Come nasce la bicicletta


di Claudio Gregori
Enciclopedia Treccani

Le origini della bicicletta sono avvolte nella leggenda che narra di come il conte de Sivrac nel 1790, in piena Rivoluzione francese, avrebbe inventato il 'celerifero'. In realtà quel conte non è mai esistito e il celerifero era una diligenza a cavalli importata in Francia dall'Inghilterra nel 1817 da un certo Henri de Sievrac.

La fantasiosa ricostruzione è opera di Louis Baudry de Saunier, autore nel 1890 di una Histoire générale de la vélocipédie. Il principio delle due ruote, invece, viene inventato dal barone Karl Drais von Sauerbronn (1785-1851), rampollo di un'antica e nobile famiglia del granducato del Baden. Uomo fantasioso, aveva già progettato una macchina per scrivere a tasti, chiamata Schnellschreibklavier ("pianoforte per scrivere rapido"), ma anche un tritacarne, un estintore, un riflettore a luce solare e perfino un sottomarino con periscopio.

Drais inseguiva l'idea di costruire qualcosa che permettesse di viaggiare veloce senza l'aiuto dei cavalli. Perciò realizzò due macchine. Nel dicembre 1813 a Karlsruhe mostrò la prima, a quattro ruote, che chiamò Fahrmaschine ("macchina per viaggiare"), allo zar Alessandro I in viaggio per il Congresso di Vienna. Nonostante l'entusiasmo dello zar, che gli regalò un anello con diamanti, quell'invenzione non ebbe successo. La seconda, chiamata Laufmaschine ("macchina per correre"), aveva due ruote di legno con otto raggi, avanzava con la spinta dei piedi sul terreno ed era dotata di un manubrio mobile che consentiva di dirigerla: era l'antenata della bicicletta.

Con essa il 12 luglio 1817 Drais va da Mannheim a Schwetzingen e ritorna: 28 chilometri. Poche settimane dopo si spinge da Karlsruhe a Kehl, 78 chilometri. Il 12 gennaio 1818 il granduca del Baden Carl gli concede il brevetto d'invenzione; e così fa anche la Francia il 17 febbraio. Poi è la volta della Prussia e della Baviera e nel 1819 del Belgio e degli Stati Uniti. Ma la domanda viene bocciata a Francoforte, capitale della Confederazione degli Stati tedeschi, e a Vienna. Nel 1818 la Laufmaschine nel suo brevetto francese viene già chiamata vélocipède o, dal nome del barone, draisienne. Il 5 aprile ne viene data dimostrazione nel Jardin du Luxembourg a Parigi. Le Journal de Paris annuncia le prime corse di velocipedi o draisiennes su un percorso di trecento tese, pari a 585 m. Lo spettacolo è a pagamento: i biglietti costano un franco e mezzo per gli uomini, un franco per le donne, mezzo per i bambini. Vengono incassati 3600 franchi, e sono presenti 3000 spettatori. L'esperimento incuriosisce senza però entusiasmare. La stampa è critica, e tuttavia l'uso della draisienne si diffonde. A Milano il 3 settembre 1818 l'Imperial-regia direzione generale di polizia emette un bando che vieta l'uso dei velocipedi durante la notte: sul selciato il rumore è infernale. Quella grida, a firma G.N. Frigerio, precisa: "È proibito di girare nottetempo sui velocipedi per le contrade e per le piazze interne delle città. È però tollerato il corso dei medesimi sui bastioni e sulle piazze lontane dall'abitato".

Il 22 dicembre il velocipede ottiene il brevetto anche in Inghilterra, dove viene chiamato hobby horse ("cavallo da divertimento"). Qui hanno luogo interessanti sviluppi nella cura estetica del mezzo. Denis Johnson introduce l'acciaio ‒ solo ruote e asse restano di legno ‒ e i primi veicoli per donne, producendone circa quattrocento.

Gli scozzesi Kirkpatrick Macmillan e Gavin Dalzell pensano a come far sollevare i piedi dal suolo. Nella macchina del primo sono le mani, attraverso una manovella, a garantire la propulsione: The Glasgow Courier, sotto il titolo "The velocipede", racconta il viaggio di Macmillan, 110 km da Dumfries a Glasgow, del 6-7 giugno 1842, durante il quale riceve una multa di 5 scellini, la prima della storia del ciclismo, per aver turbato la circolazione e investito un bambino. Dalzell è l'inventore del velocipede a leve. Manca però ancora una parte essenziale: il pedale.

