Go West, young man: la vita tormentata di "Mr. Clutch", l'uomo-logo NBA
Go West, young man.
La sua vita incantata e tormentata - così ha titolato la sua struggente autobiografia - a 86 anni è arrivata "down the stretch". Alla fine, quando tutto si decide. E là, Jerry West, più di tutti è sempre stato "Mr Clutch".
Prima ancora di diventare "The Logo": sua, dal 1971, la silhouette-simbolo stesso della lega, che mai gliel'ha riconosciuta, pena contenzioso legale da milionate di dollaroni.
Ne aveva sempre visti pochini, la sua disfunzionale famiglia (quinto dei sei figli di Howard e Cecile) nel natio West Virginia, a Cheylan, una delle aree carbonifere più povere e depresse degli Stati Uniti.
Quel ragazzino perennemente irrisolto, abusato dal padre, il fucile pronto sotto il cuscino, il fratello maggiore David sergente caduto da eroe di guerra (medaglia di bronzo) in Corea 22enne quando lui ne aveva 12, aveva però un dono: capiva il basket e il talento come nessuno, e segnava da ogni dove.
Stella alla East Bank con titolo statale al liceo, al college trascina i Mountaineers della West Virginia University alla loro storica prima Final Four nel 1959, e da miglior giocatore (28 punti e 11 rimbalzi) perde di un punto (70-71) la finale contro California: il suo duplice, futuro destino.
Go West, young man.
Gli accadrà, dieci anni dopo, unico nella storia delle Finals NBA.
Al Forum di Inglewood, era tutto pronto - palloncini gialloviola appesi al soffitto compresi - per esorcizzare la nemesi Celtics, ritenuti al capolinea.
West aveva aperto la serie con doppia-doppia da 53 punti e 10 assist in gara 1 e l'ha finita con gara 7 da tripla-doppia: 42 punti, 13 rimbalzi e 12 assist; e 37 punti di media.
A Don Nelson, il tiro che ballonzola e finisce dentro per il titolo: per Boston l'11esimo in 13 anni, a lui l'MVP della sconfitta più cocente nella storia delle Finali. Per lui 9, di cui sei perse contro i leprecauni irlandesi e due contro New York.
L'unica vinta, mezzo rotto contro i Knicks nel 1972, l'anno del 33-0, striscia-record dei Lakers col vecchio Wilt Chamberlain e, dopo appena nove gare, senza più Elgin Baylor.
Quando arrivò ai Lakers, da seconda scelta assoluta al draft e l'oro olimpico di Roma 1960, era una big guard tiratrice di 1,97, monodirezionale dal range illimitato e un punto debole: la sinistra; che gli avversari punivano con un passo in più sulla sua destra.
Ma dalle interminabili ore in solitaria da “gym rat”, ne uscì come un giocatore straordinario anche senza palla e da rilascio più rapido nell'èra pre-Curry.
La sua velocità rendeva routine l'eccezionalità dei fondamentali; specie l'arresto-tiro. Le braccia lunghe e l'intelligenza superiore ne facevano un difensore letale.
In quella NBA dei giochi a tre laterali, un Jordan senza elevazione.
"Non si può fermare West - diceva di lui Red Auerbach, il gran mogol di quei Celtics perenne nemesi - "Puoi provarci in tutti i modi: da vicino, da lontano, con o senza palla, e ti farà comunque 25-30 punti".
Sempre All-Star in 14 anni e 932 partite in carriera (27 punti, 5,8 rimbalzi e 6,7 assist), 10 volte primo quintetto NBA e quattro in quello difensivo, una volta capocannoniere e una miglior assistman. Hall-of-famer dall'80 e poi pure come olimpionico di Roma 1960.
Ha attraversato otto decenni della NBA ed è da scout, dirigente, consulente e consigliere, che ne ha scritto la contemporaneità. Ha "creato" i Lakers dello Showtime (5 anelli negli anni '80), il fenomeno Kobe e con lui il Threepeat con Shaquille O'Neal; portato alle loro prime finali di conference i Los Angeles Clippers, gettato le basi per Memphis (secondo Executive of the Year, col resuscitato Hubie Brown allenatore dell'anno 2004) e Golden State (tre titoli: 2015, 2017-18).
Go West, old man. E che la terra - finalmente – possa esserti lieve.
PER SKY SPORT 24 ©, CHRISTIAN GIORDANO ©
mercoledì 12 giugno 2024
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