HOOPS PORTRAITS - David Thompson, l’idolo di Jordan


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«Great players can just play their normal games and be very good. 
Those are the ones who have the ability to make basketball an art. 
It comes naturally for them. But not for me – I have to work at it.»
   – David Thompson

di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per © Rainbow Sports Books

A quattro anni lo mandarono all’asilo. 
Eccerto: a quattro anni…
Non ci siam spiegati: i fratelli non ptevano occuparsi di lui perché eran tutti giù nei campi. Di cotone. Nell'estrema povertà dell’ovest del North Carolina, a ridosso della cittadina-tessificio di Shelby, i Thompson eran cresciuti così. Lavorando. 

A saltare – non solo l’infanzia – David, ultimo di undici figli di due addetti alle pulizie, era però orwellianamente due volte “più uguale” degli altri: per l’eccezionale timidezza figlia dei troppi più grandi sempre intorno, e l’ancor più leggendario vertical leap – 42 inch da fermo. Non male peraltro neppure quello horizontal, seppur lanciato: 49.11 inch nel triplo, zompato a mo’ di divertissement e per un quinquennio record d’ateneo a NC State.

Già, NC State. I Wolfpack lo avevan reclutatato con una sequela di intrafottere degni del piccolo Donald Segretti, quello universitario però, mica la sua versione imborghesita del Watergate. Scontati però poi con una probation più nefasta, per il programma di NSU, della “lettera canadese” per le chance presidenziali del candidato democratico Edmund Muskie contro il back-to-back di Richard Nixon. Chiusa sul 27-0 la regular season 1972-73, al reprobo sophomore fu infatti impedito di giocare il Torneo NCAA. E addio Branco di lupi.

Che anni, però quei suoi tre nella varsity. La stagione seguente, NCS spezzò il settennato di UCLA azzannando i Bruins in un’epica semifinale nazionale al doppio overtime. Per due volte i lupi la zampata decisiva l’avevan sprecata graffiando il ferro, uno al termine dei regolamentari, l’altro a fine primo supplementare. Il capobranco non l’avrebbe permesso una terza volta. David avrebbe abbattuto Golia.

A poco più di un minuto dalla sesta sirena, con i Wolfpack in rimonta dal -7 al -1, Thompson saltò come aveva fatto solo con l’infanzia, e al vetro – con il 76-75 del sorpasso – appoggiò il momentum-scia per il definitivo 80-77. La finale, contro Marquette due giorni dopo, ebbe un’aura come d’ineluttabilità. 

E a quel punto il bernoccolo sulla fronte di Thompson, retaggio di un volo – alla lettera – sul 6’8” del compagno Phil Spence nei regional, sembrava davvero il Terzo occhio del soprannaturale. David chiuse l’anno a 57-1 e il trofeo NCAA alzato da Player of the Year, rinunciò a offerte milionarie di ABA e NBA e tornò al campus per la sua stagione da senior e il bis come Player of the Year.

Più complicato, per lui, atterrare sul pianeta pro’. Al college quei 6’4” per 195 pounds fatti per volare erano l’idolo giovanile di Michael Jordan, che ai tempi, più che il biancoceleste di UNC, sognava il biancorosso del #44 di NC State. Ma in fondo ai cinque anni da uomo-franchigia a Denver scoprì, oltre agli infortuni, una neve più infida e scivolosa della coltre che copriva le Rocky Mountains. 

Ultima fermata (ormai da ex), il biennio ai SuperSonics. Nel 1984 lasciò Seattle ma non la NBA per l’amata Carolina e un incarico nelle community relations degli Charlotte Hornets. In un futuro neanche troppo lontano la franchigia-giocattolino del fu #23 di UNC. Home is where heart is.

CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books © 


Christian Giordano
HOOPS PORTRAITS - Ritratti di basket americano
Rainbow Sports Books, kindle, 4,90 euro

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