Nel marzo 1861 un cappellaio parigino, Auguste-Arsène Brunel, porta a riparare la sua draisienne nell'officina del bretone Pierre Michaux. Uno dei suoi sei figli, Ernest, 19 anni, la prova. Al rientro, la sera, discute con il padre: è troppo faticoso, ci vorrebbero deux petits repose-pieds ("due piccoli riposa-piedi"). Pierre propone prima due poggiapiedi fissati alla forcella, poi pensa di inserire un asse nel centro della ruota anteriore, che si possa far girare come nella mola, tramite due leve contrapposte in esso calettate. Ernest, bravo meccanico, realizza l'idea del padre: adatta al mozzo due aste metalliche di una ventina di centimetri e inserisce in un foro alle estremità di ciascuna un pezzo di ferro. Nasce così il pedale. Ernest è il primo a pedalare. Prova la draisienne modificata sugli Champs Élysées. In discesa le cose vanno bene; in salita è costretto a mettere più volte il piede a terra, ma, alla fine, l'esperimento riesce. Pierre, inventore del pedale, è un fabbro, nato a Bar-le-Duc in Lorena, nel dipartimento della Mosa, nel 1813. Alacre e volonteroso, ha però un punto debole: non ha una spiccata attitudine per gli affari e così per due volte fallisce. Si trasferisce a Commercy, poi all'inizio del 1855 a Parigi dove trova lavoro come fabbro, riparando carrozze. È allora che scopre il velocipede.

Dopo aver inventato il pedale, Pierre inizia a costruire velocipedi in legno di faggio massiccio con due ruote da 90 cm a otto raggi, un grosso mozzo e cerchioni larghi e spessi. Le prime michaudines pesano 40 kg. I Michaux sono i primi ad avviarne una produzione in serie. Vendono 2 michaudines nel 1861, 142 l'anno seguente, 400 nel 1865 al prezzo di 500 franchi d'oro. Presto molte altre officine iniziano a produrre velocipedi. Michaux non fa fortuna: il 29 marzo 1870 il giudice dichiara il fallimento della sua società. Per i Michaux è la rovina. Pierre, ridotto a vivere di carità, si spegne in miseria il 9 gennaio 1883.

Purtroppo il primo brevetto non è suo, ma viene concesso negli Stati Uniti, il 20 novembre 1866, a Pierre Lallement e al suo socio James Carroll. Lallement è un lorenese che aveva lavorato a Parigi prima di emigrare ad Ansonia nel Connecticut.

Nel frattempo l'evoluzione del mezzo meccanico è continua. In Europa, per alleggerirne il peso, Eugène Meyer utilizza tubi del gas per il telaio ‒ prima del 1870 si usava il ferro pieno ‒ e raggi sottili di fil di ferro. Clément Ader introduce la gomma piena sulle ruote e il puntapiede. Quando, nel 1870, scoppia la guerra franco-prussiana, la leadership della ricerca passa alla Gran Bretagna, dove il velocipede assume il nome di boneshaker ("scuotiossa").

I creativi dell'epoca si affaticano per il velocipede. A Coventry, nel 1871, James Starley costruisce il grand-bi, che chiama Ariel: ha una grande ruota davanti, 1,22 m di diametro, e una piccola dietro di soli 35 cm. I cerchioni, ricavati da una serie di guaine per spade abbandonate dai francesi in rotta, sono muniti di gomme piene. Per lanciare l'Ariel, Starley, insieme a William Hillman, in un giorno va da Londra a Coventry (155 km). Il successo è incredibile. Il grand-bi è elegante e costoso (il suo prezzo equivale a quello di un'utilitaria di oggi) e diventa subito di moda tra i nobili e gli snob. La sua ruota anteriore, solidale ai pedali, porta uno sviluppo di 3,83 m per pedalata.

Gli amanti della velocità devono solo aumentare il diametro della ruota che così, a poco a poco, assume proporzioni enormi. Victor Renard, un artigiano parigino, costruisce un velocipede da 65 kg con una ruota anteriore di 3 metri di diametro, dal passo di 9,42 mt per pedalata: al telaio deve però fissare sei gradini per arrivare alla sella. Il guidatore diventa un equilibrista in pericolo. Ma la fantasia è inarrestabile. Così, per ridurre i rischi di ribaltamento, ecco il triciclo con una piccola ruota anteriore e due grandi posteriori.

Per quanto riguarda la prima bicicletta, al Conservatoire des arts et métiers di Parigi è esposto un modello di Meyer e Guilmet, con trazione posteriore e catena. Secondo alcuni sarebbe del 1868. La prima domanda di brevetto, però, appartiene a Henry John Lawson, di Coventry, che la presenta il 30 marzo 1880.

In Inghilterra, in verità, Otto e Wallis avevano già brevettato e prodotto il velocipede Kangaroo, che presenta una grande novità. A ciascuno dei due lati della ruota anteriore è applicata una trasmissione a catena per una coppia di ruote dentate: queste hanno un numero di denti l'una il doppio dell'altra; nella più grande sono inseriti i pedali, la più piccola è fissata all'asse della ruota cui trasmette il movimento. Così la distanza percorsa con una pedalata è due volte la circonferenza della ruota anteriore. Questo consente di ridurre la dimensione della ruota anteriore. Quando, nel 1884, il corridore professionista George Smith vince una corsa di 100 miglia da Twyford a Normann Cross alla media di 22,400 km/h, il successo del Kangaroo è assicurato.

L'evoluzione è incessante. John Kemp Starley, nipote dell'inventore del grand-bi, il 28 gennaio 1885 allo Stanley Show presenta The Rover ("Il Vagabondo"), la prima bicicletta di successo, con due ruote uguali e la trasmissione a catena. Una grande novità, che la prima corsa vittoriosa di Smith basta a imporre.

Non fu Lawson a inventare il nome. Il termine bicyclette (da cui l'italiano bicicletta) compare in Francia intorno al 1880 come diminutivo di bicycle; in Inghilterra si adotta successivamente il nome bicycle adattato nella pronuncia.

Lo pneumatico venne di lontano. Già Robert William Thomson, del Middlesex, il 10 dicembre 1845 e poi Clément Ader, di Muret nell'Alta Garonna, il 24 novembre 1868 avevano depositato brevetti relativi a pneumatici, utili l'uno per 'vetture e altri corpi rotolanti', l'altro espressamente per i velocipedi. Ma la storia attribuisce l'invenzione dei pneumatici a John Boyd Dunlop, veterinario scozzese residente a Belfast, che deposita il brevetto il 23 luglio 1888.

Nel 1891 i fratelli Édouard e André Michelin di Clermont-Ferrand inventano lo pneumatico smontabile, con il copertone separato dalla camera d'aria. Convincono Charles Terront a montare i pneumatici sulla sua Humber nella Parigi-Brest-Parigi di 1185 km. La vittoria di Terront con oltre 7 ore di vantaggio, alla media di 16 km/h, lancia i pneumatici Michelin. In quell'occasione Terront ha pedalato per tre notti e tre giorni con una bici del peso di 21,5 kg, munita di un solo freno, e ha anche forato cinque volte. I due fratelli Michelin, l'anno dopo, istituiscono la corsa da Parigi a Clermont-Ferrand con forature obbligatorie. Sulla strada vengono disposte file serrate di chiodi. Vince Henri Farman, che in seguito sarebbe divenuto un pioniere dell'aviazione.

Si affermano intanto le prove di lunga durata. Pagis e De Laumaillé, nel 1875, vanno da Parigi a Vienna (1254 km) in 12 giorni battendo il record del servizio di posta a cavallo (15 giorni). L'impresa desta sensazione.

Il vincitore della prima Sei giorni a Londra, nel 1878, copre 1800 km. La Parigi-Brest-Parigi, il 6 settembre 1891, è lunga 1185 km, e si snoda su strade di campagna. La vince Terront, che due anni dopo pedala su una bicicletta Rudge da San Pietroburgo a Parigi, 3000 km in 14 giorni. Nel 1894 va da Roma a Parigi in 6 giorni. Velocipede e biciclo furoreggiano. In alcuni maneggi i bicicli sostituiscono i cavalli. Lo scrittore Charles Dickens prende lezioni di velocipede, pedalano Alexandre Dumas e il giovane Claude Debussy. La bella Otero e Sarah Bernhardt montano sui bicicli.

In Italia il barone Alessandro de Sariette il 15 gennaio 1870 fonda la prima società italiana, il Veloce Club Fiorentino. I primi campioni sono i conti Giuseppe e Fausto Valsecchi-Bagatti di Milano: vincono la Milano-Novara (46 km, nel 1871), la Milano-Piacenza (65 km, nel 1873) e la Milano-Cremona (60 km, nel 1873). Il conte udinese Carlo Braida batte i primati e nel 1890 vince a Treviso il titolo italiano seminando gli avversari.

In Francia l'imperatore Napoleone III diventa cliente dei Michaux: suo figlio, che si allena con accanimento lungo la spiaggia di Trouville, viene soprannominato Vélocipède IV. Re Leopoldo II va a passeggio in triciclo a Bruxelles. Lo zar Nicola pedala in bicicletta già nel 1894. In seguito anche l'imperatore Pu-Yi pedala a Pechino nella Città Probita. La bici acquista subito il favore regale. Edoardo Bianchi viene convocato alla Villa Reale di Monza per avviare la regina Margherita alla nuova arte nei viali del parco. Bianchi, nato il 17 luglio 1865, cresciuto nell'orfanotrofio dei Martinitt, aveva aperto la prima bottega a Milano nel 1885. Era stato il primo in Italia ad applicare la gomma a camera d'aria alla bicicletta e nel 1890 aveva aperto un nuovo stabilimento per la produzione a catena.

È in quel periodo che viene chiamato a palazzo. Bianchi si presenta con un modello che ha un copricatena in cristallo. Il problema più grande è che non si può toccare l'augusto corpo della regina. Bianchi con una cintura collegata a tiranti riesce a mantenere in equilibrio la sovrana senza che venga toccata. Dopo la regina, anche le altre dame salgono in bicicletta: le duchesse di Genova e d'Aosta, la regina di Napoli, la principessa del Portogallo.

Il velocipede a pedali compare in Italia nel 1867. Il primo di cui si ha notizia è un Michaux, acquistato da un birraio di Alessandria, Carlo Michiel, che poi diventerà vicepresidente dell'UVI (Unione velocipedistica italiana). Nel 1868 circolano già i primi velocipedi di fabbricazione italiana. Tra i costruttori si segnalano Santacroce a Firenze, il costruttore di carrozze Baroni e l'armaiolo Giovanni Greco e, poi, Bartolomeo Balbiani e Francesco Belloni a Milano, Garolla di Limena a Padova, Raimondo Vellani e Nisando Martinelli a Modena, il meccanico Ambrogio Bestetti a Monza, Challiol e Mestrellet a Torino, Serafino Vecchio a Novara, i fratelli Valetti a Verona, Gallizio a Firenze. Nel 1869 si svolgono già le prime gare. Nel 1884 il torinese Costantino Vianzone presenta il 'bicicletto', con telaio e ruote in legno. Presto prevarrà il sostantivo femminile bicicletta. Nel 1885 comincia la produzione delle biciclette Bianchi. Seguono Olympia (1893), Velo (1894), Maino e Dei (1896), Frera (1897), Lygie (1905).

In pochi anni la bici conquista l'Italia e il mondo. In realtà è figlia di molti padri. Ci sono impronte antiche di antenati della bicicletta. Pare che in Cina, quattromila anni fa, circolasse un veicolo con ruote di bambù chiamato il Dragone felice. Nel tempio di Luxor è stato scoperto un graffito con un uomo seduto su una sbarra sospesa tra due ruote. Anche nella biblioteca dell'Università di Heidelberg c'è un documento del 14° secolo, il Sachsenspiegel, con una miniatura che mostra un uomo a cavallo di una sbarra tra due ruote. E, nel 1966, si scopre che già Leonardo da Vinci aveva ideato la bicicletta. Lo prova un disegno trovato durante i lavori di restauro del Codice Atlantico (scoperto nel 1965, ndr): il professor Augusto Marinoni, incaricato di trascrivere il Codice, attribuì il disegno, che mostra una bici di legno munita di due ruote uguali, manubrio, sella, pedali e catena, a uno scolaro di Leonardo che avrebbe, piuttosto rozzamente, copiato un disegno perduto del maestro. La bici, dunque, viene da lontano.

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