempre. Io mi ricordo: era a Loano, mi sembra. Se lo ricorda anche lui, comunque. Perché poi, gira e rigira, lui della bicicletta dice che non gliene frega niente, ma non è vero. Lui è innamorato della bicicletta. Della bicicletta. Dell’ambiente del ciclismo, no».
- Mi racconti di quando l’ha segata a pezzi e l’ha portata in buste di plastica a Boifava?
[Ridacchia] «È stato un gesto eclatante. Ma lui aveva di questi gesti. Lui per esempio una volta… Suo padre aveva un’impresa di onoranze funebri. Un giorno, eravamo in aereo e si leggeva un giornale. Era successa una tragedia, un disastro ma in un’altra nazione, fa’ conto un terremoto in Bolivia, non lo so: invento. E fa: “Perciò, veh, il lavoro non manca ancora, via… Meno male!”. Tron, e chiuse il giornale. Lui era così, ma lo disse in battuta, non voleva essere una cosa brutta, di cattivo gusto. Però ecco, per dirti, lui aveva questi gesti molto plateali. Come quando, a Sappada, disse: “Stasera qualcuno va a casa!”. Poteva stare zitto, no? Poteva andare via. Mi è successo, ho avuto una crisi, e via. Però quello che ha fatto specie, secondo me, per ritornare un passo indietro, è stata proprio la maglia rosa. La maglia rosa non s’abbandona. Lui comunque aveva questo difetto, questa debolezza di nervi. Si faceva [condizionare]… Ma perché? Perché era un genuino. Era un onesto. Èun onesto. È una persona onesta. Una persona pulita. Una persona con la quale trovi subito il feeling se sei sulla sua stessa lunghezza d’onda. Probabilmente quelli che lui aveva intorno in quel periodo lì… Ma io credo che ce l’avesse proprio con tutti, con massaggiatori, con meccanici… Se vai a parlare con i suoi ex compagni di squadra, anche nella reunionche c’è stata ora, a settembre, della Carrera, dicono che è stato un gesto stupido. Secondo me invece no. Lui è stato coerente. Lui è coerente in tutto. Lui da quella volta lì ha fatto tabula rasa con quella gente. E non ci vuole nulla a che spartire, capito? Questo è. Quello che dispiace è che un corridore come lui – e mi fa piacere che tu faccia quest’indagine, che tu ci faccia un libro, perché se lo merita – è un corridore che ha dato qualcosa, è stato qualcosa nel ciclismo. Specialmente in quei tempi lì».
- C’è un aspetto di cui s’è parlato tanto, magari a sproposito. Roche era abile coi media, bravo nel crearsi alleanze in gruppo, scambiare favori in corsa. Roberto era sempre sulle sue, e forse anche un po’ inviso in gruppo.
«Quello era un ciclismo dove, se io oggi ti faccio un favore, o comunque ti tiro, o ti faccio una tirata per chiudere un buco e tu magari non hai compagni di squadra che lo possano fare, io che sono in un’altra squadra te lo faccio».
- Qualche esempio? Millar e Anderson della Panasonic?
«Beh, loro erano diversi, perché non avevano tanto bisogno di aiuti esterni, che però esistevano ancora, eh. C’era questa sorta di alleanze venute sulla strada, perché poi fondamentalmente non è che ci fossero falsificazioni di risultati. Tanto, gira e rigira, vinceva sempre il più forte, o comunque il più furbo, il più scaltro. Roche era molto bravo in questo. Roche era uno furbo, era scaltro, correva bene. Era uno che sapeva puppare le ruote, come si dice in gergo. Era bravo. Sapeva leggere la corsa. Poi aveva sempre quest’aria, questo sorriso facile. Sempre sorridente. Sembrava quasi che fosse tuo amico. Per carità, in corsa poi… In corsa, era corsa. A me sinceramente dei due irlandesi piaceva più ilKelly che ilRoche. Io con Roche non ho corso molto. Con Kelly invece sì. Kelly era un arcigno. Ti faceva paura solo a vederlo, ma era un fenomeno. Un fuoriclasse. Tu guardi gli albi d’oro: ha vinto sette Parigi-Nizza consecutive. Già quello ti dice tutto. Poi la Roubaix. Ha vinto tutto. Ha vinto qualsiasi classica. Gli manca solo il Mondiale, che Roche ha vinto, pensa te. Roche ha vinto molto meno, è statomolto meno, però ha vinto tanto, come valore, come pesantezza. Anche Kelly però è un altro di quelli “alla Visentini”, anche se oggi è un valente talentdi Eurosport britannico. È molto bravo e si è calato nel ruolo molto, molto bene».
- Incredibilmentebene, se pensi a com’era orso da corridore…
«Sì, non parlava per niente! È per quello che ti dico: faceva paura perché lui in bicicletta era tutto storto, andava via con una potenza della madonna. E poi non parlava! Sembrava ilMac Ronay, il comico. Io mi ricordo, ero bambino, negli anni sessanta: faceva un numero e poi “hi”, uguale! Lui non parlava mai. Incredibile. Però, un altro fenomeno. Ma ce n’erano di corridori di questo tipo. Noi ci fermiamo a Hinault, a Fignon, a Saronni, a Moser, ma in gruppo ce n’erano tanti… La corazzata TI-Raleigh, o la Panasonic dopo. Tu magari hai vissuto Breukink, ma prima, ragazzi, c’erano Lubberding, Knetemann, Raas, Kuiper nella stessa squadra. Tre campioni del mondo…».
- Raas, al mondiale di Valkenburg ’79, la fece sporca...
«Raas buttò in terra Thurau. C’ero, alla televisione, ma ero parte in causa perché correvo nella Inoxpran di Boifava. Battaglin quell’anno volava, andava come una moto e fu buttato in terra da Thurau. C’era una sorta di accordo con Raas. Thurau era sempre presente nel fulcro della corsa. Era un bel corridore anche lui ma non era un gran vincente. E quindi da “poco vincente” qual era, si metteva a disposizione. Era un po’ un mercenario. Era un corridore che andava forte però la tiratinaa favore te la faceva, e poi magari aveva uno scambio di…».
- Mi parli del rapporto fra Schepers, Roche e il meccanico Valcke? Erano un po’ uno Stato nello Stato all’interno della Carrera?
«Erano la triade che ha fatto incazzare soprattutto Roberto, nella squadra che era casa sua. Boifava è di Nuvolento, Visentini è di Gardone, lì sul lago: fra loro parlavano dialetto, quindi la squadra era fatta come fosse casa sua. E quei tre a Roberto non sono mai andati a genio, fin dal primo momento. Non gli andavano a genio. Perché poi il vero problema non è stato Boifava, perché Boifava è stato neutrale. È stato Schepers e addirittura il meccanico, Valcke, che era, diciamo così, il grillo parlante, no? Quello che consigliava Roche. Sono stati loro due…».
- Valcke, quello che dall’ammiraglia si sporgeva per urlare a Roche: se hai i coglioni, devi dimostrarlo adesso…
«Difatti sono stati loro che hanno spinto Roche a fare il tradimento. Roche fondamentalmente è stato l’esecutore. È stato l’arma, ma il grilletto l’hanno tirato loro. L’han tirato loro. Boifava magari avrebbe potuto opporsi, ma a Boifava andava bene lo stesso. Boifava che doveva fare? Pigliava la maglia rosa di qua o quell’altro la prendeva di là. Roche forse gli dava più affidabilità. Può darsi, perché Boifava conosceva Visentini…».
- Ai patron Tacchella serviva magari di più un vincitore italiano?
«Quello, sì. Difatti credo che poi abbia avuto tanti problemi, ma poi alla fine vale sempre l’articolo quinto: ha ragione chi ha vinto. Ha vinto lui e quindi dopo è andato tutto a carte e quarantotto. Roberto invece purtroppo ha subito un sopruso. Un tradimento. Una bastardata».
- C’è anche una pagina brutta: i tifosi. Nelle tappe successive a Roche sputavano vino rosso e riso, qualcuno ha cercato di colpirlo e di sabotargli la bicicletta (che infatti Valcke si portava in camera). I carabinieri lo seguivano passo passo. Aveva paura per la moglie Lydia che nel finale di Giro era venuta a trovarlo. Tu che ricordi hai?
«Io son contrario a queste forme. Prima di lui è stato Saronni a subire le sacchettate, proprio nella mia città, Montecatini Terme. E sapevo anche chi era il mandante, era un moseriano. Un moseriano pazzo. Tirò una sacchettata di robaccia quando ci fu la cronometro».
- L’urina addosso a Froome non è stata una novità, quindi?
«C’era già stata. Sono forme di estremismo che son sempre da condannare. Pensa che noi un anno, quando si arrivava a Selva di Val Gardena, io e Argentin si girò la bicicletta per rincorrere uno che ci aveva detto “vagabondi”. Per dire come la penso io sui tifosi. I tifosi sono belli quando t’incitano, e lì il ciclismo è bello».
- Anche Visentini rischiò un episodio del genere. Poi l’hanno fermato sennò ci sarebbe stato il primo omicidio nella storia del Giro.
«Sì, sì. Son sempre successe, queste cose. Magari, sai, nel gruppetto… Il gruppettoè un po’ alla deriva, non ha puntata addosso la telecamera. Se ci sono due telecamere e l’elicottero, stanno sui primi. Nel gruppetto sei un po’ alla deriva, nessuno ti sta dietro e quindi subisci anche tante situazioni non belle, non simpatiche. Era la terza volta che ci dicevan “vagabondi”, si faceva fatica, e insomma! Cazzotti ai tifosi son stati dati anche dal mio collega Wladimir Belli. A quel Giro famoso, era la quarta volta che prendeva gli sputi da un parente di Simoni e fu squalificato, fu espulso. Era il 2001. Il ciclismo è fatto sulla strada, è una cosa di una semplicità unica. Ti metti a bordo strada e puoi tirare un cazzotto a un corridore e lo puoi fare quando ti pare. Fortunatamente sono stati pochi, e ben circoscritti. Quella volta lì purtroppo ci fu questo grande scandalo nei confronti della persona, dell’uomo. Anche Roberto aveva i suoi tifosi, ma non era… In quel periodo lì i tifosi si dividevano ancora fra Moser e Saronni, ma questa cosa dette fastidio a tanti. L’opinione pubblica, il tifoso, l’appassionato di ciclismo, lo vide proprio come realmente fu: un tradimento».
- Per non fare il santino di Visentini, c’è un aspetto che Roche ha raccontato, seppure in varie versioni, nelle sue biografie. E cioè che inCarrera ci fosse un accordo: Roche avrebbe dovuto lavorare per Visentini al Giro, e viceversa al Tour. Solo che in un’intervista lui sentì Visentini dire: ma quale Tour, io a luglio me ne sto con le ballea mollo. Inoltre, Roche arrivava sì da un anno d’infortuni, ma nell’87 andava fortissimo: alla Liegi si fece beffare da Argentin; aveva vinto la Volta Valenciana e il Romandia… Tu come la vedi?
«Che Roberto dicesse quelle cose può esser veritiero. Io non c’ero, ma ci posso anche credere. Conoscendo Roberto, la battuta ci sta. No, io a luglio vado magari sul ghiacciaio a fare du’ sciate, o con le palle in piscina. Io a luglio al Tour de France non ci vengo. Ci può stare. Mi sembra già di sentirlo, perché Roberto era così. Era plateale, era onesto, era pulito, era puro. Il suo pensiero, quello che aveva nella testa lui lo diceva».
- Però poi non puoi aspettarti chissà quale lealtà, se tu per primo leale non sei…
«Quello è vero. Però la regola è: io sono maglia rosa, e tu stai con la maglia rosa. Non attacchi la maglia rosa. Lì è stato un vero e proprio attacco. Reiterato, e studiato a tavolino».
- La sera prima, in camera con il gregario fidato Schepers?
«L’abbiam saputo dopo, ma questo è. E quindi, quando uno è lì, lo sa che questo avviene. Io non voglio difendere Roberto, per carità. Però ti dico il mio pensiero: è stata fatta una bastardata. Poi, che Roberto non fosse uno di quelli che si mettevano a disposizione di Roche, perché non gli stava simpatico, questo, per carità... Lui andava a simpatie. Se gli eri simpatico, ti dava anche tutto. Ti faceva pure il funerale gratis, nessun problema… [ride] Però è così».
- C’è una battuta, feroce, di Roche su Visentini: gran corridore ma appena legge il cartello “Chiasso” si perde.
«Sì, ma mica solo lui. Anche Saronni. Vuoi mettere Saronni? Saronni non è maiandato al Tour de France [ci andò una volta, proprio nell’87, e si ritirò alla 13esima tappa, nda]. Erano tempi diversi, perché il ciclismo era in Italia. Non era globalizzato. Noi, al massimo, si poteva fare la Liegi e la Freccia. Parigi-Roubaix e Fiandre erano per pochi. Il Giro di Svizzera. Andavi in Svizzera, al Romandia. Al massimo. In Spagna già era dura, perché allora la Vuelta si faceva ad aprile quindi era in concomitanza con le classiche».
- Battaglin nell’81 vinse il Giro e la Vuelta anche perché erano così ravvicinati.
«Infatti, era un ciclismo completamente diverso. A Roche venne facile. Era straniero, era “obbligato” a venire in Italia. Perché il ciclismo era in Italia. Il ciclismo era europeo. In Francia ci andavi malvolentieri perché comunque, all’infuori del Tour, le corse erano male organizzate. Tu andavi a far le corse in Francia, ragazzi, anche il Méditerranée o le corse all’inizio dell’anno, e rischiavi la vita: avevi macchine dappertutto. In Italia c’erano il Giro dell’Umbria, il Giro di Toscana, il Giro del Veneto, il Giro del Lazio, il Giro di Puglia, Reggio Calabria, il Giro di Sicilia, il Giro di Sardegna, il Giro del Piemonte, il Giro della Val d’Aosta. Tutte le regioni avevano la loro corsa. E poi erano corse di qualità. A livello qualitativo e organizzativo, anche se uscivi dall’area Gazzetta dello Sport, erano tutte organizzate bene. Perché ogni organizzatore aveva la sua perla da difendere. Macchine non ce n’erano, traffico chiuso, correvi bene, organizzati bene. All’estero non era così. Andavi a fare corse di paese. E, ripeto, era tutto concentrato lì. Siamo andati in America: era una roba, per carità… Allora il ciclismo non era globalizzato. Era europeo, era “legato a”. Il Giro di Polonia non esisteva. C’era la Corsa della Pace, per dilettanti. Il Giro di Germania non esisteva, c’era Francoforte. La Svizzera era abbastanza prolifica di corse: c’era Zurigo, c’era Gippingen, c’erano le corsettine anche minori. Il Giro di Svizzera, ragazzi, era la quarta corsa, anzi la terza, perché allora era più importante della Vuelta, che era considerata una corsa del cazzo. In Spagna non ci andava nessuno. Non c’erano tutte le corse che son venute dopo: Burgos… Non c’erano. La Clásica di San Sebastián sì, è venuta fuori, ma allora non c’era quel sentimento. Non era Visentini, era l’italiano medio. Poi è chiaro che se Roche deve parlare bene di Visentini, non ne parla di sicuro».
- Perché trent’anni dopo ancora si parla di Sappada ’87? E che cosa vorresti trovare in questo libro, qualcosa di cui non s’è mai parlato o s’è detto e letto poco?
«Mi fa piacere che, a distanza di trent’anni, ancora si parli di Sappada perché nell’immaginario collettivo è stata davvero una cosa eclatante, sportivamente parlando. È stata una cosa grossissima, anche per il dramma… Di tradimenti, o di situazioni non simili ma comunque di gara, ce ne sono a bizzeffe: dai bisogni di Nencini alla pipì di Gaul. Ce ne sono tantissimi. Simoni si sentì tradito perché da Basso – probabilmente – aveva avuto la tranquillità di vincere la tappa. Era uno degli ultimi casi, rarissimi. Perché quello che succedeva ai tempi nostri – quindi trenta, quaranta, cinquant’anni fa –, quando c’era una certa predisposizione a fare un favore all’altro, per prendere poi dopo, nel ciclismo moderno non esiste più. Primo, perché non si conoscono più neanche come corridori; con ventisette in squadra non si conoscono neanche fra di loro. Quindi già diventa difficile perché io non ti conosco, magari ti vengo a chiedere: “Ti do cento euro per farmi vincere. Dai, prendi ’sti cento euro”. E tu domani mi sputtani: “Lo sai che m’han fatto?” Poi magari mi batti e dici: “Oh, mi voleva comprare con cento euro, cazzo… Se me ne voleva dare centomila, magari…”. Per dire: non sai mai con chi hai a che fare. Bisogna che ti fidi. Ciecamente. Quindi è difficile. Prima era un ciclismo che eravamo sempre noi».
- Quindi perché, trent’anni dopo, ancora se ne parla?
«Perché è stato un tradimento. Senza spargimento di sangue, ma è come se del sangue ci fosse stato… Con Roberto io credo di essere veramente uno dei pochi che gli può telefonare. Se lo chiamo ora, mi risponde. Son certo di questo. Mi sembra di vivere come – ora la dico grossa – nella serie di Gomorra. Bisogna vedere chi sono i veri amici e i nemici. E i veri amici, probabilmente Roberto, non li sente, o non li trova, nell’ambiente in cui è stato».
- Hai mai provato tu a fare da paciere. O a chiamare Roche per sentire l’altra campana?
«No, mai. No, perché rispetto più Roberto, in questo caso. Perché io sono della vecchia guardia. Per me il capitano è capitano. La maglia rosa: si va a fondo, piuttosto. È come il capitano su una nave: vai a fondo con la nave. Non puoi abbandonare il capitano. Che fai, l’abbandoni? Io poi nasco gregario, sono gregario, quindi figurati se di natura posso dare a favore di Roche. Una cosa, ripeto, studiata a tavolino. Ho subito anch’io dei soprusi, dei tradimenti sulla mia persona, in corsa da parte di un direttore sportivo, quindi capisco molto Roberto. Io dovevo andare ai mondiali, ero stato inserito nella lista. C’erano da fare tre premondiali. Nella prima, il Giro di Toscana, la lista già era venuta fuori, a firma di Piero Ratti. Nelle percentuali, allora si usava, c’erano Saronni e Moser, naturalmente, e poi una serie di corridori, gli “azzurrabili”. Ed io avevo un bel 40%».
- Di che mondiale parliamo?
«Era l’81 [a Praga, nda]. Io ero alla Santini-Selle Italia, quindi ora fai presto a collegare: il direttore sportivo era Piero Pieroni. Non ho problemi. Siamo amici, ora… Ma siamo amici perché io sono diverso da Roberto. Perché poi ci metti una pietra sopra. Però il tradimento fu fatto. Ad opera di un corridore che a me stava un po’ sulle scatole, perché era un corridore che non ritenevo… un corridore. Un mio compaesano quasi, Luciano Lorenzi. E lui in pratica fece inmodo e maniera[tipico intercalare toscano del Magro, nda] di beffarmi. Pieroni mi chiamò in fondo al gruppo, e a Lorenzi aveva detto di scattare. Quindi io, una volta che ero in fondo al gruppo, su una salita, una mezza salitella – fra le altre cose avvertito da Beppe Martinelli, che era in squadra con me e mi dice: “Dove vai?”. “M’ha chiamato Piero…”, perché m’aveva chiamato Pieroni – alzo la mano, non viene e dico: Ma che cazzo... A un certo punto sento: “Attenzione, accelerare-accelerare! Scatto in testa al gruppo: Lorenzi”. Cazzo, io lì capii tutto. Mi ha fatto andare in fondo al gruppo, per mettermi in difficoltà, perché lui sapeva che io in quel momento ero molto delicato di nervi. E difatti saltai per aria».
- Qual era il suo disegno?
«Smontare il discorso del 40%, perché lui voleva mandare ai mondiali Lorenzi. Ci riuscì».
- E perché voleva mandare Lorenzi e non te?
«Perché era un “malato”. E siccome tutta la squadra ce l’aveva con Lorenzi, e Lorenzi faceva tutto quello che gli diceva Pieroni… Pieroni aveva Lorenzi come arma, e fu fatto fuori. Al Giro d’Italia, che quell’anno lì partiva da Trieste, mi ricordo che fino all’ultimo non mangiai un cazzo, perché avevo paura che mi mettesse qualcosa nel mangiare. Lui portò Lorenzi – cosa che non esisteva – lassù in albergo fino alla partenza del Giro d’Italia, perché, nell’eventualità, lui era riserva. Ma noi si fece in modo e maniera[ibidem, nda] di farlo fuori. Quando sono andato in ritiro, la Gazzetta aveva pubblicato i nomi. C’era quello di Lorenzi. Ed io non c’ero. Allora andai a bussare da Pieroni e gli dissi: “Scusa, Piero, ma…”. E lui: “Ah, perché i giornalisti sono teste di cazzo… No, non è vero niente…”. Un pazzo, un pazzo! Una roba… Quindi, per dire: io questo sentimento del tradimento lo capisco bene. A spese mie».
- Perché l’hai vissuto sulla tua pelle.
«Porca p..! Questa è una roba che se la racconti, la gente ’un ci crede. Machiavellico. Una roba che non ci sta. Io ti chiamo… È come se io ti chiamo alla scrivania: Christian, vieni qua un attimo e intanto sono già d’accordo con uno che ti va a rubare le penne dalla scrivania. Cioè, ’na roba impressionante. E te mi cerchi: ma Riccardo, dove sei? Ed io: “Son qua, vieni qua, sono qui…”. Ti muovi, vieni indietro… Cioè: capisci? Poi arrivi a casa e non c’è più il computer e dici, porca p… Cazzo. Sei un pezzo di m... Tu lo sai che io sono un pezzo di m. Ed io lo sapevo che lui era un pezzo di m... E difatti poi ci feci a cazzotti. Mi toccò mangiare un piatto di m... perché c’era d’andare a fine stagione. Avevo da guadagnare i soldi, non potevo… Ma m’aveva fatto fuori. Io dovevo andare a correre con la Bianchi. Il che poi è stata la mia fortuna, perché lui aveva detto a tutti che smettevo. Non c’erano procuratori allora, facevi tutto da solo, e a giugno io dicevo: sono andato forte, sono arrivato bene al Giro d’Italia, non ho vinto – io da professionista ancora non avevo vinto – però mi sono fatto vedere. Avevo suscitato un po’ d’interesse, m’ero fatto vedere. Avevo fatto una bella stagione. E nessuno mi veniva a cercare. Strano. Cazzo, strano sì. Quello stronzo – l’ho detto: siamo amici, ora – aveva detto che smettevo di correre e andavo a lavorare col mi’ babbo, tappezziere – Aveva fatto un disegno… Io manco ci pensavo, pensa te! È stata la mia fortuna perché poi, quasi a ottobre, quasi a fine stagione, venne Mauro Battaglini. Fece questa squadra nuova che si chiamava Metauro Mobili-Pinarello e prese tutti gli scarti fra i corridori che c’erano in giro. E venne fuori uno squadrone. C’erano Vittorio Algeri, Flavio Zappi, Marco Groppo, poi prese Lucien Van Impe».
- Nel ciclismo di oggi, tutto SRM e radioline, una Sappada potrebbe accadere?
«Con le radioline, magari, potrebbe esser fatta meglio. Però, sai, lì è stato un calo di nervi di Roberto perché su una salita del genere non perdi le ruote come l’ha perse. Aveva tutto il tempo e la strada per rimediare e rimanere, ma lui proprio… Lì, è stato proprio un fattore di nervi. Lui lì si è sentito proprio tradito, capito? Dalle persone che ha sempre… – credo, eh, credo sia stato così – Perché una crisi così… A parte che lui non era nuovo a quelle crisi. Anche a Selva, mi ricordo, quando tirò via la bicicletta, ci fu una crisi di fame. Quelle però erano crisi diverse».
- Lì, fu Battaglin a riportarlo dentro, vero?
«Sì, però, vedi, per esempio Battaglin, che era un capitano, aveva l’indole di quello che sapeva come… Roche e Visentini erano due mondi diversi. Per questo è venuto fuori il casino. Son due mondi diversi, ma basta vedere. A me l’Irlanda piace, come popolo sono schietti, molto schietti. E direi anche diretti nell’esprimere le loro opinioni, ma in quel caso lì c’era un belga [Schepers, nda] e c’era Valcke, un francese. La macchinazione non è stata fatta da Roche. Secondo me i corridori, in quel caso lì, c’entrano poco. Il vero problema è stato l’ambiente, l’entourage interno alla Carrera. Ma da parte dei direttori. Boifava, è lui quello che ha fatto incazzare Visentini, secondo me. Un Boifava consenziente».
- Con Boifava abitano vicini ma si salutano appena. L’amicizia è un’altra cosa.
«Secondo me, sì. Roberto, io credo che amici nell’ambiente del ciclismo non ne abbia».
- Lui dice che con i corridori non ha mai avuto problemi, è il resto: gente non affidabile.
«Vedi? Vedi che poi, alla fine, tutto torna».
CHRISTIAN GIORDANO
Commenti
Posta un commento