Intervista Silvio Martinello, campionissimo del ciclismo italiano



ROBERTO VALLALTA
INTERVISTE - 23 APRILE 2019

Silvio, come inizia la tua passione per la bici?

Inizia tutto un po’ per caso, guardando le bici esposte in un negozio vicino a dove abitavo in provincia di Padova. Mi tesserai con il Gruppo Sportivo Morello, ma con pochi risultati anche perché giocavo a calcio. Il sabato pomeriggio partita di calcio, la domenica mattina le corse in bici.  Poi a 15 anni, anche grazie a papá Luciano, ho deciso di dedicarmi solo al ciclismo e sono anche arrivate le prime vittorie. La più importante fu la Coppa OM, organizzata dalla Società Ciclisti Padovani.

In quegli anni ci fu il tuo passaggio alla Società Ciclisti Padovani.

Lì incontrai Severino Rigoni, argento olimpico a Berlino nel 1836, colui che probabilmente cambiò la mia vita di ciclista. Il direttore sportivo era il figlio Olimpio Rigoni (si chiamava così perché nato l’anno Olimpico di Berlino). Olimpio mi portò dal padre Severino e disse che per acquistarmi, in base ai miei punteggi acquisiti, servivano un milione e 80 mila lire. La reazione di Severino fu: “Un milione e 80mila? Per questo qua?!”. In effetti ero un po’ magrolino e Severino non era così convinto. Ma alla fine il figlio Olimpio insistette e Severino mi acquistò.

Società Ciclisti Padovani, un’istituzione del ciclismo veneto.

È stata per me una scuola di ciclismo. Subito dopo aver deciso di acquistarmi, Severino mi portò in magazzino dove c’erano una serie di bici usate e mi disse: “Una la troverai che ti va bene”. Ho iniziato così. I metodi di Severino erano particolari. Qualche aneddoto ha fatto storia.
Un giorno su una fuga di 12, siamo in 6 della squadra. Non ci aiutiamo come squadra perché tutti vogliamo vincere e perdiamo la gara. Severino prende le nostre borse, le butta fuori dal pulmino e se ne va. Dovevamo arrangiarci a tornare da Mirano a Padova. 
Un’altra volta due compagni volevano il materiale da gara nuovo: Severino acconsentì, ma solo dopo pulizia completa della bici. Loro la pulirono, ma non come voleva Severino e non ebbero il materiale nuovo.
Alla Società Ciclisti Padovani gli allenamenti erano alle 8: se arrivavi alle 8 e un minuto non trovavi nessuno. C’erano delle regole chiare e dovevi rispettarle.

Sono stati anni duri, di sacrifici?

Per me non si trattava di sacrifici, tutt’altro. Ho vissuto il periodo dell’adolescenza focalizzato sul ciclismo con grande determinazione. Già da giovane facevo due allenamenti al giorno: la prima uscita, di un paio d’ore, prima di colazione, l’altra in tarda mattinata. Sono stati quegli allenamenti a creare la base atletica e psicologica fondamentale per il prosieguo della mia carriera.

In quegli anni avevi un campione che ammiravi?

Mi piaceva molto Moreno Argentin, con cui poi ho avuto la fortuna di correre. Poi ovviamente erano gli anni di Moser e Saronni.

Come sono stati gli anni del dilettantismo?

Il 1983 è stato un grande anno in cui ho ottenuto molte vittorie. Poi c’è stata Los Angeles 1984, la prima Olimpiade. Eravamo i favoriti nell’inseguimento a squadre, una gara che se ripetiamo cento volte probabilmente la vinciamo sempre. Troppo sicuri di vincere, abbiamo sottovalutato gli avversari, l’Australia, e abbiamo perso. Una delusione perché inattesa. E abbiamo perso anche la finale per il bronzo con la Germania. Abbiamo avuto la rivincita l’anno successivo, ai mondiali di Bassano del Grappa. Gli avversari erano più forti e c’era più competizione che a Los Angeles. Era un ambiente speciale ed è stata una vittoria in casa davvero indimenticabile. 

Nel 1984 l’addio alla Società Ciclisti Padovani.

Si, è finita una parte della mia vita ciclistica. Ho avuto una proposta che non potevo rifiutare. Dovevo comunicarlo a Severino e dalla tensione mi è venuta la febbre per molti giorni. Quando l’ho comunicato, mi ha salutato e ha messo giù il telefono.

E arriviamo così al lancio nel mondo professionistico.

La mia avventura inizia con la Sammontana e la Gewiss con Moreno Argentin capitano. Poi nel 1988 passo all’Atala dove faccio il mio primo Giro d’Italia. Il 1989 è un momento critico: quattro squadre chiudono e in tanti rimaniamo senza squadra. È forse il momento in cui ho temuto di dover abbandonare il ciclismo. Poi mi ha cercato Reverberi e sono entrato, dopo una lunga trattativa, nella Jolly Club di Marino Basso. Quell’anno poi ho vinto una tappa alla Vuelta, la mia prima tappa in un grande Giro.

Di quegli anni c’è un ciclista per te importante a cui hai dato e ricevuto tanto?

Si, Massimo Ghirotto. Lui è un amico. Ci siamo aiutati tanto in quegli anni nonostante non siamo mai stati in squadra assieme.

Gli anni 90: per te gli anni più belli.

Sono stati anni intensi, belli con vittorie e tanto lavoro per gli altri. C’è stata la vittoria nella tappa al Giro a Castelfranco Veneto e altri successi che mi hanno dato forza e consapevolezza.

Sono gli anni in cui corri con Mario Cipollini.

Mario è uno a cui madre natura ha dato doti eccezionali. È un personaggio che voleva spazio e che lo spazio spesso lo aveva. Io sono stato suo compagno di stanza per due anni, fino al 1996, quando i rapporti si sono incrinati.

Ho sempre amato la pista e, in particolare, la corsa a punti e le Sei giorni. La molla, poi, per ottenere successi importanti, è stata l’apertura dei Giochi ai professionisti. I mondiali di Bogotà servirono anche per la qualificazione Olimpica: vinsi due ori nella corsa a punti e nell’Americana con Villa. Ricordo che si correva in una pista di cemento.

Il 1996 è l’anno d’oro di Silvio Martinello: da Atene ad Atlanta.

Quell’anno avevo un unico obiettivo dichiarato: l’Olimpiade. Partecipai al Giro d’Italia e nella prima tappa, che si correva ad Atene in onore del centenario dei Giochi Olimpici, a circa 10km dal traguardo, Cipollini mi disse che non si sentiva bene. Fui libero dunque di giocarmi le mie carte e vinsi la tappa in volata. Presi la maglia rosa e la tenni 4 giorni. Quello poi fu l’anno della rottura, se così si può chiamare, con Cipollini che, in buona parte, fu dovuta dalla gestione societaria dei nostri impegni.

Atlanta, l’Olimpiade d’oro.

Sono arrivato ad Atlanta da favorito, all’apice della mia carriera da professionista, sicuro di me e con l’unico obiettivo di vincere. Fu una corsa a punti particolare. Il velodromo era in legno all’aperto, il cielo era minaccioso e il timore di pioggia era alto. E se pioveva dopo i due terzi di gara la corsa sarebbe stata fermata con la classifica del momento. E così sono partito forte, sono andato subito in testa e ho dominato la gara. Ero arrivato a quei Giochi in gran forma: preparare un’Olimpiade vuol dire preparare ogni dettaglio, ogni virgola, perché non puoi rischiare nulla, l’appuntamento è ogni 4 anni e se lo perdi può non tornare più. Vincere un’Olimpiade per uno sportivo è la gioia più bella.

Il 1997 è un altro anno di successi.

Di successi e anche di ulteriori tensioni con la squadra e con Cipollini. Però alla fine vinco il mondiale di Perth nella Corsa a Punti e a fine stagione vinco anche il Giro di Puglia, l’unica corsa a tappe della mia carriera. C’è una bella storia in quel Giro: l’ultima tappa mi trovai praticamente senza squadra, ma per fortuna Riis, mio compagno in qualche Sei Giorni, e la sua squadra avevano l’aereo presto e così tennero un ritmo altissimo per finir la gara prima e correre in aeroporto. Non ci fu nessuna fuga, e vinsi il Giro di Puglia.

Con le Olimpiadi di Sydney si chiude la parte più importante della tua carriera, con qualche lacrima.

Quelle erano doppie lacrime. Lacrime di delusione per una corsa a punti andata male e per una medaglia di bronzo nell’americana in cui forse potevamo fare qualcosa di più, anche se poi una medaglia di bronzo non la scordi. E poi lacrime perché era la fine di una parte di vita bella, appassionante ed era l’addio alla maglia azzurra.

