HOOPS MEMORIES - Sangue e arene


Quando il basket fu inventato, nel 1891, il mondo dello sport USA aveva alle spalle una storia già solida di giochi i cui protagonisti erano retribuiti. La Major-league di baseball, con la National League, era già al suo sedicesimo anno di attività quando la pallacanestro apparve sulle scene, e al nuovo sport di James Naismith bastarono cinque anni per dotarsi di una robusta struttura professionistica.

Introdotto alla YMCA di Springfield, nel Massachusetts, il basket si estese rapidamente alle altre sedi YMCA degli Stati Uniti e del Canada. Ben presto i responsabili locali cominciarono a preoccuparsi per via di quel nuovo, durissimo sport che stava prendendo sempre più piede, spesso a scapito del regolare programma di esercizi di educazione fisica.

Non ci volle molto perché nelle YMCA di tutto il Paese i primi “cestisti” venissero cacciati dalle palestre e costretti a trovarsi altri luoghi nei quali coltivare la loro nuova, incontenibile passione. Giocavano dappertutto: nelle stalle, nelle rimesse, nei granai, nei magazzini, sulle piste di pattinaggio e perfino sulle incerate e sdrucciolevolissime superfici delle sale da ballo dove si danzava non solo prima e dopo le partite ma talvolta perfino durante l’intervallo.

A quei primi incontri assistevano dei gruppetti di appassionati che davano il proprio contributo pagando l’affitto degli impianti. Alla fine tutto questo interesse fece sì che anche i giocatori venissero pagati per l’intrattenimento fornito. Secondo The NBA’s Official Encyclopedia of Pro Basketball, il basket professionistico cominciò di fatto una sera del 1896 quando i giocatori di Trenton, nel New Jersey, affittarono un locale del posto di nome Masonic Hall. Per 15 dollari a testa, col capitano Fred Cooper a guadagnarsi un dollaro extra, si ebbero così i primi “pro” di questo sport.

Quei cestisti professionisti ante litteram erano bardati in modo a dir poco esagerato. Assieme ad assai poco pratici “pantaloncini” di velluto e a lunghe calzamaglie sfoggiavano persino delle calze ornate di gale, disegnate dallo stesso Cooper. Nessuna meraviglia, quindi, se l’ex calciatore – illustre predecessore del Roberto Mancini di sampdoriana memoria – fu pagato un dollaro in più: aveva dovuto sdoppiarsi nel duplice ruolo di capitano e designer della squadra.

Tra i primi seguaci del gioco, Cooper e il compagno di squadra Al Bratton passarono all’onore delle cronache anche per aver sviluppato un rudimentale ma (per il pubblico) piacevole schema nel quale si passavano la palla avanti e indietro per tutto il campo, da un’estremità all’altra. E un altro giocatore di Trenton, Dutch Wohlfart, stupì tutti palleggiando senza guardare il pallone. Per questa sua particolare abilità Wohlfart si guadagnò l’appellativo di blind dribbler, il palleggiatore cieco, e fu forse il primo autentico veicolo d’attrazione del basket.

Ciò che ai giorni nostri diamo per scontato, come il semplice fondamentale di palleggiare senza guardare la palla era, per i tifosi del 1890 e dintorni, eccitante quanto lo è per noi oggi una schiacciata alla “Air” Jordan. Solo che quei tifosi erano ben più turbolenti degli spettatori attuali (è ovvio che ci riferiamo a quelli americani: quelli europei, in particolare greci e italiani, non li consideriamo neanche se non altro per evitarci sprangate sputi, lanci di oggetti, auto sfasciata e affini). 

Mentre il basket pro continuava ad espandersi, i tifosi di certe zone acquistavano triste notorietà per le ingiurie che rivolgevano in quantità industriali a giocatori avversari e arbitri. La Prospect Hall di Brooklyn, per esempio, si guadagnò il poco edificante nomignolo di “catino di sangue”: alcuni spettatori lanciavano bottiglie contro i giocatori ospiti, quando proprio non riuscivano, solo per via della posizione meno privilegiata, a spegnere loro addosso dei mozziconi di sigaretta. Chi spesso favoleggia un po’ troppo sulla civiltà sportiva del pubblico statunitense – peculiarità in larga parte innegabile –, non farebbe male a rispolverarsi un po’ di storia: anche là, non sono sempre state rose e fiori.

L’invenzione dei tabelloni fu una diretta conseguenza dell’“esuberanza” di quei primi spettatori. Col tempo, i tifosi delle gallerie diventarono autentici maestri nella difficile e non richiesta arte di deviare i tiri diretti al canestro della loro squadra. Alcuni si portavano alle partite addirittura gli ombrelli appositamente per quello scopo. Introdotti i tabelloni ed eliminata così quella forma di troppo sentita partecipazione, al pubblico non rimase che continuare a far sentire la propria presenza in maniera alquanto fisica. Quei primi anni di basket furono davvero duri. In campo e a bordocampo.

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