Good boys go to heaven, Bad Boys go everywhere




Sliding doors (I)

Nel momento in cui il tendine d’Achille di Kevin Durant salta come un cavo spezzato, nell’inquadratura che non vi riproponiamo perché chi scrive si risogna ancora Francesco Totti e Shaun Livingston, l’equilibrio nella forza si rompe e avviene un travaso di energia dalla California al Canada. 

Mentre prima, timidamente, si diceva che ok, i Raptors erano una squadra che aveva dimostrato di essere valida – ma battere QUATTRO VOLTE gli Warriors in una serie di playoff era un’altra roba – adesso si comincia a pensare davvero che la franchigia canadese ce la possa fare, che possa essere l’anno buono per detronizzare Golden State, alla quinta finale consecutiva ma alla prima con un avversario diverso dai Cleveland Cavaliers, che li avevano battuti una volta ma che dall’arrivo di Kevin Durant in gialloblù avevano dato l’idea di non poter più contrastare la squadra di Kerr. Un momento, un istante che cambia le sorti di un’intera stagione.

Siamo al 6 giugno 1989, al neonato The Palace of Auburn Hills di Detroit.


cdn.nba.net

1989

Il mondo nel 1989 era un mondo profondamente diverso da quello che conosciamo oggi. Le squadre NBA tiravano da tre meno di 7 volte a partita. Gli Stati europei avevano nomi esotici come Cecoslovacchia, Jugoslavia, Repubblica Federale Tedesca, Repubblica Democratica Tedesca. Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quando si scontravano le nazionali, le sigle DDR e URSS evocavano posti lontani in cui si viveva una vita per molti versi neanche paragonabile a quella che si viveva da noi. Anche gli USA erano lontanissimi, molto più di oggi, e il campionato NBA – i cui vincitori si definivano, non senza ragion veduta, “World Champions” – era sostanzialmente un campionato tra giocatori USA con poche eccezioni. Tipo Detlef Schrempf, per citare quello più famoso, che però, prima del salto tra i pro', si era fatto quattro anni di NCAA a Washington.

Sarunas Marciulionis, Drazen Petrovic e Vlade Divac sarebbero arrivati l’anno dopo, e i carneadi tipo Uwe Blab non è che avessero avuto quella splendida carriera nella lega con Jerry West nel logo. C’era già il McDonald’s Open a farci vedere che i due mondi del basket si parlavano e tentavano i primi timidissimi approcci. 

Il Dream Team, invece, sarebbe venuto solo tre anni dopo, e in quel momento era poco più di una pazza idea. Siamo ad Auburn Hills e stanno per iniziare le finali del campionato NBA, una rivincita di quelle del 1988. I Detroit Pistons avevano appena migliorato il loro record di franchigia, vincendo 63 partite in una stagione: tuttavia, nessuno di loro era nel Primo quintetto NBA, nessuno nel secondo, nessuno nel terzo. Avevano però due quinti del Primo quintetto difensivo: Joe Dumars e Dennis Rodman. È il caso di dirlo: ad affrontarsi erano due filosofie di gioco, due Weltanschauung che più opposte non si può.


miro.medium.com

Sliding doors (II)

Nel riscaldamento, la guardia titolare dei Los Angeles Lakers, Byron Scott, si infortuna al tendine rotuleo in modo abbastanza grave. Si capisce subito che sarà out for the series. Non un bell’affare per i Lakers, che già l’anno prima avevano dovuto sudare per aver ragione dei Detroit Pistons: sotto 3-2 nella serie, vinsero gara6 di un punto e gara7 di tre, a Los Angeles, con un Isiah Thomas sottotono per un infortunio rimediato nel finale di gara6. 

Detroit poteva contare su tre esterni piccoli e veloci, troppo per Magic Johnson, in Isiah Thomas, Joe Dumars e Vinnie "The Microwave" Johnson. Il fatto che i Detroit Pistons abbiano il vantaggio del campo conta relativamente, se si considera che i gialloviola hanno conquistato l’accesso alle Finals da imbattuti: 3-0 ai Blazers, 4-0 ai Sonics, 4-0 ai Suns in finale di conference. La macchina dello Showtime di Pat Riley e Magic era oliata alla perfezione: il #32, James Worthy e Byron Scott mettevano insieme quasi 63 punti a partita, tirando con oltre il 50% dal campo e oltre l’80% dalla lunetta, Kareem giocava metà partita, ma ancora “alla Kareem”, la rotazione era profonda a sufficienza con Mychal Thompson, Michael Cooper e Orlando Woolridge (visto a fine carriera alla Virtus Bologna). Il problema era che la squadra più antitetica ai Lakers in tutta la NBA erano proprio i Pistons. Difesa arcigna, voglia di emergere, determinazione e cattiveria.


cdn.nba.net

Jordan Rules… or maybe not?

I ragazzi di coach Chuck Daly arrivano alla sfida coi Lakers col miglior record (63-19), con una voglia tremenda di rifarsi per la cocente delusione dell’anno prima e con una consapevolezza dei propri mezzi cementata dalle finali di conference contro i Chicago Bulls. Sotto nella serie 1-0 e 2-1, Thomas e soci riescono ad avere la meglio per tre volte consecutive sui futuri dominatori della NBA. Michael Jordan era già "His Airness", aveva già buttato fuori i Cavs con "The Shot", era già stato capace di vincere – primo nella storia della NBA – il titolo di miglior marcatore, miglior difensore e MVP nella stessa stagione. L’espressione “Jordan Rules” può voler dire sia “Jordan regna” sia “Le regole di Jordan”.


ballislife.com

Quelle che Chuck Daly avrebbe istituito dopo che Jordan ne stampò 59 in faccia ai Pistons in una partita in diretta televisiva nazionale, con un 21 su 27 dal campo che lasciava intendere come il #23 in rossonero non avesse poi fatto tutta quella fatica a trovare il canestro contro i Pistons. “Jordan regna”, appunto. Quando i giornalisti dell’epoca chiedevano ai giocatori se realmente Chuck Daly avesse istituito delle “regole di Jordan”, tutti facevano gli gnorri, e qualche anno fa fu Rick Mahorn a svelare l’arcano: non c’era alcuna Jordan Rule, era solo una cosa buttata lì da un Daly incazzato nero e ripresa dai giornalisti, e che però era talmente credibile da aver aggiunto pressione psicologica sui Chicago Bulls. E allora, disse Isiah Thomas, uno non in cima alle simpatie di Jordan, perché non fare finta che le Jordan Rules esistessero davvero?

Sliding doors (III)

Gara1 delle Finals, ad Auburn Hills, è stata tosta, come Pat Riley poteva aspettarsi e come si era visto dopo la serie coi Bulls. Lotta feroce su ogni rimbalzo (i gialloviola perderanno la sfida sotto le plance 45-32), cercare di impedire ai Lakers di partire in contropiede, selezione di tiri chirurgica da parte degli uomini di Chuck Daly (oltre il 55% dal campo, 1/2 da tre di squadra), rotazione a 9 uomini contro quella dei Lakers, in 7 più qualche sprazzo di Kareem, che ha da poco scollinato le 42 primavere e in gara-1 gioca 14 minuti. 

I Pistons la spuntano 109-97 tenendo Worthy e Cooper a brutte percentuali. Worthy in particolare era considerato uno da guardare a vista, quasi a livelli jordaniani, visto che sapeva elevare il proprio rendimento durante i playoff. 

Per la seconda partita, sempre ad Auburn Hills, gli uomini di Pat Riley dovevano inventarsi qualcosa.


Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images

A poco meno di cinque minuti dalla fine del terzo quarto, Lakers avanti 75-73 e palla in mano. Attacco a difesa schierata, Magic e Thompson giocano un pick 'n roll che porta il #43 dei Lakers a tirare da sotto, dove però l’ottima rotazione difensiva di Detroit porta Salley a una stoppata che manda il pallone nelle mani di Isiah Thomas, che guida la transizione. E si trova davanti Magic, che aveva cercato di scattare il più velocemente possibile per chiudere il contropiede. Johnson cerca di sporcargli il possesso ma la palla finisce ad Aguirre, che appoggia al tabellone per due punti facili che impattano la gara a quota 74. 

Magic si tocca la parte posteriore della coscia. Zoppica vistosamente, è contrariato e agli occhi ha lacrime di rabbia. Lascerà la partita, che Detroit porterà a casa, andando sul 2-0. Proverà a rientrare in gara3 ma gli basteranno cinque minuti e due tiri sbagliati per capire che la sua serie era finita lì, sul 74-72 della partita precedente, ad Auburn Hills.

Il diavolo nei dettagli

In gara2, Kareem proverà a fare quel che Magic aveva fatto nelle Finals del 1980, con una gara3 da 24 e 13 rimbalzi. James Worthy, che in gara2 era andato in lunetta per pareggiare la partita a quota 106 con 2 secondi da giocare ma aveva sbagliato il primo libero, cercherà di farsi perdonare piazzandone 40 in gara4 dove farà capire a tutti perché da 4 anni era un All-Star.



nba.com

Ma i Pistons avevano il vento in poppa anche nelle piccole cose, come in Isiah Thomas che sbaglia un tiro nel finale di gara3 e il rimbalzo gli torna in mano per dare il +5 ai Pistons quando mancava meno un minuto da giocare. 
Come la rimessa non trattenuta da Kareem (anche grazie alla spintarella di Laimbeer) a 30 secondi dalla fine di gara3 coi Lakers sotto di tre punti. 
Come Kareem che si fa sfuggire un rimbalzo già preso sul -4 in gara4 a poco più di un minuto dalla fine. 
Come Dennis Rodman che proprio in gara-3 tira fuori una delle prime prestazioni che lo faranno conoscere al mondo: 28 minuti, 12 punti (con 6-6 dalla lunetta), 19 rimbalzi di cui 7 offensivi. 

