E Reagan disse: "Ho dimenticato di scansarmi". E i fogli in tasca salvarono Roosevelt


Teddy continuò a parlare per 84 minuti. Nell’81 Reagan, ferito, quando vide arrivare la moglie al pronto soccorso disse: "Tesoro, ho dimenticato di scansarmi"

Il parallelismo 
Teddy dopo 4 anni di pausa era candidato per un terzo mandato: non fu rieletto

Da Lincoln in poi, attacchi (riusciti o meno) a candidati e presidenti sono parte della storia americana. A teatro, per strada o su un palco: in un secolo e mezzo cinque i leader assassinati

15 Jul 2024 - Corriere della Sera
di Paolo Valentino
© RIPRODUZIONE RISERVATA

«Honey, I forgot to duck», tesoro ho dimenticato di scansarmi, disse Ronald Reagan alla moglie Nancy, vedendola arrivare al pronto soccorso del George Washington University Hospital dov’era stato trasportato dopo i colpi di pistola di John Hinckley, lo squilibrato che voleva attirare l’attenzione dell’attrice Jodie Foster. Era una citazione celebre: lo aveva detto il pugile Jack Dempsey alla consorte dopo essere stato battuto da Gene Tunney. Anche tra la vita e la morte, con una pallottola calibro 22 conficcata in una costola, «the Gipper» non perdeva mai il gusto delle battute. «Spero siate tutti repubblicani», disse Reagan pochi minuti dopo togliendosi la maschera ad ossigeno mentre entrava in sala operatoria, facendo esplodere tutti in una risata. «Signor Presidente, oggi siamo tutti repubblicani», rispose Joseph Giordano, il chirurgo democratico che guidava l’équipe medica.

Era il 30 marzo 1981. Reagan si salvò. Ma ci furono momenti di confusione alla Casa Bianca. Mentre il presidente era sotto i ferri, il vice George Bush era infatti in Texas e non fu possibile avviare il trasferimento temporaneo dei poteri. Quando Bush atterrò alle 18.30 alla base di Andrews il presidente era già stabilizzato e avrebbe ripreso conoscenza un’ora dopo. Nel frattempo, nonostante l’opposizione dei militari, l’FBI aveva sequestrato la «football», la valigetta dei codici nucleari, che avrebbe restituito solo due giorni dopo. In quelle ore il Pentagono, che aveva messo in allerta lo Strategic Air Command, aveva però fatto arrivare una copia della valigetta nella Situation Room: l’intelligence militare aveva segnalato due sottomarini atomici sovietici in pattuglia a una distanza considerata troppo vicina alle coste americane. Ma non fu mai chiarito chi avrebbe dato un eventuale ordine di lancio fino alle 19, quando il vicepresidente assunse il controllo.

La scia di sangue

Quello a Ronald Reagan è stato l’ultimo attentato riuscito a un presidente o ex presidente americano, prima delle fucilate sparate in Pennsylvania contro Trump. Colpi di arma da fuoco vennero esplosi nel 1994 contro la Casa Bianca con Bill Clinton all’interno, mentre vari tentativi o complotti sono stati sventati durante le presidenze dello stesso Clinton, George W. Bush, Barack Obama e ancora Trump. Ma quello all’ex presidente e candidato repubblicano riapre la lunga scia di sangue che attraversa ininterrotta la vita pubblica degli Stati Uniti sin dal 1865. «Regeneration through violence», «The Gunfighter Nation» e «The Fatal Environment», recitano rispettivamente i titoli dei tomi della fondamentale trilogia di Richard Slotkin, lo storico che più di tutti ha saputo raccontare il mito della frontiera, collocando nella giusta prospettiva il ruolo della violenza nella genesi, costruzione e affermazione della democrazia americana, dove ha trovato ampio spazio anche l’assassinio politico.

È una scia che si è lasciata dietro le vite di quattro capi della Casa Bianca. A cominciare da Abraham Lincoln, il presidente repubblicano che abolì la schiavitù, sconfisse il Sud razzista e ribelle durante la Guerra Civile, ma cadde sotto i colpi della Derringer 44 di John Wilkes Booth, attore e simpatizzante dei confederati, mentre assisteva a uno spettacolo teatrale al Ford’s Theatre di Washington nell’aprile 1865.

Sedici anni dopo, nel luglio 1881, il ventesimo presidente James Garfield veniva colpito alla spalla e alla schiena mentre arrivava a una delle stazioni ferroviarie della capitale federale, a meno di sei mesi dall’ingresso alla Casa Bianca. A sparare fu un avvocato mentalmente instabile, Charles Guiteau, processato, condannato e giustiziato l’anno successivo. Garfield morì 11 settimane dopo, a causa delle infezioni provocate dall’uso di strumenti non sterilizzati per trattare le ferite. Uno di questi lo aveva creato apposta Alexander Graham Bell, l’inventore che per primo brevettò il telefono: doveva servire a estrarre la pallottola, ma fu inutile.

Fu però necessaria la morte di un altro presidente perché il Congresso decidesse che il Servizio Segreto avesse fra i suoi compiti basilari la protezione del Commander in Chief. Accadde nel 1901. Il 6 settembre, mentre visitava una mostra al Tempio della Musica di Buffalo, nello Stato di New York, il presidente William Mckinley venne colpito all’addome dall’anarchico Leon Czolgosz. Dopo un apparente miglioramento, Mckinley morì di cancrena una settimana dopo. L’attentatore, catturato e picchiato a sangue dopo l’attentato, venne condannato alla sedia elettrica e giustiziato in ottobre.

Il caso JFK

Di John F. Kennedy e dell’assassinio di Dallas, il 22 novembre 1963, sappiamo tutto, anche se nessun omicidio politico ha mai dato fondo a tante mitologie complottistiche, scenari surreali, accuse campate in aria, compresa quella che in qualche modo fosse coinvolto perfino il vicepresidente Johnson. In verità, giusta l’inchiesta della Commissione Warren, fu un unico attentatore, Lee Harvey Oswald, a sparare contro la limousine scoperta dove viaggiava Kennedy dalla finestra al sesto piano del Texas School Book Depository. Ad alimentare il mistero fu anche la morte violenta di Oswald, ucciso due giorni dopo in un garage mentre veniva trasferito in prigione da Jack Ruby, proprietario di un night club. Il mito dei Kennedy trovò poi il suo atto definitivo con l’omicidio del fratello più giovane, Robert, nel 1968 a Los Angeles, subito dopo aver vinto le primarie democratiche in California.

L’altro comizio

Ma di tutti gli attentati politici americani, uno assomiglia incredibilmente a quello di Trump. Nel 1912 l’ex presidente Theodore Roosevelt era di nuovo candidato alla Casa Bianca, ma durante un comizio a Milwaukee, John Schrank, proprietario di un bar newyorkese, gli sparò un colpo di pistola al petto. A salvare Roosevelt furono i fogli piegati in quattro, con il suo lunghissimo discorso elettorale, che egli aveva messo nel taschino della giacca e che attutirono l’impatto, impedendo al proiettile di penetrare in profondità. Ancorché colpito, Roosevelt continuò a parlare per 84 minuti, scusandosi di dover accorciare il discorso e aggiungendo: «Signore e signori, ci vuole ben altro per uccidere un alce». Roosevelt, che correva per il Progressive perse le elezioni.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio