O’Brien ama Joyce pagina dopo pagina


Che cosa unisce un’autrice e uno dei padri più illustri della letteratura modernista, a lungo accusato di misoginia? L’Irlanda? Non basta. Un libro confessa una passione forsennata: per la scrittura e per la succosa quotidianità

22 Jun 2025
Corriere della sera - La Lettura
Di MAURO COVACICH
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È sempre interessante quando uno scrittore decide di occuparsi di un altro scrittore, soprattutto se lo fa non da un punto di vista critico, con gli strumenti dell’accademia, bensì affrontando il collega dal basso, come uno che, in fondo, maneggia gli stessi attrezzi del mestiere e quindi può provare a misurarsi in una specie di corpo a corpo, non importa quanto sia gigantesco l’autore con cui intende cimentarsi. Ancora più interessante se lo scrittore è in realtà una scrittrice, per di più femminista, e il suo oggetto di indagine è uno dei padri della letteratura modernista, a lungo accusato più o meno apertamente di misoginia. Tutto ciò per dar conto della mia curiosità quando ho cominciato a leggere il libro di Edna O’Brien recentemente pubblicato da Einaudi con il titolo James Joyce. Una vita (traduzione di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone).

Si tratta di una resa dei conti piena d’amore. La passione di O’Brien, irlandese come Joyce, affiora a ogni giro di frase. Passione per la scrittura, ma forse più ancora, per la scelleratezza del gesto joyciano, per quell’arrischiamento totale a cui lo scrittore dublinese si espone dall’inizio del suo percorso fino al gorgo divorante del Finnegans Wake, trasformando ogni giorno che Dio manda in terra in una pura e semplice missione per la letteratura.

La vita di Joyce si presta a essere raccontata e O’Brien lo fa con brio, infilandosi nelle pieghe di una quotidianità piena di aneddoti succosi, accompagnando il ragazzo James nelle sue serate triestine tra bordelli e osterie, seguendolo più adulto nell’ebbrezza della scrittura dell’Ulisse in una Zurigo appena abbandonata dal dadaismo di Tristan Tzara e infine osservandolo nel suo ventennio parigino, circondato dall’ammirazione dei letterati eppure afflitto dalle difficoltà economiche, per non parlare dei continui problemi agli occhi che lo costringeranno a undici interventi chirurgici. O’Brien tratteggia a tinte forti il genio incompreso, il giovane consapevole delle proprie potenzialità, sommerso da rifiuti editoriali, lusingato dalle studentesse a cui dà lezione, circondato da persone che lo amano senza capirlo, come il fratello Stanislaus e, su tutte, Nora.

Da scrittrice irlandese, O’Brien indaga anche il particolare rapporto di Joyce con la madrepatria e, a maggior ragione, con Dublino, città di cui non smetterà mai di scrivere, pur standone sempre alla larga e facendovi ritorno in rare occasioni, quasi sempre sfortunate, come quando decide di aprire un cinematografo, forte dell’impressione ricevuta dall’abbondanza di sale nella Trieste del primo Novecento, coinvolgendo nell’impresa un gruppo di commercianti triestini e fallendo subito dopo i promettenti risultati delle proiezioni inaugurali di quello che fu il Cinematograph Volta, forse il cinema dalla vita più breve. Ma ai dublinesi Joyce dedicherà il suo libro di racconti. Di Dublino farà la quinta teatrale per gli anni difficili dell’artista da giovane e poi per la giornata infinita di Bloom e, infine, per la veglia funebre con risveglio incorporato di un certo muratore Finnegan.

I giorni del Volta sono anche quelli del famoso carteggio a sfondo sessuale con Nora, su cui molto si è scritto e che O’Brien analizza soprattutto per mettere in luce la stretta relazione tra l’immaginario erotico — o forse sarebbe più giusto dire pornografico — di Joyce e la sua ricerca linguistica come scrittore. Particolarmente convincenti risultano così le pagine dedicate a Nausicaa, l’episodio dell’Ulisse in cui Leopold Bloom si masturba osservando la giovane Gerty MacDowell e facendo in modo che lei osservi lui, in un misto di esibizionismo e voyeurismo attorno al quale gireranno le fantasie sessuali non solo del personaggio ma, lettere alla mano, anche dell’autore.

C’è una notevole indulgenza nello sguardo di O’Brien verso il libertinaggio di Joyce. La mente di Bloom è affollata di idee sconce: l’intero episodio «Circe» è ambientato in un bordello, poi c’è la potenziale amante Martha, le due sirene dell’Hormond Pub, la già citata avventura a distanza con Gerty e le varie passanti che il protagonista incrocia nella sua pensosa, interminabile giornata. Il corpo femminile è il pensiero dominante, impossibile non ridurlo a oggetto sessuale. Eppure l’autore dell’Ulisse non è un maschilista, conclusione che risulta evidente nelle pagine di O’Brien, ma prima ancora nelle frequentazioni personali dello stesso Joyce, il cui destino è stato benedetto da incontri con grandi donne, che hanno amato alla follia il suo lavoro. Sylvia Beach, ad esempio, la coraggiosa ragazza americana che aprirà la libreria Shakespeare and Company a Parigi e che, il 2 febbraio del 1922, quarantesimo compleanno dell’autore, pubblicherà a proprie spese la prima edizione integrale dell’Ulisse, fungendo di fatto da agente a Joyce nei primi anni del suo soggiorno parigino. Ma non meno della stima di Sylvia Beach varrà quella di Hariett Shaw Weaver, suffragetta inglese, femminista della prima ora che, pur non navigando nell’oro, diventerà la mecenate di Joyce, fornendogli una piccola rendita perpetua, senza venir meno al suo sostegno finanziario neanche dopo le perplessità avanzate sul cantiere sempre aperto, e sempre più incomprensibile, del Finnegans Wake.

In ogni caso, il presunto maschilismo di Joyce va decostruito attraverso i testi. Basterebbe già, a sua discolpa, il comportamento ragionevole, se non addirittura comprensivo, di Leopold Bloom nei confronti di Molly, una Penelope gioiosamente adultera. Per tutto l’Ulisse, Bloom soffrirà ma al tempo spesso godrà del tradimento della moglie e sarà l’uomo più lontano da un’idea anche solo embrionale di femminicidio. E come dimenticare lo stato di inconscia androginia in cui precipita il nostro eroe nell’episodio «Circe»? Un uomo che sogna di essere una donna e partorisce otto gemelli... Ma soprattutto è impossibile non considerare la conclusione del romanzo: un monologo di cinquanta pagine dove a rivendicare la propria centralità è una donna. Molly che parla in prima persona dei suoi rapporti con gli uomini. Molly che radica il mondo al corpo femminile. Molly che sembra la fine e invece è l’inizio, ovvero il ricominciamento, la rinascita di tutti attraverso di lei. Il sesso insomma, per noi, uomini e donne, è prima di tutto un’esperienza linguistica. Né più né meno della vita, per come l’ha scritta e vissuta James Joyce.

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