HOOPS MEMORIES - Il basket, una gabbia di matti


Nei suoi primi anni la pallacanestro era decisamente uno sport di contatto. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando il gioco fu inventato (1891) e cominciò subito a guadagnarsi popolarità, presentava molte, inquietanti analogie con il football americano. Della sua attrezzatura base facevano infatti parte paragomiti, ginocchiere e anche pantaloni con provvidenziali imbottiture. C’era un solo arbitro e la gran parte dei falli finiva non fischiata. I giocatori si tiravano gomitate a dir poco criminali, e spalle, fianchi e nasi rotti non erano affatto merce rara.

Agli esordi, la parte più dura del gioco era la lotta per i palloni che uscivano dal campo: per conquistare la palla i giocatori dovevano darsi battaglia in mezzo agli spettatori. Fino al 1902, chi si accingeva palla in mano ad effettuare la rimessa, doveva talvolta farla dopo una folle discesa al volo dei gradini posti agli angoli della palestra. Per mantenere in gioco il pallone venivano spesso usate delle grosse stie per polli fatte di filo metallico o di corda. Era come vedere i giocatori muoversi dentro una grossa gabbia, da qui l’uso del termine cagers per i cestisti e dell’iniziale nomignolo the Cage Game , letteralmente “il gioco della gabbia”, per indicare lo sport che quei pazzi praticavano. E ai giocatori capitava non di rado di tagliarsi urtando contro la gabbia di filo metallico, un rischio rimasto parte integrante del gioco fino alla seconda metà degli anni ’20.

I campi piccoli dell’epoca rendevano i contatti molto meno evitabili di quanto lo siano oggi, il che portava a delle varianti tattiche piuttosto interessanti. Siccome la lunghezza del rettangolo di gioco misurava in genere appena 40 piedi per 60 (circa 12 metri per 18), approssimativamente metà delle dimensioni attuali, i muri venivano considerati parte del terreno di gioco. Si giocava di sponda facendo carambolare il passaggio contro pareti, soffitti, colonne, impianti di riscaldamento. Per un giocatore era prassi normale liberarsi dell’avversario facendolo andare a sbattere contro i termoventilatori o i radiatori posti alle estremità del campo.

Certe volte c’erano almeno una mezza dozzina di colonne disseminate sul campo e che potevano essere usate come blocchi contro i quali far collidere un marcatore. Che ci crediate o no, è da questa “tattica” che proviene il termine post play usato ancora oggi.

Molte palestre erano così scarsamente illuminate che i giocatori riuscivano a malapena a vedere il canestro. E in molti casi quegli stessi pavimenti venivano usati come piste da ballo ed erano così incerati che i giocatori faticavano a stare in piedi.

Ma c’era un’altra caratteristica di quei primi campi a rendere possibile una giocata altamente spettacolare. Grazie al fatto che i muri erano stati dichiarati parte del terreno di gioco, fino al 1916, e grazie al fatto che i canestri venivano in genere montati attaccati alla parete, l’uomo in possesso palla poteva letteralmente arrampicarcisi per arrivare a depositarla nel canestro. Un’arrampicata degna dell’Uomo Ragno che si può considerare la versione originale della moderna schiacciata in versione passeggiata aerea introdotta negli anni Settanta dal leggendario David “Skywalker” Thompson.


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