Guardando all’albo d’oro, uno si fa l’idea che le Finals del 1989 siano state quelle in cui i Bad Boys hanno preso a calci quelli dello Showtime, “i cappellini neri contro i cappellini bianchi”, come si diceva all’epoca.


E invece è stata una serie sporca, con partite tiratissime e che probabilmente i Lakers avrebbero potuto fare loro se avessero avuto Byron Scott e Magic Johnson sani e per tutta la serie. Kareem Abdul-Jabbar avrebbe chiuso una carriera straordinaria con un three-peat, Magic Johnson, che di quella stagione era stato l’MVP, avrebbe vinto il suo sesto anello.

Sliding doors (IV)

Salto temporale di quattro anni in avanti. Dennis Rodman, che di soprannomi ne ha SETTE (The Worm, Dennis the Menace, Country, Psycho, Rodzilla, Demolition Man, El Loco) è arrivato decimo nelle votazioni per l’MVP della stagione precedente, in quel fatidico 1992, davanti a tre original dreamteamer come Barkley, Stockton e Bird; il suo stipendio ha raggiunto i sei zeri, ma Rodman fa una fatica dannata a trovare il suo posto nel mondo. 

Forse sono le parole del povero Craig Sager, a tirarlo fuori dal baratro, forse la voce di Eddie Vedder che cantava “Even Flow” e poi “Black” nell’autoradio del suo pick-up, o forse riesce per l’ennesima volta a credere in se stesso quando sentiva che nessun altro ci credeva più.

I Detroit Pistons sono passati dall’essere campioni NBA per due anni di seguito ad essere estromessi dai playoff nonostante Rodman sia ormai da due anni consecutivi il miglior rimbalzista – 144 partite, 2662 rimbalzi. 

Michael era sul punto di dare il primo dei suoi tre addii al basket giocato, c’era già stato il Dream Team senza neanche un giocatore dei Pistons. Dennis decide di non farla finita, in quel pick-up parcheggiato davanti a Auburn Hills, nel 1993. Due anni dopo firmerà per Chicago, dove insieme con "Batman", "Robin", il Croato, l’Australiano e l’ex stella dei Clippers, formerà la squadra di basket forse più forte di tutti i tempi, almeno fino ad oggi.


Epilogo

I Bad Boys prendano a calci lo Showtime. Si tratterà solo di aspettare 11 anni, da quel giorno nel pick-up. Dennis Rodman avrà già lasciato il basket, dopo aver disputato 911 partite di regular season e i Bad Boys avranno altri nomi, un quintetto scolpito nella pietra come quello del 1989. 

Thomas, Dumars, Aguirre, Mahorn, Laimbeer allora. 
Billups, Hamilton, Prince, Wallace, Wallace oggi. 

Le 63 vittorie del 1989 non sono più il record di franchigia dei Pistons, superate dalle 64 del 2005-06, quando tra loro e il quarto titolo della storia di Motor City si mise in mezzo Miami, che aveva Shaquille O’Neal e soprattutto Dwyane Wade.

Nel momento in cui scriviamo, i Detroit Pistons sono 11-5 contro i Los Angeles Lakers in partite di finali NBA. 

Ogni squadra tira da tre in media 32 volte a partita (trent’anni fa erano meno di 7). 
Non c’è più lo Showtime, non ci sono più i Bad Boys, anzi, Detroit non vince una partita di post-season dal 26 maggio del 2008, gara-4 delle finali di conference contro i Boston Celtics (poi campioni NBA), quando ancora avevano quattro quinti dello starting five del titolo 2004, più Antonio McDyess al posto di Ben Wallace. 

Ma non ci sono più la Jugoslavia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la Cecoslovacchia, c'è solo una Germania. Il titolo di MVP l’ha vinto un greco, il Difensore dell’anno è un francese, il Giocatore più migliorato è camerunese, il Rookie dell’anno è stato uno della ex Jugoslavia. Neanche il titolo di campione NBA è rimasto negli USA. Quanto è cambiato, il mondo, dal 1989 ad oggi.

Commenti

Post popolari in questo blog

PATRIZIA, OTTO ANNI, SEQUESTRATA

Allen "Skip" Wise - The greatest who never made it

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?