Celtics, il lato troppo chiaro della luna


Christian Giordano
I BOSTONIANI
I Celtics campioni NBA 1986
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Per la stagione 1985-86 il roster dei Boston Celtics sarebbe stato profondamente diverso. E il tema della profondità non sarebbe stato l’unico in quella calda estate biancoverde. Pure troppo calda. 

M.L. Carr si era appena ritirato e Cedric Maxwell fu ceduto ai San Diego Clippers nello scambio che portò in biancoverde Bill Walton. «I tifosi dei Celtics si sentivano in paradiso – scrive Dan Shaughnessy nel suo EverGreen – Walton era stato il giocatore di metà anni 70, e per gli appassionati da una costa all’altra era il prototipo del perfetto centro di squadra».

Ma c’era un ma. La trade che portò Maxwell a San Diego per Walton e altre mosse del presidente Red Auerbach e del giemme Jan Volk avevano portato anche accuse al front office di razzismo. E quelle accuse toccarono l’apice nel 1986, quando i Celtics si presentarono al via con otto giocatori bianchi e quattro neri in una lega che in campo era per il 72% nera. 

Harvey Araton e Filip Bondy nel loro The Selling of the Green: The Financial Rise and Moral Decline of the Boston Celtics fanno capire come il management cercasse di rimpolpare il più possibile di giocatori bianchi la squadra per compiacerne i tifosi razzisti, andando a caccia – anche aggressiva – delle superstar bianche, e poi trattenendole anche se in declino mentre i neri che il meglio lo avevano già dato venivano subito ceduti. «Oltre alla Celtic Mystique e ai sedici titoli – la conclusione – c’era un’altra legacy che veniva tramandata. I Celtics erano una franchigia di basket con pochi o punto legami con la comunità nera. In nessun’altra città afflitta dalle miserie e dalle tragedie dell’America urbana il basket professionistico era una provincia così esclusiva, una sorta di country club, per il tifoso bianco. I Boston Celtics erano ancora per bianchi. I bianchi erano ancora per i Boston Celtics». I simpatici escrementi nella cassetta della posta di casa Bill Russell non erano solo un retaggio dei (mica tanto mitici) anni Sessanta.

Auerbach e compagnia però potevano sempre controbattere che Boston aveva a curriculum una serie di «prime volte» dei neri nel basket. I Celtics erano stati la prima squadra a sceglierne uno al draft, la prima a schierarne (durante l’èra-Russell) cinque in campo nello stesso momento e la prima ad assumere un capoallenatore nero (lo stesso Russell). E dopo di lui come head coach neri c’erano stati anche i suoi ex compagni K.C. Jones e Tom Satch Sanders. Eppure, lo status privilegiato dei giocatori bianchi a Boston era stato evidente sin dai tempi in cui l’affluenza al Garden era precipitata in seguito al ritiro di Bob Cousy. E sono in tanti a pensare che le carriere di alcuni campioni dei Celtics anni 80 siano state accorciate (anche) dalla mancanza di profondità delle panchine sempre in larga maggioranza bianche.

Auerbach sbrocca ogni qualvolta l’argomento razzismo torna fuori. «Da quando Walter Brown è proprietario – ha dichiarato il presidente a Shaughnessy – lui e io ci incontriamo a quattr’occhi, e prendiamo solo giocatori che riteniamo possano dare il meglio per la squadra. Non c’importa niente di religione, colore o altro, e questo è quanto. La gente cerca sempre di creare problemi o guai. Io neanche ci bado. Mi rifiuto persino di discuterne». Tutto chiaro, pure troppo.



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