Marco aveva un grande motore, tuttavia a volte un po’ rilassato: per lui era un risultato importante già il fatto di partecipare, mentre per me contava la vittoria. Perciò, di tanto in tanto, dovevo stimolarlo in modo che si impegnasse a fondo. Siamo stati una grande coppiaMartinello e Villa, campioni del Mondo.

Io alle Sei Giorni ci sono affezionatissimo, perché c’è l’effetto stadio, c’è un’atmosfera unica che rende ogni Sei Giorni uno spettacolo. Ne ho vinte 28, ma soprattutto ero diventato il punto di riferimento per queste manifestazioni. Ero “il capo” delle Sei Giorni. Erano gare, un tempo, frequentate da tantissimo pubblico e da atleti famosi, caratterizzate da un ambiente frizzante, meno “monastico” di quello del ciclismo su strada. La Si Giorni, tra l’altro, era particolarmente adatta alle mie caratteristiche di ciclista resistente e veloce.

C’è una Sei Giorni a cui sei particolarmente legato?

Le quattro vinte a Milano, ma anche quelle di Berlino e Monaco. In Germania la tradizione delle Sei Giorni è unica. E poi ho un ricordo della mia prima Sei Giorni di Gand. Ero in coppia con Bidinost, non ci capivo nulla. Abbiamo preso 67 giri e, in preda al panico, ho anche causato la caduta di Clark e Doyle. Patrick Sercu venne da me mentre ero a terra e mi guardò malissimo. Poi diventammo amici. Sapere che è mancato mi fa sentire un po’ più solo.


C’è una gara, solo una, che vorresti rifare?

Rifarei il Tour de France per tentare di vincere una tappa. Dopo aver vinto al Giro e alla Vuelta, l’unico cruccio che mi rimane è quello di non aver vinto al Tour. Ma per il resto, so di aver raggiunto il massimo dei risultati per le mie potenzialità fisiche. Non ho alcun rimpianto.

Il Silvio Martinello commentatore amato dal pubblico di tutta Italia.

Già nel 1997 feci le prime esperienze da commentatore poi negli ultimi anni grazie alla Rai sono diventato famoso e come hai detto, amato.

Come ci si prepara a una gara da commentatore tecnico?

Semplicemente studiando, studiando gli aspetti della corsa, ma non solo. Oggi le dirette sono di 6-7 ore, dirette integrali in cui per tante ore non c’è nulla da raccontare dell’aspetto sportivo. Il ciclismo si presta molto al racconto, al racconto di storia, geografia, al racconto della cultura dei posti dove le corse passano. E anche questa è la bellezza del ciclismo. E con Francesco Pancani avevamo creato un abbinamento perfetto.

Quali sono le telecronache a cui sei particolarmente legato?

Il Giro d’Italia e il Tour De France di Nibali e la vittoria Olimpica di Elia Viviani a Rio de Janeiro.


Qualche pronostico: Giro, Tour e Mondiale?

Per il Giro vedo Dumoulin, per il Tour credo che Froome non se lo lascerà sfuggire, per il mondiale dico Alaphilippe.

L’Italia e il ciclismo su pista

In Italia ci sono pochi impianti e, ormai, sono passati i tempi del grande pubblico durante gli eventi su pista. In effetti, mancano le vedette, i grandi nomi che richiamano pubblico e interesse. Attendo il nuovo velodromo di Spresiano, in provincia di Treviso, impianto che sarà bellissimo. 

Qualche nome per la pista per Tokyo?

Possiamo dire la nostra nelle gare di endurance, ma in quelle di velocità, purtroppo, non abbiamo, per il momento, atleti di riferimento. Disponiamo di ottimi quartetti che potranno giocarsi le loro carte. Da citare, naturalmente, Elia Viviani e Letizia Paternoster.

Qualche consiglio per i giovani ciclisti?

Oltre ad avere un buon motore, nel ciclismo ci vogliono tanto impegno e rigore negli allenamenti e nella vita. Oggi, forse, è più difficile perché lo stress è maggiore: i social, in particolare, sono stati “devastanti” perché espongono i corridori a pressioni mediatiche prima impensabili. Lo stress e l’eccesso di impegni extra-ciclistici, per esempio, possono determinare cali di condizione, altrimenti inspiegabili. Tuttavia, è giusto sottolineare che oggi, rispetto ai miei tempi, ci sono più garanzie contrattuali. In ogni caso devi avere voglia di fare sacrifici, devi avere fame ogni giorno per migliorarti.

Quali sono i sogni di Silvio Martinello?

Sto valutando diversi progetti. Per il resto, sono molto contento della vita che faccio.

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